L’ANALISI Petrolio, missili, Houthi. L’Iran ha un messaggio per l’Occidente: la globalizzazione è in tilt

Adesso la previsione più facile in apparenza sarebbe che il prezzo del petrolio salirà. Lo aveva già fatto di oltre il 5% da quando, il primo aprile scorso, Israele ha ucciso un importante generale della Guardia rivoluzionaria di Teheran e altre 15 persone bombardando l’ambasciata iraniana in Siria. Dopo la risposta degli Ayatollah nel fine settimana, la quotazione del barile non potrà che lievitare ancora oltre i 90,4 dollari del Brent di venerdì. Del resto sta salendo da metà dicembre ed è ormai del 7% sopra i livelli di un anno fa, con tutto ciò che di negativo questo comporta per l’inflazione. 

Poche buone notizie

La previsione più rischiosa è invece che l’aumento del prezzo resta contenuto - o inesistente - se non ci sarà addirittura un calo. Gli operatori più attenti sembrano contare sul fatto che Israele e l’Iran possano evitare un’ulteriore escalation. Ma le buone notizie finiscono qui. Perché questo weekend ha ricordato come nelle crisi geopolitiche di questa fase ci sia un fattore più subdolo che influenza sia i mercati, sia l’economia internazionale. E’ un segnale intermittente, ma inconfondibile. Dice che gli Stati Uniti e i Paesi occidentali stanno perdendo il controllo di quel che fino a pochi anni fa era l’ordine internazionale. 

Alcune rotte commerciali non sono più sicure

Mi ha colpito in particolare un fatto negli attacchi iraniani del weekend: la Guardia rivoluzionaria ha assaltato e sequestrato un mercantile legato a un armatore israeliano nello stretto di Hormuz, all’uscita dal Golfo Persico; è la seconda volta che accade negli ultimi mesi, con le stesse modalità. Soprattutto, accade mentre poco lontano gli Houthi yemeniti (legati a Teheran) continuano a lanciare centinaia di attacchi sui mercantili nello stretto di Bab el-Mandeb, fra il Golfo di Aden e il Mar Rosso sulla tratta verso Suez e il Mediterraneo. Alcune delle principali rotte commerciali del mondo non sono più sicure. Il segnale alle democrazie, implicitamente, è preciso: avete perso il controllo degli snodi fisici della globalizzazione, non li governate più. E smentire un simile messaggio si sta dimostrando più difficile del previsto. Vediamo.

I 4 mesi della missione "Prosperity Guardian"

In questi giorni si consumano i quattro mesi dall’avvio della missione “Prosperity Guardian” e due mesi dal varo di “Aspides”, all'epoca anticipata dal Corriere della Sera. I lettori le ricorderanno: un impressionante dispiegamento di potenza militare marittima da parte degli Stati Uniti e dell’Europa, espressa sin nei nomi altisonanti delle missioni. Ma quando si mettono a confronto le risorse e i risultati, il cambio di stagione per gli equilibri internazionali diventa l’aspetto che colpisce di più. “Prosperity Guardian”, a guida statunitense, riunisce i mezzi armati di quattordici Paesi dalla Gran Bretagna all’Australia, fino al Bahrein. “Aspides”, la missione europea a guida italiana e greca, raccoglie anche Francia, Germania e Belgio. La prima mette nel braccio di mare fra l’Oceano indiano e lo Stretto di Suez – dove fino al passava 2023 almeno il 30% dei flussi commerciali via nave – la portaerei statunitense USS Dwight D. Eisenhower, l’incrociatore USS Philippine Sea e i cacciatorpediniere Gravely e Mason. La seconda, la missione europea lanciata il 19 febbraio scorso, vede impegnati nelle stesse acque il cacciatorpediniere della Marina Militare italiana ITS Caio Duilio, la fregata francese FS Alsace, la fregata tedesca FGS Hessen e quella greca HS Hydra. 

