La marea umana in Australia e l’Ucraina tra guerra e neve America-Cina 27 novembre

America-Cina Il Punto | La newsletter del Corriere della Sera
testata
Lunedì 27 novembre 2023
«Noi siamo la marea che sale»
editorialista di michele farina

Dall’altra parte del mondo migliaia di persone l’hanno scritto sulla spiaggia con i loro corpi, dopo aver bloccato pacificamente per qualche ora il grande porto del carbone. Oggi il nostro giro comincia con la neve (e la guerra) in Ucraina (in Europa), passa per le speranze del Medio Oriente e gli spettri delle banche ombra cinesi, e spinto dal vento del Mediterraneo arriva fino in Australia. È ancora necessario ricordarci che il clima sta cambiando e dobbiamo fare qualcosa?

Buona lettura.

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1. La tempesta di Odessa
editorialista
di marta serafinii
inviata a Odessa

Le «intense ostilità» fra eserciti russo e ucraino continuano nell’Est e nel Sud del Paese invaso: lo ha detto il presidente Volodymyr Zelensky nel suo discorso serale. «Le intense ostilità non si fermano neanche per un’ora nelle direzioni di Donetsk e nella regione di Kharkiv - in direzione di Kupyansk. I nostri guerrieri mantengono le loro posizioni anche nel sud del Paese: La regione di Zaporizhzhia, la nostra regione di Kherson». Zelensky ieri sera però anche parlato del maltempo: una tempesta di neve e ghiaccio ha investito tutta la regione di Odessa e del Mar Nero, in quella che alcuni ucraini hanno già definito la peggiore tempesta degli ultimi cento anni.

imageLa vista dal teatro dell’Opera di Odessa (Fabrizio Minini)

  • Le autostrade verso Mykolaiv e Kiev questa mattina sono chiuse, molti mezzi di trasporto sono fermi, la circolazione è complicata, ci sono stati numerosi blackout in città e in tutta la regione, secondo i servizi di sicurezza ucraini fuori dalla città è cadut un metro e mezzo di neve. E Odessa, ricoperta dalla neve e dal ghiaccio, resta isolata dal resto del mondo nella sua infinita bellezza.
2. Spie russe «dormienti» in Ucraina?

(Marta Serafini) Mosca avrebbe attivato una rete di spie «dormienti» in Ucraina negli ultimi due mesi mentre Putin cerca di destabilizzare ulteriormente il Paese a fronte dello stallo militare in corso. È la teoria del consigliere militare del presidente Zelensky, Oleksiy Danilov, che in un’intervista al Times ha palato di «agenti russi dormienti inseriti nelle istituzioni pubbliche tra cui la SBU, il servizio di sicurezza interna dell’Ucraina cui sarebbe stato ordinato di minare l’unità del Paese». Danilov ha spiegato anche le ragioni di questa operazione: «I russi sanno che non possono vincere militarmente, quindi provano a indebolire l’Ucraina con questi sistemi».

  • Queste dichiarazioni arrivano dopo le polemiche seguite alla pubblicazione sull’Economist di un editoriale del generale Valery Zaluzhny, comandante in capo dell’esercito ucraino che ha parlato esplicitamente di stallo. Parole che hanno fatto infuriare il presidente Zelensky. Danilov spiega come gli agenti russi stiano cercando di sfruttare queste «cosiddette tensioni» tra Zelensky e Zaluzhny diffondendo «false narrazioni» per creare una campagna di disinformazione di cui gli stessi vertici ucraini hanno parlato nei giorni scorsi, in occasione dell’anniversario delle proteste di piazza Maidan.
  • Secondo il consigliere militare, Putin è alla disperata ricerca un successo tangibile, prima di marzo, quando in Russia si terranno le elezioni presidenziali. Alla domanda su dove operino gli agenti dormienti appena attivati, Danilov ha risposto: «Abbiamo fatto un grosso errore nel 1991 quando non abbiamo chiuso il KGB ma abbiamo semplicemente cambiato il suo nome in SBU e le metastasi del KGB sono rimaste». Ha aggiunto che quando Viktor Yanukovych era presidente dell’Ucraina tra il 2010 al 2014, il servizio di sicurezza delle SBU era pesantemente infiltrato da agenti dell’FSB, l’agenzia erede del KGB. Secondo Danilov, il fatto che sia in corso un processo contro Oleh Kulinich (l’ex capo della SBU in Crimea, ndr) con l’accusa di alto tradimento «ne è una prova concreta».
3. Il presidente ceco Pavel: «E le nostre promesse a Kiev?»
editorialista
di marilisa palumbo
inviata a Praga

Percorrendo i lunghissimi corridoi del meraviglioso castello che domina tutta Praga, si capisce perché Václav Havel – il drammaturgo, poeta e leader della dissidenza che fu il primo presidente della Cecoslovacchia liberata dal regime comunista – usasse percorrerlo «a bordo» di un monopattino. Oggi al posto del volto della rivoluzione di velluto c’è un ex comandante della Nato che nel gennaio scorso ha fatto tirare un sospiro di sollievo a Bruxelles sconfiggendo l’ex premier populista «modello trumpiano» Andrej Babiš, e riportando a palazzo un europeismo e un atlantismo che mancavano da molto tempo, considerate le posizioni filorusse e filocinesi del suo predecessore Miloš Zeman.

