Altro che acciaio: l’Ilva è l’emblema di uno Stato (e di una politica) che sconfina

Altro che acciaio: l'Ilva è l'emblema di uno Stato (e di una politica) che sconfina Altro che acciaio: l’Ilva è l’emblema di uno Stato (e di una politica) che sconfina

Si sta ingenerando una convinzione poco salutare per il sistema economico nazionale e non solo. E cioè che lo Stato sia una soluzione praticabile per la gestione delle grandi partite economiche. Vero. Il pubblico può fare molto. Ma questo presenta non pochi rischi. Il caso dell’Ilva è emblematico. Lo Stato non è un qualcosa di indistinto. È fatto di amministrazione e di politica. E, come spesso accade, quest’ultima pensa di indirizzare senza porsi il problema delle conseguenze delle sue decisioni. Il disimpegno dei soci indiani dell’ex Ilva era chiaro da tempo. Da quando, cambiando in corsa le regole del gioco, fu tolto lo scudo legale a Mittal su reati eventualmente commessi da altri prima del loro ingresso nella società.Oggi si torna a parlare di commissariamento, di nazionalizzazione. Ma per fare cosa? Con quali investimenti? Con quali obiettivi? Si dimentica che un’azienda deve essere per prima cosa sostenibile economicamente per sopravvivere e distribuire la ricchezza eventualmente prodotta. Per farlo servono piani industriali e manager.

Una politica che per definizione è ostaggio del consenso, dei cittadini che la votano, e anche a Taranto votano, come potrebbe farsi carico di un piano industriale che, a detta di tutti gli esperti e imprenditori del settore, dovrebbe prevedere il dimezzamento degli addetti dell’Ilva in Puglia? E arriviamo al nodo. Gli attori produttivi non possono che essere soggetti privati con un obiettivo: la sostenibilità economica. Al pubblico, alla politica, spetta la composizione di interessi. Tra i quali c’è quello dei lavoratori ad avere un impiego, e poter condurre una vita dignitosa. Ma questo lo Stato non può garantirlo inventandosi dall’oggi al domani il mestiere di produttore di acciaio. Meglio adoperarsi affinché chi perde un lavoro non sia lasciato a sé stesso ma venga aiutato in attesa di trovare un altro impiego. Per fare questo servono politiche sociali e una politica che capisca che lo Stato dovrebbe imparare innanzitutto a far funzionare sé stesso. E poi, forse, a occuparsi di cose di cui evidentemente capisce poco.

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