Gli esiti del confronto

Non dovrebbero esserci dubbi sull’esito del confronto. Da una parte ci sono assetti in mare del valore di molti miliardi di euro e di dollari, che sparano sofisticati missili da svariati milioni di euro l’uno per intercettare gli attacchi degli Houti portati con oggetti da poche migliaia di euro. Dall’altra ci sono gli Houthi stessi, un gruppo di bande armate del deserto sostenuto dall’Iran: ancora a settembre scorso la gente stava scendendo in piazza contro di loro a Sana’a, la capitale dello Yemen, un Paese che loro stessi non sembravano più in grado di controllare. 

Il traffico mercantile collassa

Detto altrimenti: da un lato c’è la potenza marittima di colossi che rappresentano almeno metà dell’economia mondiale, con gli americani determinati a colpire non solo i droni ma anche le postazioni degli Houthi (le hanno bombardate almeno sedici volte, secondo il Centro studi internazionali di Roma); dall’altro c’è un'organizzazione di poche decine di migliaia di uomini, costituita poco più di trent’anni fa, in uno dei Paesi più poveri del Medio Oriente. Uno si sarebbe aspettato che la forza schiacciante dell’Occidente avrebbe riaperto con facilità la rotta di Suez, così simbolica e strategica per l’Europa e l’Italia. Nei fatti, invece, gli attacchi continuano. Se ne contano molti più di cento solo negli ultimi due mesi. E il traffico commerciale collassa, esattamente come stava collassando da prima delle missioni militari occidentali. O di più. Quasi che “Prosperity Guardian” e “Aspides” non fossero mai partite. Anzi, quando la spedizione europea parte due mesi fa il traffico mercantile sul Mar Rosso era del 56% al di sotto dei livelli di un anno prima; adesso, dopo due mesi e decine di navi scortate e protette da “Aspides”, il traffico è del 72% al di sotto dei livelli di un anno prima (dati dal PortWatch del Fondo monetario internazionale). 

Prosegue il progressivo soffocamento del Mediterraneo

In sostanza, cinque mesi dopo i primi attacchi ai mercantili nello stretto di Bab el-Mandeb (l’area fra il Mar Rosso e il Golfo di Aden) e quattro mesi dopo le risposte occidentali, il canale di Suez rimane semi-chiuso. Va avanti il progressivo soffocamento dell’accesso fra il Mediterraneo e i mercati asiatici. A cascata, soffrono alcuni degli snodi strategici dell’intero Mediterraneo. Genova, primo porto italiano per l’export, al termine della prima settimana di aprile vedeva i suoi volumi in uscita in calo del 60%. Ravenna, il terzo porto italiano per l’import, al termine della prima settimana di aprile vedeva i suoi traffici in volume in calo del 76% proprio sull’import e del 91,5% sull’export (dati sempre del PortWatch del Fmi). 

Dove si dirigono ora le merci italiane?

Sono tutti potenziali sintomi che i produttori italiani iniziano a privilegiare le spedizioni su gomma verso i porti del Nord Europa attraverso la circumnavigazione del Capo di Buona Speranza, malgrado i 16 giorni e i costi in più. In realtà, però, non si nota nei dati un incremento del traffico su Amburgo o Rotterdam. Gran parte dei principali porti del mondo sembrano essere leggermente sotto i loro livelli di un anno fa, in un chiaro segno di debolezza dell’economia globale. E l’esito degli attacchi degli Houthi potrebbe essere ancora più paradossale: con la strozzatura a Suez, stanno fortemente aumentando le spedizioni commerciali via treno fra l’Europa e l’Estremo Oriente attraverso la Russia. Naturalmente uno dei grandi beneficiari è RZD, il monopolista pubblico dei treni controllato dal Cremlino: secondo varie indicazioni del settore l’aumento del traffico dall’inizio dell’anno è stato di circa un terzo. 