  • Petr Pavel ha 62 anni, capelli e barba bianca curatissimi, un viso da attore. Lo abbiamo incontrato qualche giorno fa alla vigilia del suo viaggio in Italia, dove arriverà oggi con la moglie Eva per poi incontrare Sergio Mattarella e Giorgia Meloni, e spostarsi mercoledì a Milano con una folta delegazione di imprenditori. Mentre parliamo – delle incertezze occidentali sull’Ucraina, di Difesa europea ed euroscetticismo – ci osservano due adolescenti scelti dall’Unicef per passare una giornata con il capo dello Stato... (qui l’intervista completa).
4. L’Ungheria sempre più lontana dalla Ue
editorialista
di francesca basso
corrispondente da Bruxelles

La politica dell’Unione europea nei confronti dell’Ucraina si scontra con il voto all’unanimità. E l’Ungheria ha già annunciato il veto sulle decisioni che i leader Ue dovranno prendere su Kiev al Consiglio europeo del 14 e 15 dicembre. Per questo oggi il presidente del Consiglio europeo Michel è in visita dal premier ungherese Orbán a Budapest: per capire cosa freni l’Ungheria e dunque salvare il summit di dicembre, che si preannuncia lungo e complicato. Se la Ue non troverà un’intesa sui vari capitoli il fallimento politico sarà enorme. Ed è noto che Orbán usa sempre il veto per ottenere qualcosa per sé (i 32 miliardi di fondi Ue che spettano a Budapest sono ancora congelati per mancato rispetto dello Stato di diritto, la scorsa settimana è stato dato semaforo verde solo a 920 milioni del capitolo RepowerEu del Pnrr).

imageViktor Orbán, premier ungherese

  • Sul tavolo dei leader Ue ci sono l’allargamento all’Ucraina (la decisione se aprire o meno i negoziati di adesione), il sostegno finanziario a Kiev (un pacchetto da 50 miliardi di euro fino al 2027, di cui 33 miliardi in prestiti e 17 miliardi a fondo perduto provenienti dal Bilancio Ue) e la revisione di medio termine del Budget Ue che prevede non solo i fondi per Kiev ma anche quelli per affrontare la dimensione esterna dell’immigrazione, su cui punta l’Italia. La scorsa settimana Budapest ha dichiarato in una lettera di volere una «discussione strategica» sul sostegno finanziario Ue all’Ucraina e sull’impatto delle sanzioni russe sugli Stati membri prima di prendere in considerazione maggiori aiuti o impegni in materia di sicurezza. Abbastanza per mettere in allarme Michel.
  • Ma l’Ungheria non è l’unico Paese Ue critico nei confronti dell’allargamento e degli aiuti per l’Ucraina. La lista comprende anche la Slovacchia da quando alla guida c’è Robert Fico e potrebbe includere l’Olanda di Geert Wilders. Non sono previsti punti stampa dopo l’incontro tra Orbán e Michel, che si è limitato a postare su X due foto del suo arrivo con un commento stringato: «A Budapest per le consultazioni in preparazione del Consiglio europeo con il primo ministro Viktor Orbán. L’unità dell’Ue richiede uno sforzo costante ed è la nostra principale forza».
  • La visita avviene in un momento doppiamente delicato. Il premier ungherese ha infatti appena lanciato una campagna nazionale contro la Ue: sono stati affissi manifesti che ritraggono la presidente della Commissione von der Leyen al fianco del figlio di George Soros (il finanziere statunitense di origine ebraica che è spesso attaccato dal premier ungherese) con lo slogan «non balliamo al ritmo che loro fischiettano». La campagna accompagna una consultazione non vincolante destinata a svolgersi per corrispondenza o via Internet durante le feste natalizie: undici domande, a risposta sì/no, molte delle quali includono affermazioni di parte o accuse non provate. Si dice che Bruxelles vorrebbe creare «ghetti per migranti» in Ungheria oppure che fondi Ue avrebbero finanziato Hamas. L’Ungheria sembra sempre più lontana da Bruxelles.
5. E ora che succede in Olanda?
editorialista
di Irene soave

Che un governo olandese impieghi tanto a formarsi non è strano: le coalizioni per l’ultimo, il Rutte IV uscente, durarono quanto una gestazione umana, nove mesi. Era il 2021. La creatura non è sopravvissuta, e mercoledì scorso gli olandesi sono tornati a votare. Non è strano, dunque, che passati solo cinque giorni dalle elezioni le trattative per il nuovo governo siano a un’apparente impasse; succede sempre, sempre dopo lunghi colloqui si trova la via.

