Privatizzazioni, tocca a Poste e Ferrovie: cosa vuole fare Meloni (che punta a 20 miliardi)

Privatizzazioni, dopo Mps tocca a Poste e Ferrovie: ecco cosa vuole fare Meloni Privatizzazioni, dopo Mps tocca a Poste e Ferrovie: ecco cosa vuole fare Meloni

Alla fine, il respiro della Manovra 2024 è stato tutto sommato limitato. Il problema, come sempre, sono i soldi. Ma al prossimo giro si rischia che la situazione sia ancora più difficile. Dunque, guardando avanti, per trovare fino all’ultimo centesimo necessario a non rischiare di cancellare qualcuna delle misure finanziate quest’anno, il governo Meloni ha deciso di vendere alcuni dei gioielli di famiglia (cioè dello Stato). La premier ne ha parlato durante la conferenza stampa che doveva essere di fine anno, ma essendo stata posticipata per ben due volte per indisposizione della presidente del Consiglio, è stata fatta, alla fine, il 4 gennaio. Meloni ha confermato ai giornalisti che tra i dossier sul tavolo del governo c’è quello delle privatizzazioni.

I conti della NaDef: dalle privatizzazioni incassi per 20 miliardi

I conti li aveva già fatti la NaDef dello scorso settembre: 20 miliardi di euro stimati in tre anni. Non male. Meloni però mette le mani avanti: «L’impostazione del governo è lontana anni luce dal passato, quando erano regali milionari a fortunati imprenditori ben inseriti», ha detto durante la conferenza stampa, alludendo a privatizzazioni come quella della Sme a metà degli anni 80. «La mia idea è ridurre la presenza dello Stato dove non è necessaria e riaffermarla dove lo è». La soluzione, dunque, potrebbe essere vendere il possibile, senza però far perdere il controllo allo Stato nelle aziende partecipate. Per dirla con le parole della Meloni: «Riduzione di quote di partecipazione statale che non riduce il controllo pubblico». La Meloni ha poi fatto un esempio, quello di Poste, «mentre penso ci sia la possibilità di fare entrare i privati in società dove c’è il totale controllo pubblico come in Ferrovie», ha concluso. Secondo alcune stime, già solo vendendo il 49% delle quote di Fs e meno del 14% di Poste, di cui lo Stato detiene attualmente poco meno del 65%, il governo potrebbe mettere le mani su un tesoretto compreso tra 4,7 e 6,7 miliardi di euro.

Una lunga storia di dismissioni

Naturalmente, davanti alla privatizzazione degli enti statali c’è chi è pro e chi è contro. Del resto, la discussione è aperta sin da epoca fascista. E se le grandi dismissioni di un trentennio fa (dalla Stet ad Autostrade, dalla Sme alla Finsider) sono considerate dca alcuni analisti una svolta dell’economia italiana, con una drastica cura dimagrante che consentì alle casse statali una seconda giovinezza (non prive comunque di ombre, si veda ad esempio il caso dell’ex-Italsider di Taranto), forse oggi nessuno crede sia possibile realizzare, in soli tre anni, ulteriori privatizzazioni per un importo dell’1% del prodotto interno lordo (Pil) indicato nell’ultima NaDef, come ha spiegato nei mesi scorsi, su l’Economia del Corriere della Sera, Ferruccio de Bortoli. Staremo a vedere.

L’esempio di Mps

Intanto, il governo prende coraggio guardando a Monti dei Paschi: «Abbiamo dato un bel segnale per Mps, alcune risorse sono rientrate», ha spiegato Meloni. E se la Lega a dicembre aveva rilanciato la proposta di quotare le società in house (quelle che gestiscono i rifiuti, l’acqua i trasporti e altri servizi essenziali come Ama a Roma o Amat a Milano), come primo passo per far partire il piano privatizzazioni, per il vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani la direzione indicata da Meloni è quella giusta. «Berlusconi ne ha fatto un cavallo di battaglia e sono soddisfatto che anche il presidente del Consiglio nel corso della conferenza stampa di oggi abbia toccato questi temi, particolarmente a cuore a Fi», ha commentato l’azzurro.

Poste e Ferrovie

Al di là della proposta della Lega, finora, ogni volta che si è parlato di privatizzazioni, l’elenco delle possibili società da mettere sul mercato ha sempre toccato gli stessi gioielli: Poste, Ferrovie dello Stato, Eni.
Come detto, perché Poste resti a controllo statale (51%), significa che si può vendere al massimo il 13,7% da pescare tra il 29,26% del Ministero dell’Economia e il 35% in mano a Cassa Depositi e Prestiti: l’operazione potrebbe fruttare circa 1,7 miliardi di euro. Per quanto riguarda Ferrovie dello Stato, il 49% del capitale potrebbe valere tra i 3 e i 5 miliardi (la forchetta è ampia perché queste stime sono tutte da verificare). E così si arriva a quei 4,7-6,7 miliardi ipotizzati qui sopra. Per quanto riguarda la tempistica, «soprattutto su Ferrovie, richiede una serie di passaggi abbastanza lunghi», ha concluso durante la conferenza stampa Meloni. Anche perché, ha ammesso, «non dipende solo da me».

Le altre società nel mirino

All’appello, però, per arrivare ai 20 miliardi (quell’1% del Pil annunciato nella NaDef), ne mancano almeno 15. Certo, c’è Mps: se nel 2024 la banca senese sarà ceduta, com’è negli impegni con l’Ue, il Mef dal suo 64% potrebbe ottenere 2 miliardi. Anche Ita Airways è in vendita, una volta ceduto la prima «tranche» del 41% a Lufthansa per 325 milioni: completare la cessione frutterebbe altri 309 milioni. Ecco che allora, se si vuole davvero raggiungere quell’obiettivo, diventa impossibile non alleggerire le quote di maggioranza relativa di Eni, Enel, Leonardo, Terna e Snam. Per la prima, sarebbe liquidabile un 12,35% (incasso ai valori attuali di almeno 6 miliardi), il 3,6% di Enel a 2 miliardi, un 10,2% di Leonardo a 0,79 miliardi, il 9,8% di Terna a 1,39 miliardi, l’11,3% di Snam a 1,66 miliardi. E siamo più o meno a 20 miliardi. I calcoli fatti così riescono bene; ma nella pratica sappiamo che le operazioni dettate dall’urgenza possono deprimere il corso dei titoli e far saltare i conti, come spiega ancora Ferruccio de Bortoli. Senza contare che troppo spesso lo Stato ha dimostrato l’incapacità di gestire le cessioni pubbliche in modo da trasformarle in un volano per la produttività.

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