Gli effetti

Il problema di Suez del resto sembra sul punto di assumere una natura strutturale anche per altri snodi dell’area. Il porto greco del Pireo, controllato dal colosso China Ocean Shipping Company (Cosco), nella prima settimana di aprile aveva perso il 58% dei volumi in uscita e il 38% dei volumi in entrata rispetto in media allo stesso periodo di un anno fa. Damietta, secondo porto egiziano sul Mediterraneo e collegamento vitale fra il Cairo e il Canale di Suez, registra nella prima settimana di aprile un collasso dell’import dell’84% e dell’export del 56% sull’anno prima (tutti i dati sono sempre tratti dal Portwatch del Fmi). 

L’addestramento degli Houthi

L’asimmetria fra l’impegno dispiegato dalle maggiori potenze occidentali e la capacità di destabilizzazione di un gruppo yemenita finora relativamente oscuro non sorprende alcuni degli osservatori più attenti. Osserva Marco Forgione, direttore generale dell’Institute of Export and International Trade di Londra: “Gli Houthi sono coriacei e addestrati a resistere alla pressione dall’esterno, per anni hanno resistito ai bombardamenti degli eserciti dell’Arabia Saudita, del Qatar e degli Emirati Arabi Uniti”. In questi mesi lo hanno dimostrato. Il Centro studi internazionali di Roma stima che, da quando sia la missione europea che la missione a guida americana sono nell’area di Bab el-Mandeb, gli Houthi hanno lanciato contro le navi cargo di passaggio 91 droni d’attacco, 44 missili balistici antinave, quattro missili da crociera antinave e due imbarcazioni senza pilota. 

Una prova generale per Taiwan?

L’aspetto più inquietante sono i missili balistici: hanno traiettorie verticali che salgono fino all’atmosfera e quando ridiscendono a piombo sono teleguidate sul bersaglio. Arrivano a una tale velocità che possono affondare un mercantile anche senza carica esplosiva. La domanda non è chi abbia fornito agli Houthi dei missili balistici antinave, perché lo si sa: l’Iran. La domanda che si pongono gli esperti del settore è se qualcuno stia seguendo questi attacchi come una prova generale di attacchi simili sullo stretto di mare più trafficato e vitale del mondo con i suoi 81 mila transiti all’anno (contro i 22 mila di Suez e Bab e-Mandeb): il braccio di mare fra la Repubblica popolare cinese e Taiwan. 

Il silenzio della Cina

Naturalmente agli Houthi le due missioni occidentali hanno risposto. Sempre secondo le ricostruzioni del Cesi, “Aspides” ha scortato 68 imbarcazioni civili e intercettato undici attacchi contro di esse. “Prosperity Guardian” è stata anche più aggressiva: ha colpito 16 postazioni in Yemen, ha distrutto 87 missili antinave, dodici missili balistici, 31 droni d’attacco, quindici imbarcazioni senza pilota. E così via. Ma gli attacchi stessi non si sono fermati. Il 2 marzo gli Houthi hanno affondato Rubymar, un cargo con bandiera del Belize; quattro giorni dopo hanno ucciso tre marinai sul mercantile greco True Confidence. E gli attacchi continuano. Il tutto, nel silenzio dell’altra grande potenza che (in teoria) avrebbe interesse a tenere aperte le rotte fra i suoi porti e il Mediterraneo: la Cina che, in silenzio, si sta astenendo accuratamente dal collaborare al contrasto degli attacchi da parte degli Houthi. Poco importa che la rotta di Suez sia strategica da almeno trent’anni per gli scambi della Repubblica popolare con l’Europa. 

L’obiettivo di Pechino

Nota Forgione dell’Institute for International Trade: “Pechino ha la sua più grande base militare all’estero proprio davanti all’area critica, a Gibuti. Eppure assiste a quanto sta avvenendo senza reagire: non coopera con gli occidentali per rendere sicuro quel tratto di mare”. Forse rendere visibile il declino del controllo occidentale sugli snodi della globalizzazione interessa a Xi Jinping, in questo momento, più delle stesse rotte commerciali. In questo, persino l’Iran e le sue pedine yemenite tornano comode all’uomo forte di Pechino.

Questo articolo in origine è stato pubblicato sulla newsletter del Corriere della Sera «Whatever it Takes», a cura di Federico Fubini, clicca qui per iscriverti.

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