imageGeert Wilders

  • Eppure c’è chi in questa impasse legge un possibile argine alla marea di partiti di estrema destra che da anni si infilano nei governi di mezza Europa, con qualche eccezione — Polonia, Spagna — ma sempre più sdoganati, sempre meno inaccettabili. Le elezioni olandese le ha stravinte, non vinte, lo xenofobo Geert Wilders; dopo diverse legislature in continua crescita il suo Partie voor de Vreijheit, partito per la libertà, ha preso il 23% dei voti. E le ha straperse, non perse, il partito di Rutte che ha governato per tredici anni; su un Parlamento di 150 seggi ne ha perduti dieci, e alle urne è terzo. Il volto della sconfitta non è quello di Mark Rutte, che prudentemente ha mantenuto un profilo basso. Ma quello della sua successora, Dilan Yesilgoz-Zegerius.
  • Cognome turco-curdo da nubile e poi sposata Zegerius (René: funzionario della Sanità), Yesilgoz-Zegerius,sarebbe stata la prima premier donna dei Paesi Bassi. Ha impostato l’intera campagna elettorale sulla promessa di compiere il giro di vite sull’immigrazione che ha fatto cadere il governo Rutte; è passata così per una figura leggermente opportunista, pronta a rinnegare il suo passato di richiedente asilo, pur di governare. È stata ribattezzata «il pitbull». Ha dichiarato più volte, unica tra i leader politici unanimi nell’ostracismo, che avrebbe potuto governare con il Pvv di Wilders come alleato. Sottinteso, con i Liberali alla guida. Le urne l’hanno smentita: le carte di questo governo non può darle lei.
  • Wilders, prima ancora di farle una telefonata, l’ha chiamata immediatamente in correo con un tweet, a spogli ancora in corso: governerò, ha scritto, col supporto di Liberali, Centristi e partito dei Contadini. Ma il solo sostegno che ha incassato è quello dei contadini. Il loro Boer Burger Beweging è stata una scossa d’avvertimento alle elezioni locali di marzo, travolgendo ovunque i Liberali ed esprimendo una forte spinta antisistema. Il leader del partito di centro Nsc Pieter Omtzigt sta ben zitto, e non fa sapere se sosterrà un governo Wilders o no. La sorpresa sono stati i Liberali. Nemmeno 24 ore dopo Dilan Yesilgoz-Zegerius comunicava ai suoi, e quindi alla stampa: noi Liberali non governeremo. Sosterremo il governo sulle singole mozioni, ma gli elettori ci hanno dato un segnale, vogliono che stiamo in panchina. L’ala destra del partito la tira per la giacca: «Bisogna mostrare responsabilità, la gente vuole una stretta sull’immigrazione e dobbiamo dargliela». Wilders è furente e lo esprime sui social: «Il tempo dei trucchetti politici è finito, qualche politico non lo capisce». Lei ha parlato, e tiene il punto.
  • Intanto Gom van Strien, l’anziano senatore del partito di Wilders che era stato nominato come «informateur», cioè come sherpa incaricato di sentire le esigenze dei possibili alleati di governo (in Olanda è una figura istituzionalizzata), ha lasciato l’incarico. Uno scandalo all’università di Utrecht, in cui lui sarebbe coinvolto, lo ha costretto a fermarsi; e il Pvv, partito padronale il cui unico iscritto per statuto è Geert Wilders, non dispone di molte altre figure in grado di sostituirlo nelle trattative. Gli osservatori immaginano Dilan Yesilgoz come un personaggio chiave della narrativa nazionale olandese: Hans Brinker, piccolo grande eroe che andando a scuola si imbatte in una diga che perde. Un buco nelle pareti fa fluire molta acqua, e la diga rischia di inondare l’intera città di Haarlem; lui ci infila il suo ditino e ferma l’inondazione. Le trattative per il governo saranno ancora lunghissime, ma Dilan Yesilgoz per ora è lì, col suo ditino nella diga.
6. Cina: uno spettro nelle «banche ombra»
editorialista
di guido santevecchi

Lo spettro dell’insolvenza circola nel sistema delle «banche ombra» che per anni hanno finanziato il settore immobiliare in Cina, alimentando la bolla del debito. Zhongzhi, uno dei più grandi gestori patrimoniali della Repubblica popolare è sotto inchiesta per «attività criminose», dopo aver comunicato ai suoi investitori di aver scoperto un buco nei conti da almeno 260 miliardi di yuan (33 miliardi di euro). Le autorità hanno comunicato che «misure coercitive» sono state adottate nei confronti di «molti sospetti» per l’insolvenza. Tra i dirigenti arrestati figura un certo Xie, lo stesso cognome del fondatore di Zhongzhi, Xie Zhikun, morto all’età di 61 anni per un attacco di cuore nel 2021, mentre faceva ginnastica al mattino. È noto che diversi parenti del finanziere mandarino d’assalto sono rimasti nel gruppo con posizioni di vertice, mentre diversi manager di prima fascia lasciarono il gruppo nel 2021 dopo la morte del grande capo.

imageXie Zhikun, il fondatore di Zhongzhi. Dalla sua morte per infarto nel 2021 le cose hanno cominciato ad andare male

