Da quando è amministratore delegato di Monte Paschi, Luigi Lovaglio ha frequentato poco o niente Siena e la Toscana. Almeno al di fuori degli impegni di lavoro. E non perché non ami la città e il territorio. Tutt’altro. Ma perché il più antico istituto di credito del mondo (una definizione che non ha mai portato bene in passato, ma tant’è) è così permeato nella storia e nell’identità senese da rendere del tutto irriconoscibili i confini dell’attività professionale. E per un banchiere è il peggiore dei pericoli che possa correre. Soprattutto se deve risanare, tagliare, dire più no che sì.
Il Monte non è solo la più grande istituzione della città. È la città. E la città è il Monte. Senza soluzioni di continuità. Tant’è vero che nel secolo scorso per poterlo dirigere bisognava avere la residenza senese. E poi magari inventarsi un’ulteriore affiliazione contradaiola perché lo spirito del palio avvolge di leggenda e ritualità ogni cosa. Ammalia e seduce. Anche troppo.
Questa totale identificazione ha segnato nel bene e nel male i destini della banca che è stata sempre, nella Toscana «rossa», una pertinenza della sinistra, oltre che di altre solide e riservate appartenenze che non è il caso qui di indagare per quieto vivere.
Oggi il Monte Paschi è più nell’area di influenza della Lega. Ma il presidente espresso da questo esecutivo, Nicola Maione, ha avuto la sensibilità di lasciar operare la struttura nell’autonomia necessaria per consolidare il risanamento. Ora che è il Monte è tornato in equilibrio e a fare utili, anche grazie alla favorevole congiuntura nell’andamento dei tassi d’interesse attivi e passivi, c’è comunque chi, nella maggioranza di governo e nelle istituzioni locali accarezza l’idea che si possano rinverdire le stagioni delle tante clientele aggrappate alla corte rinascimentale di Rocca Salimbeni. Gli appetiti sono stati solo sospesi. Ed è come se ci si attendesse, dopo tanti «sacrifici», una sorta di restituzione al territorio e alla rete delle relazioni professionali.
Monte Paschi poi non è più un partner indigesto da evitare. Un peso insopportabile anche a fronte della promessa di una dote miliardaria che nel caso dell’Unicredit (casualmente la ex banca di Lovaglio) arrivò nel 2021 a sei miliardi. Chissà se Pier Carlo Padoan e Andrea Orcel, che non trovarono un’intesa con il precedente esecutivo, se ne sono pentiti. Avrebbero, in quel modo, finanziato le uscite programmate dell’intero gruppo. Lovaglio ha il merito di aver risanato l’istituto senese facendo «semplicemente» il proprio mestiere. E lo testimoniano le recenti promozioni di tre delle principali agenzie di rating. È stato nominato, nel febbraio del 2022, dal governo Draghi (la presidenza era allora di Patrizia Grieco), scelto dal direttore generale del Tesoro, Alessandro Rivera, che sostenne la sua richiesta di un aumento di capitale di 2,5 miliardi. Il mercato non riteneva l’operazione possibile. Il Mef ci mise pro quota, per il proprio 64 per cento, 1,6 miliardi. In un solo giorno sono stati mandati a casa 4 mila dipendenti. Cosa che non era mai accaduta. Anche grazie a generosi (per usare un eufemismo) scivoli d’uscita.
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Lovaglio ha sfoltito la giungla delle troppe società controllate, sentine di rendite di posizione. Insistito sul risparmio gestito e sui servizi di bancassurance. Sembrava che Mps non potesse più riprendersi dopo le disavventure causate dall’oneroso acquisto dell’Antonveneta, dallo scandalo dei derivati e dalle successive inchieste giudiziarie. Per la cronaca, l’assoluzione dell’ex presidente, Giuseppe Mussari, e dell’ex direttore generale, Antonio Vigni, è stata recentemente confermata dalla Cassazione. Il prossimo 11 dicembre è attesa la sentenza d’appello nel procedimento che vede coinvolti Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, protagonisti della prima delicata fase di salvataggio. Si diradano, seppur lentamente, le tante incognite di carattere legale — che offuscano ancora l’orizzonte della banca e costituiscono un serio ostacolo per future e necessarie aggregazioni — anche se negli incontri con gli analisti di mercato, Lovaglio ha sempre teso a considerarle sopravvalutate. Colpa forse di qualche passata transazione di troppo (una delle quali al 9% della somma richiesta, tanto per chiuderla lì).
Con le parti civili le cause aperte hanno un valore di circa 800 milioni; per i procedimenti penali di 200 milioni. I reclami ammontano a 1,9 miliardi, avanzati quasi tutti dalla società di consulenza Martingale. Il fatto poi che la Corte d’Appello di Milano, lo scorso 9 novembre, abbia respinto la richiesta di risarcimento per 450 milioni del fondo Alken — collegato al finanziere Giuseppe Bivona — ha fatto crescere l’ottimismo che i rischi reali possano ridursi in prospettiva nell’ambito della normalità operativa. La banca ha declassato a rischio remoto gli 1,2 miliardi di petitum in seguito all’assoluzione definitiva di Mussapi e Vigni. Le sentenze favorevoli sono state finora 13.
Il Tesoro ha annunciato, a sorpresa, la vendita del 20% delle azioni, poi alzata al 25% riducendo peraltro lo sconto. Ha incassato 920 milioni. Poteva offrire di più? Certamente, avendo una quota rimanente di larga maggioranza relativa. La mossa, comunque, rappresenta un segnale forte lungo la strada della privatizzazione, cui peraltro l’Italia si era impegnata con l’Unione europea come sbocco del forzato intervento pubblico del 2017 per complessivi 5,4 miliardi.
I conti e il futuro
Le minusvalenze, rispetto a quanto lo Stato ha messo per salvare il Monte, saranno in ogni caso rilevanti. Ma oggi la banca ha una redditività del 15% e si aspetta un utile a fine 2023 di oltre 1,2 miliardi. Vale tra i 4 e i 5 miliardi. E avere un istituto in grado di potersi fondere, senza essere considerato e vissuto dal partner come un peso ingombrante, ricco solo di benefici fiscali incorporati (per circa 3 miliardi) e di un’eventuale dote, ha un rilevante valore di sistema.
Altri azionisti privati di primarie banche hanno avuto, in questi anni, minusvalenze comparabili se non superiori. L’aggregazione ora è necessaria. E i candidati sono due, il Banco Bpm, di cui è amministratore delegato Giuseppe Castagna, e il gruppo Bper e Unipol, il cui gran capo è Carlo Cimbri. A parole non sono interessati. Non sarà tanto una questione di concambi, bensì di governance. Ovvero di chi comanda, generalmente il più grande, quello che incorpora e acquisisce. Ciò che forse, nel profondo della società che ruota intorno al Monte Paschi, si teme di più. I risanamenti hanno anche questo effetto collaterale. Ci si dimentica, di colpo, tutto ciò che è avvenuto in precedenza. Monte Paschi deve solo temere di non finire, ancora una volta, preda di se stesso.
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05 dic 2023
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