Altro che acciaio: l’Ilva è l’emblema di uno Stato (e di una politica) che sconfina
di Daniele Manca
Il governo ha deciso che ArcelorMittal dovrà uscire dall’ex Ilva e il gruppo franco-indiano non farà barricate. Se l’uscita «morbida» del socio privato da Acciaierie d’Italia è ovviamente quella preferita dal governo, anche ArcelorMittal si sarebbe convinta che un lungo contenzioso legale non converrebbe a nessuno (tanto meno l’amministrazione straordinaria che avrebbe, tra le altre cose, impatto negativo su fornitori e indotto). E anche sull’indennizzo da richiedere, i franco-indiani — secondo quanto riferito da fonti vicine alle negoziazioni — non faranno problemi di prezzo. Potrebbero accontentarsi di una «buonuscita» scontata del 30-40%: basterebbero 300 milioni, probabilmente anche 250, per chiudere consensualmente la partita, a fronte di un valore contabile di circa 420 milioni (ovvero il 40% della valutazione della società al momento dell’ingresso di Invitalia nel 2020). Attualmente ArcelorMittal detiene il 62% di Acciaierie d’Italia a fronte del 38% di Invitalia. Ma il veicolo pubblico è destinato a salire al 60% (e il socio privato a diluirsi al 40%, da cui la valutazione contabile di 420 milioni) con la conversione del prestito obbligazionario da 680 milioni di un anno fa.
di Daniele Manca
ArcelorMittal, quindi, si accontenterebbe di un indennizzo scontato, a patto che arrivi subito. E il tempo è l’altra variabile, insieme al prezzo, della trattativa tra i legali di Invitalia e ArcelorMittal. Per mettere a disposizione i 250-300 milioni, Invitalia dovrà avere il via libera del ministero dell’Economia: scontato (stando alle dichiarazioni rilasciate a più riprese a fine 2023 dal ministro Giancarlo Giorgetti), ma comunque non immediato. E se da una parte il governo — anche per soddisfare le richieste dei sindacati — ha fissato come data limite per la trattativa il prossimo 17 gennaio, dall’altra se sarà necessario qualche giorno in più non sarà un piccolo slittamento della deadline a far saltare l’intesa. A quel punto inizierà il lavoro più difficile del governo: reperire subito i 320 milioni di risorse che servono per le materie prime e per far ripartire la macchina; individuare la nuova guida dell’azienda in sostituzione dell’ad Lucia Morselli; ricercare il socio privato (e Arvedi è in prima fila) che possa ricoprire il ruolo di partner industriale.
ArcelorMittal, dal suo canto, dirà addio all’Italia, così come auspicato da governo e sindacati. E si concentrerà su altri investimenti, come quello annunciato dal ministro francese dell’Economia Bruno Le Maire: ArcelorMittal decarbonizzerà l’acciaieria di Dunkerque costruendo due forni elettrici con un investimento da 1,8 miliardi sostenuto dallo Stato francese fino a 850 milioni. Notizia che ha destato sorpresa e critica negli ambienti industriali e sindacali tarantini «perché Mittal, ancora una volta, sceglie di investire all’estero e non in Italia». Eppure lo scorso 11 settembre il ministro per gli Affari europei Raffaele Fitto aveva sottoscritto con ArcelorMittal un memorandum of understanding molto simile a quello francese con cifre anche più importanti: investimenti per 4,62 miliardi, di cui 2,27 provenienti da fondi pubblici. Ma l’intesa non piacque né a Invitalia né al collega di governo Adolfo Urso, ministro delle Imprese e del Made in Italy. E così quel memorandum è diventato carta straccia: i notai ratificheranno solo un divorzio.
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15 gen 2024
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