  • L’espressione «banche ombra» in Cina identifica il sistema di prestiti, brokeraggio, intermediazioni varie dei finanziamenti che agisce al di fuori delle banche tradizionali regolate dallo Stato. Queste banche parallele non debbono seguire regole di tasso di liquidità e di esposizione rispetto al capitale. Il finanziamento ombra ha avuto un boom a Pechino a partire dalla grande crisi finanziaria globale del 2008 e secondo gli analisti oggi vale (o dovrebbe valere) non meno di tremila miliardi di euro. Il crollo del colosso Zhongzhi, che al picco del suo successo aveva in gestione più di 1.000 miliardi di yuan (128 miliardi in euro) rischia di aprire la diga di tutto il sistema, proprio mentre il governo di Pechino cerca di pilotare la crisi del settore immobiliare paralizzato dalla mancanza di credito.
  • Si calcola che i costruttori cinesi abbiano un debito equivalente al 30 per cento del patrimonio delle banche tradizionali; le banche ombra sono molto più esposte. Il rischio di contagio nelle insolvenze rappresenta una bomba ad orologeria che Xi Jinping ha ordinato ai suoi tecnocrati di disinnescare. Ma ci vuole molto più che un’azione di polizia per sciogliere l’intreccio di relazioni e connivenze nel sistema finanziario che per anni ha alimentato la crescita della seconda economia del mondo.
7. Cibi pronti: la nuova impresa di Jack Ma

(Guido Santevecchi) «I piatti della cucina di Ma di Hangzhou»: è il nome della nuova impresa di Jack Ma, il fondatore di Alibaba costretto a uscire di scena dopo aver sfidato il potere del Partito comunista cinese. Il miliardario che fu profeta dell’e-commerce globalizzato ora promette di rifornire i cinesi di cibo precotto e preconfezionato, pronto da mettere al forno e consumare a casa. Questo mercato in Cina si è sviluppato durante i tre anni della pandemia, quando i lockdown costringevano la gente a stare a casa. Il capitale della nuova società è 10 milioni di yuan, equivalenti a 1,28 milioni di euro. D’altra parte, quando nel 1999 Jack aveva costituito Alibaba con 18 cofondatori, i fondi messi insieme erano solo 50 mila dollari. La «Cucina di Ma» è stata registrata a Hangzhou, dove il miliardario è nato e dove c’è sempre il quartier generale di Alibaba, che da mesi sta attraversando una fase di delicata ristrutturazione.

imageJack Ma alle prese con un piatto di spaghetti cinesi nel 2017

  • Il genio di Hangzhou ha formalmente lasciato ogni carica nel colosso Alibaba nel 2019 e da tre anni è quasi invisibile: il suo oscuramento è cominciato nell’ottobre 2020, quando definì il sistema finanziario controllato dal Partito comunista «un banco dei pegni che soffoca l’innovazione economica»... (qui l’articolo completo).
8. Accanimento contro l’agente che uccise George Floyd?
editorialista
di massimo gaggi
da New York

Accoltellato venerdì in un carcere di Tucson in Arizona, Derek Chauvin sopravviverà, ma il suo sta diventando un caso di accanimento della giustizia e del sistema penitenziario Usa nei confronti di un uomo sicuramente meritevole di una punizione severa. Il poliziotto di Minneapolis, condannato a 21 anni di carcere per aver ucciso nel 2020 George Floyd tenendogli per nove minuti un ginocchio sul collo, ha ricevuto una pena molto dura, considerato che l’uccisione, sicuramente dovuta a un comportamento scellerato, un uso di cieca violenza repressiva, non è stata trattata come omicidio volontario.

imageDerek Chauvin durante il processo

  • La morte di Floyd, ripresa coi telefonini e vista da tutti nel mondo, ha provocato un’enorme ondata di indignazione, proteste in ogni parte d’America, rivolte nei ghetti neri: la richiesta di una punizione esemplare è stata esaudita e la Corte Suprema ha respinto senza neanche discuterlo un ricorso degli avvocati, per i quali Chauvin non ha ricevuto un processo equo. I legali dell’ex poliziotto, però, non sono stati ascoltati nemmeno quando hanno chiesto di proteggere e isolare l’ex agente dato che, come ha detto il suo avvocato, Greg Erickson, «molti detenuti senza nulla da perdere vorrebbero diventare celebri uccidendolo»... (qui l’articolo completo).
9. Zelensky, Netanyahu (e l’ombra di Putin)
editorialista
di lorenzo cremonesi
inviato a Gerusalemme

L’odissea a Gaza dell’ostaggio russo-israeliano Roni Kariboi appena rilasciato da Hamas a caccia delle simpatie di Putin non deve trarre in inganno: Netanyahu e Zelensky sono due figure estremamente distanti, con storie diverse e destini ben poco assimilabili. Il presidente ucraino appena dopo l’eccidio compiuto da Hamas il 7 ottobre si era offerto di venire a Gerusalemme per portare sostegno e solidarietà ad Israele, nello stesso periodo il presidente Biden, intenzionato a continuare l’impegno di finanziare Kiev contro Mosca, aveva frettolosamente assimilato la causa ucraina a quella israeliana. Ma è stato lo stesso Netanyahu a «snobbare» l’offerta di Zelensky.

  • «Non è il momento giusto», aveva fatto dire ai suoi portavoce. La risposta è coerente alla posizione tenuta dal governo israeliano sin dal momento dell’invasione russa del 24 febbraio 2022. Israele mantiene legami discretamente cordiali con il regime di Putin, servono per garantire le proprie operazioni militari tra Siria e Libano, per continuare i rapporti economici estremamente redditizi in barba all’embargo occidentale contro la Russia, per soddisfare i desiderata della forte comunità di ebrei russi immigrati in Israele sin dai primi anni Novanta. Va anche aggiunto che le relazioni personali del populista Bibi con il dittatore russo sono estremamente più calorose che non con Zelensky. Il fatto che anche il presidente ucraino sia di origini ebraiche in questo caso conta molto poco.
  • A tutto questo va aggiunto che nella sostanza anche le politiche di Zelensky e Netanyahu sono molto diverse. Zelensky si è trovato a guidare il suo Paese invaso da un nemico molto più potente e numeroso: è diventato il paladino dei valori delle democrazie occidentali. I carri armati russi minacciavano di occupare Kiev e distruggere l’indipendenza e la democrazia ucraine. Anche se oggi la sua stella è meno brillante di un anno fa, il presidente ucraino resta l’eroe che ha saputo resistere e minare le mire imperiali di Putin. Oggi la sua richiesta di visita a Gerusalemme è sostanzialmente dettata dal desiderio di restare visibile e al centro dell’attenzione internazionale per continuare la lotta contro l’invasione.
  • Non così Netanyahu, che guida il governo più nazionalista e fanatico nella storia del suo Paese. Prima del 7 ottobre Israele era in semi guerra civile, ed è stata questa una delle cause che ha portato a sottovalutare la minaccia dei terroristi islamici di Hamas. Una parte degli israeliani attribuisce al premier le colpe del fallimento contro l’attacco di Hamas. Zelensky lotta per la democrazia e l’indipendenza. Netanyahu cerca di salvare la propria carriera politica con una coalizione di nazionalisti-religiosi che ancora adesso non dicono con chiarezza come intendono governare Gaza a guerra finita e in verità una parte di loro non solo nega qualsiasi validità al compromesso politico dei due Stati, ma soprattutto vorrebbe approfittare del momento attuale per espellere all’estero il massimo numero di palestinesi, non solo da Gaza, ma anche dalla Cisgiordania.
10. Fronte di Gaza
editorialista
di guido olimpio

Due piani paralleli: la tregua per consentire il rilascio di ostaggi e l’ingresso di aiuti umanitari; la preparazione militare in vista del «domani». Hamas cerca, per quanto possibile, di rimettere in sesto i suoi ranghi. Il movimento ha confermato la morte di numerosi comandanti, alcuni importanti per esperienza e carisma. Più complicata la situazione dei reparti a nord, colpiti duramente dall’offensiva. Migliore il quadro a sud.

imageOggi a Gaza, nei pressi dell’ospedale Al-Shifa (Omar El-Qattaa)

  • L’esercito israeliano ha ruotato alcuni reparti impegnati da settimane nei combattimenti, una pausa di pochi giorni prima del rientro in prima linea. Un dettaglio dai portavoce: durante le operazioni sono stati rimasti uccisi quattro cani delle unità cinofile, animali impegnati nella ricognizione, nella caccia alle bombe, nell’esplorazione di edifici.
  • Da seguire sempre con attenzione il teatro del Mar Rosso. Un’unità americana ha sventato il sequestro di una petroliera israeliana da parte di un commando al largo delle coste yemenite. Catturati 5 «pirati», probabilmente legati alla milizia sciita Houthi. La fazione filoiraniana ha reagito lanciando due missili contro la nave Usa, ordigni caduti in mare (qui tutte le notizie in diretta sulla guerra Israele-Hamas).
11. Biden, Bibi e l’estensione della tregua
editorialista
di davide frattini
corrispondente da Gerusalemme

Sedia da campeggio, ombrello per ripararsi dal sole che a metà ottobre picchiava ancora forte e Avichai di capelli a proteggerlo ne ha pochi. È stato il primo a piazzarsi sul vialone di Tel Aviv che porta alla Kirya, dove sono riuniti lo Stato Maggiore e il consiglio di guerra ristretto. Il primo ad alzare il cartello con lo slogan che adesso tutti urlano, quest’uomo dolce non è abituato ad alzare la voce: «Portateli a casa». Da uno, a cento, a migliaia sono arrivati in strada. Avichai non è rimasto solo e da ieri non è più solo: la moglie Hagar, i figli Ofri (10 anni), Yuval (8) e Oria (4) sono stati rilasciati nel terzo scambio — 39 i palestinesi scarcerati — sui quattro previsti.

imageBiden con Netanyahu a metà ottobre

  • Oggi potrebbe non essere l’ultimo giorno di tregua o almeno così sembra indicare Joe Biden che dichiara di sperare in una estensione dell’accordo. I capi di Hamas — scrive l’agenzia France Presse — avrebbero proposto di allungare il cessate il fuoco per 2-4 giorni e dicono di «poter garantire la consegna di 20-40» prigionieri. Il Qatar, principale mediatore, spiega invece al quotidiano Financial Times che i fondamentalisti «devono essere in grado di recuperare una quarantina tra donne e bambini in mano ad altri gruppi»... (qui l’articolo completo).
12. Le aggressioni sminuite e i silenzi che pesano
editorialista
di paolo mieli

Sulla manifestazione romana contro i femminicidi e più in generale ogni forma di violenza sulle donne, ha già scritto ieri su queste colonne Barbara Stefanelli. Un articolo memorabile. A maggior ragione per il fatto che, ad occhio, le partecipanti erano ben più di quelle cinquecentomila delle stime ufficiali: probabilmente un milione. Resta però il dettaglio della mancata menzione — da parte delle organizzatrici — del più clamoroso stupro di massa dei nostri tempi: quello consumato, il 7 ottobre, dai terroristi di Hamas a danno di donne d’Israele... (qui l’editoriale completo).

imageIllustrazione di Doriano Solinas

13. Il presidente Usa diserta la Cop28
editorialista
di monica ricci sargentini

È stato presente agli ultimi due vertici sul clima ma quest’anno Joe Biden diserterà la conferenza Cop28 in programma dal 30 novembre al 12 dicembre a Dubai. L’importante evento non compare nel suo calendario settimanale pubblicato dalla Casa Bianca. Gli impegni del presidente includono, invece, un viaggio in Colorado per evidenziare gli investimenti statunitensi nell’energia eolica, un incontro con il presidente dell’Angola e l’illuminazione dell’albero di Natale. Secondo alcune fonti alla base della decisione c’è la guerra in corso in Israele che avrebbe assorbito molte delle energie del commander in chief ma anche l’esigenza di concentrare l’attenzione sui problemi interni in vista delle elezioni presidenziali del prossimo anno. John Kerry, l’inviato presidenziale per il clima ed ex segretario di Stato, rappresenterà gli Usa nel corso dei negoziati e delle sessioni di lavoro quotidiane.

imageAnche il Papa è atteso alla conferenza sul clima

  • La Casa Bianca non ha fornito i motivi del forfait. Biden ha partecipato alla COP26 a Glasgow nel 2021 — per annunciare il ritorno degli Stati Uniti alla lotta contro il riscaldamento globale dopo il ritiro dall’Accordo di Parigi deciso dal suo predecessore Donald Trump — e alla COP27 organizzata lo scorso anno a Sharm el-Sheikh in Egitto. Prima della sua elezione non era consuetudine che i presidenti intervenissero di persona al summit. Alla Cop28 sono attesi circa 70.000 partecipanti e ospiti, tra cui leader nazionali di circa 200 Paesi e papa Francesco.
14. Il vento del Mediterraneo
editorialista
di sara gandolfi

L’Unione per il Mediterraneo (UpM), gruppo intergovernativo che comprende 27 Stati membri dell’Ue e 16 Paesi partner del Mediterraneo, si riunisce oggi a Barcellona. Presente la Palestina ma non Israele, assente per un «cambiamento nell’ordine del giorno originario». In un comunicato, l’UpM ha riferito che inizialmente si prevedeva di affrontare «gli sforzi dell’organizzazione nel suo cinquantesimo anniversario e la sua riforma», ma che ora il Forum “sarà l’occasione per analizzare la drammatica situazione” nella striscia di Gaza «e riflettere sulla via da seguire».

  • Un altro argomento chiave è però in agenda: il Mediterraneo come futura potenza energetica d’Europa. La regione ha le condizioni ideali per generare energia da fonti rinnovabili — in particolare, sole e vento —, con la possibilità di utilizzarla per produrre «idrogeno green», che si ottiene attraverso l’elettrolisi dell’acqua in speciali celle elettrochimiche alimentate da elettricità prodotta da fonti rinnovabili. L’idrogeno potrebbe poi essere trasferito verso nord tramite oleodotti per contribuire a decarbonizzare l’industria pesante dell’Europa. Prima di procedere alla costruzione delle infrastrutture, però, è necessario ridurre il rischio politico e i conflitti nei Paesi che affacciano lungo le coste meridionali del Mediterraneo.
15. Europa: caffè e cacao a rischio distruzione

(Monica Ricci Sargentini) Migliaia di tonnellate di caffè e cacao che giacciono nei magazzini dell’Unione europea rischiano di essere distrutte come conseguenza imprevista della legge sulla deforestazione, entrata in vigore lo scorso giugno. Il provvedimento, come scrive oggi il Financial Times, era stato varato per proibire la vendita nei Paesi Ue di prodotti coltivati in aree di deforestazione. L’Intercontinental Exchange (ICE), una delle principali sedi di negoziazione dei futures sul caffè e sul cacao, e l’International Trade Centre, un’agenzia congiunta delle Nazioni Unite e dell’Organizzazione mondiale del commercio, hanno avvertito che il caffè e il cacao prodotti e immagazzinati nell’Ue durante il periodo di transizione fino a dicembre 2024 potrebbero essere ritenuti non conformi e, quindi, dovrebbero essere venduti fuori dall’area o distrutti.

imageCacao in Costa d’Avorio

  • Circa il 70% del cacao proviene dalla Costa d’Avorio e dal Ghana, dove la deforestazione e il lavoro minorile sono diffusi. I principali produttori di caffè sono Brasile, Vietnam, Colombia e Indonesia. «Se arriva sul mercato entro il periodo di transizione va bene. Ma se viene trattenuto e rilasciato dopo la fine dell’anno di transizione, potrebbe non esserlo», ha affermato Pamela Coke-Hamilton, direttrice esecutivo dell’International Trade Center. L’Ice ha avvertito che la confusione potrebbe colpire «l’intera catena di approvvigionamento, dall’agricoltore al consumatore» e ha sollecitato Bruxelles a fornire una guida chiara.
  • Le norme della Ue sono viste come una parte cruciale della legge ambientale Green Deal e mirano a impedire che i consumi del blocco infliggano ulteriori danni ai Paesi al di fuori dei suoi confini. Ma il provvedimento è stato ampiamente contestato dalle nazioni in via di sviluppo perché renderebbe costoso e punitivo il commercio con i Paesi Ue. Il regolamento richiede che gli importatori forniscano dati di geo-localizzazione delle loro merci per dimostrare che non provengono da aree colpite dalla deforestazione. I prodotti verranno controllate in base a quanto il Paese di origine è considerato a rischio deforestazione. Il caffè e il cacao sono particolarmente colpiti, perché non vengono immediatamente sdoganati all’arrivo nell’Ue e possono trascorrere più di 18 mesi in magazzini doganali.
16. Australia, bloccato il porto del carbone

(Monica Ricci Sargentini) Per bloccare il traffico marittimo del più grande porto di carbone dell’Australia centinaia di attivisti per il clima sono saliti a bordo di kayak nel finesettimana a Newcastle, sulla costa orientale del Paese. Lo scopo della protesta, che è perfettamente riuscita, era quello di sensibilizzare il governo a porre fine alle esportazioni di combustibili fossili, da cui l’Australia è fortemente dipendente. La manifestazione era stata autorizzata per 30 ore ma quando si è protratta oltre il limite sono scattate le manette.

  • Tra i 109 attivisti arrestati ci sono Alan Stuart, un pastore di 97 anni e cinque minorenni. «Abbiamo scelto di correre il rischio di finire in carcere perché gli scienziati avvertono che per evitare un collasso climatico catastrofico dobbiamo eliminare urgentemente i combustibili fossili», ha dichiarato il gruppo ambientalista Rising Tide, che ha organizzato il blocco. Negli ultimi anni, diversi Stati australiani hanno approvato leggi severe contro le proteste per il clima, suscitando la condanna delle Ong per i diritti civili e degli investigatori delle Nazioni Unite. L’Australia è uno dei maggiori Paesi produttori di carbone al mondo (il secondo esportatore) e il governo sta attualmente pianificando lo sviluppo di nuove miniere di carbone e di giacimenti di petrolio e gas.
17. Giappone: trovate 100 mila monete antiche
editorialista
di redazione buone notizie

Stavano effettuando alcune perforazioni per la costruzione di una fabbrica. Ma durante gli scavi hanno trovato un tesoro. Oltre 100 mila monete antiche, alcune della quali risalenti a 2 mila anni fa. È accaduto a Kanto, una dele otto regioni nella zona centro-orientale del Giappone, che è stato il cuore del potere feudale durante il periodo Kamakura (tra il 1110 e il 1330) e ancora durante il periodo Edo (1600-1800). La notizia, che ha suscitato grande interesse nel mondo archeologico, è stata data dal quotidiano giapponese Asahi Shimbun.

  • Finora sono state esaminate solo poco più di trecento delle monete ritrovate: queste sono state suddivise in 44 tipi. Gli studiosi le fanno risalire a partire dal tempo dell’imperatore Wendi (175 a.C.) degli Han occidentali sino a quelle più recenti del periodo Kamakura. Seguendo un’abitudine cinese del passato le monete venivano coniate con un foro al centro: questo non solo per risparmiare il materiale, prezioso a quei tempi, ma anche per facilitarne il trasporto, lo stoccaggio e il conteggio. Tant’è che sono state trovate legate assieme in fasci con una corda di paglia fatta passare nel foro centrale... (qui l’articolo completo).
18. Madagascar: elezioni contestate
editorialista
di giulia zamponi

Non si sarebbe potuto candidare alle elezioni del 2023 in Madagascar perché era diventato cittadino francese, perdendo così la cittadinanza malgascia, dato che il Paese nell’Oceano Indiano non ammette la doppia cittadinanza. E invece la Corte Suprema ha respinto i tre ricorsi dell’opposizione che chiedeva di invalidare la sua candidatura e Andry Rajoelina è stato rieletto presidente per il suo terzo mandato.

imageAndry Rajoelina, ancora presidente

  • Rajoelina ha ottenuto il 58,95% dei voti in un turno di elezioni con un’affluenza alle urne in calo rispetto alle precedenti nel 2018. Tredici i candidati che si sono presentati, ma dieci di questi si sono rifiutati di fare campagna elettorale e hanno chiesto ai propri sostenitori, tra gli 11 milioni di elettori, di non andare a votare. L’opposizione ha definito il voto «un colpo di Stato istituzionale» e «una farsa» per rieleggere il presidente uscente. Rajoelina, ex sindaco della capitale Antananarivo, è accusato dai rivali di corruzione, avidità e di aver chiuso un occhio sul saccheggio delle risorse naturali del Paese, tra cui le preziose foreste di palissandro. Rajoelina diventò presidente del Paese per la prima volta nel 2009 e governò fino al 2014 quando gli fu impedito di ricandidarsi. Vinse poi le elezioni del 2018.
  • Nelle settimane precedenti il voto, si sono svolte quasi quotidianamente proteste e scontri per il ritiro della candidatura: ai manifestanti è stato inoltre impedito di entrare in Place du 13 Mai, luogo caratteristico della capitale dove hanno avuto luogo tutti i principali eventi della politica malgascia. Negli ultimi mesi, il Paese è in forte subbuglio con la polizia che reprime con un «uso spropositato della forza» tutte le manifestazioni dell’opposizione. I rivali hanno contestato elezioni illegittime e piene di irregolarità, tra cui l’intimidazione dei funzionari elettorali e l’uso di risorse pubbliche da parte del partito al governo. Le Nazioni Unite, l’Unione Europea e gli Stati Uniti hanno espresso preoccupazione per la situazione dei diritti umani e della pace nel Paese.
19. Il vincitore del Booker Prize e l’Irlanda (non) distopica

(Giulia Zamponi) Un’Irlanda del futuro sprofondata in un regime totalitarista e una guerra civile che costringe le famiglie a lasciare il proprio Paese. Una visione distopica e alternativa di Dublino governata dall’estrema destra. Parla proprio di questo «Prophet Song», il romanzo scritto dall’irlandese Paul Lynch, che ha vinto il Booker Prize 2023.

imagePaul Lynch

  • «Questo è un trionfo della narrazione emotiva, coraggioso e audace», ha detto Domenica Edugyan, romanziere e presidente della giuria. Un romanzo che riflette le crisi contemporanee, tra cui la guerra tra Israele e Hamas, e cattura le ansie sociali e politiche di questo momento storico. Riecheggia la violenza in Palestina, Ucraina e Siria, e l’esperienza di tutti coloro che fuggono da Paesi in guerra. «Prophet Song» è il quinto romanzo dell’ex critico cinematografico che ha ambientato i suoi lavori quasi sempre nel suo Paese d’origine, l’Irlanda. Ha esordito nel 2013 con «Red Sky in Morning», ambientato nel XIX secolo, che racconta di un irlandese scappato in America dopo aver commesso un omicidio.
  • Eilish Stack è la protagonista del nuovo romanzo. Scienziata e madre di quattro figli, dovrà affrontare e gestire una situazione allarmante, in cui il marito sindacalista viene rapito dalle forze di sicurezza, il primo segno del crescente dominio autoritario. Per il suo libro, Lynch ha preso spunto dalla lunga guerra civile in Siria e l’apparente indifferenza dell’Occidente nei confronti delle persone fuggite dal conflitto. «Le cose che stanno accadendo in questo libro si verificano senza tempo in tutte le epoche» ha dichiarato Lynch, notando una somiglianza tra la situazione narrata nel libro e l’attuale momento in Irlanda. La sua vittoria infatti, arriva pochi giorni dopo le violente proteste scoppiate nel centro di Dublino in seguito a un attacco fuori da una scuola elementare che ha ferito tre bambini.
  • La polizia ha dichiarato che i disordini sono stati causati da una «fazione di pazzi guidati dall’ideologia di estrema destra». Proprio come nel romanzo. Il prestigioso premio Booker prevede una ricompensa in denaro di 50 mila sterline (che corrispondono circa a 57 mila euro) e viene assegnato ogni anno al miglior romanzo scritto in inglese e pubblicato in Gran Bretagna o Irlanda. Fondato nel 1969, tra i vincitori precedenti si annoverano nomi illustri della letteratura come Salman Rushdie e Margaret Atwood.
20. Segreti del Sud Ovest/40: l’erba che rotola dalla Russia all’Arizona

(Guido Olimpio) Un’inquadratura classica di molti film. Una landa desolata, qualche casa in legno e i «protagonisti»: gli arbusti spinti dal vento. Sono i tumbleweed, «l’erba che rotola», molto diffusi nei grandi spazi degli Stati Uniti, con praterie e deserti infiniti. Curiosa la loro storia. Intanto non sono americani ma sono arrivati dalla Russia attorno al 1870, con i semi mescolati ad un carico di granaglie o piante. La prima tappa il Sud Dakota, poi una diffusione inarrestabile.

imageTumbleweed sul set di un film

  • I contadini si sono subito accorti di quanto fossero dannosi, però non sono riusciti a fermarli e piano piano gli «invasori» si sono allargati alle regioni occidentali. Alcuni ricercatori ne hanno studiato i movimenti: di solito si spostano di qualche decina di metri ma in alcuni casi hanno percorso fino a quattro chilometri. A volte, quando si concentrano in alcuni punti, diventano come dei muri naturali, matasse incredibili. Sono temuti per i problemi che possono causare all’agricoltura, ai canali di irrigazione, alle abitazioni, in qualche caso persino agli automobilisti. E, infatti, mi è capitato di vederne alcuni ai lati di un’autostrada in Arizona, tra mulinelli di sabbia e una foschia polverosa. La serie continua.

Grazie. A domani. Cuntrastamu.

Michele Farina


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