Wall Street «apre» a Trump, e negozia sulla sua agenda

Il modello previsionale del magazine The Economist assegna a Donald Trump due possibilità su tre di vincere l’elezione il 5 novembre. 66% è un margine di vantaggio notevole su Joe Biden, molto superiore a quello dei sondaggi. Questi ultimi gli assegnano sì un vantaggio, ma piccolo e inferiore al margine di errore statistico. The Economist può sbagliare, così come spesso sbagliano i sondaggi. Però questo tipo di previsioni spiegano l’interesse crescente che l’establishment economico americano dedica a Donald Trump. È questione di realismo, non di passione o convinzione. Il “cuore” del capitalismo Usa – scusate la metafora surreale – batte piuttosto per il partito democratico, da tempo i poteri forti del denaro hanno abbracciato diverse cause considerate progressiste. Però il pragmatismo impone di prepararsi a tutto. Se Trump è in vantaggio nella gara elettorale, i chief executive delle grandi aziende vogliono attrezzarsi per influenzarne le politiche.

È in questo contesto che giovedì scorso il candidato repubblicano ha incontrato la Business Roundtable, un’organizzazione che si potrebbe paragonare alla Confindustria. All’evento hanno partecipato quasi tutti i big dell’economia americana. C’erano il chief executive di Apple, Tim Cook, e quello di Walmart, Doug McMillon. C’erano tutti i banchieri più importanti: Jamie Dimon di JP Morgan Chase, Brian Moynihan di Bank of America, Jane Fraser di Citigroup, Charlie Scharf di Wells Fargo. Attingo al resoconto di quell’incontro che è apparso sul Wall Street Journal, per estrarne alcune informazioni utili: sul candidato, e sui capitalisti. Anticipo una conclusione. Più Trump sente “profumo di vittoria”, più adatta il suo messaggio elettorale in modo da rassicurare i poteri forti dell’economia. Rientra in questa logica l’annuncio – fatto proprio nel summit confindustriale – che non farebbe uscire gli Stati Uniti dalla Nato. Nonché l’apertura all’immigrazione per categorie professionali qualificate.

Un passo indietro e una premessa generale. Trump non ha mai goduto di grande stima nell’establishment industriale e finanziario del suo paese. Come capitalista è troppo piccolo, agisce in un settore (il business immobiliare) che non viene considerato tra i più avanzati, inoltre la sua azienda ha sempre navigato tra bancarotte e scandali (anche prima che il suo ingresso in politica gli attirasse l’ostilità della magistratura). I grandi protagonisti dell’economia Usa, i top manager di Big Tech o di Wall Street, lo hanno sempre guardato dall’alto in basso, e generalmente gli hanno preferito i democratici (Hillary Clinton e Joe Biden hanno ricevuto molti più soldi di lui dai grossi finanziatori). 
Però come presidente non ha penalizzato l’establishment. Pandemia a parte, l’economia americana ha avuto buoni risultati nel periodo che va dal gennaio 2017 al gennaio 2021 quando lui era alla Casa Bianca; anche la gestione del Covid sotto il profilo economico è stata buona, gli aiuti erogati in abbondanza e con rapidità hanno abbreviato la mini-recessione. Poi però ci fu il 6 gennaio 2021. L’assalto al Campidoglio da parte di bande di facinorosi aizzati da un comizio del presidente, generò allarme anche ai vertici dell’economia. Diverse grandi aziende americane decisero, dopo quell’attacco alle istituzioni, di tagliare ogni finanziamento alla campagna elettorale di Trump o a quei deputati e senatori repubblicani che continuavano a sostenerlo. Molti capitalisti puntarono decisamente su Biden; qualcuno cercò di favorire una candidatura repubblicana alternativa (Nikki Haley, Ron DeSantis) oppure un indipendente centrista.

Ma già al Forum di Davos in Svizzera, alla fine di gennaio, qualcuno cominciava a ragionare sullo scenario di un Trump 2. Il numero uno della più grande banca di Wall Street, Jamie Dimon di JP Morgan Chase, in un discorso a Davos diede atto a Trump di avere avuto “abbastanza ragione” su temi come il commercio estero e l’immigrazione. Questa constatazione non dovrebbe scandalizzare, nei fatti la condivide Biden, visto che si è spostato sulle posizioni di Trump su questi terreni. I dazi di Trump contro la Cina sono stati rafforzati da Biden; e l’attuale presidente ha annunciato la chiusura del confine col Messico ai richiedenti asilo.

L’incontro alla Business Roundtable ha dimostrato che corteggiare Trump paga. Il candidato repubblicano, attorniato dai big del capitalismo, ha cercato di dire tutte le cose che potevano piacere al suo auditorio. Ha smentito che farebbe uscire l’America dalla Nato, per esempio, anche se in altre sedi continua a dire che cesserebbe subito gli aiuti all’Ucraina. Trump ha promesso a banchieri e industriali politiche più favorevoli su fisco, energia, antitrust. Sul fisco la sua ultima uscita è poco verosimile: immagina di abolire le imposte sui redditi per sostituirne il gettito con nuovi dazi; i conti non tornano, neanche ipotizzando un ulteriore e drastico inasprimento del protezionismo anche ai danni di nazioni alleate. Però la tendenza generale che Trump incarna è quella di una riduzione della pressione fiscale, in linea con la tradizione repubblicana, che piace al mondo delle imprese. Idem per l’allentamento delle politiche antitrust, particolarmente radicali da quando Biden ha cambiato i vertici della Federal Trade Commission. Oppure per un ritorno a una politica energetica meno penalizzante verso petrolio e gas (anche se le sanzioni alla Russia hanno già regalato all’America sotto Biden il primato mondiale nell’export di gas).

L’immigrazione è un terreno delicato perché in genere i capitalisti americani a differenza di Trump sono favorevoli alle frontiere aperte: per i datori di lavoro la manodopera straniera a buon mercato è una garanzia di profitti, visto che esercita una pressione al ribasso sui salari degli americani. Però le restrizioni all’immigrazione hanno guadagnato popolarità anche a sinistra, come dimostra la sterzata “trumpiana” dell’Amministrazione Biden, che cerca di frenare l’emorragia di voti tra operai e minoranze etniche (queste ultime sono anti-immigrazione in quanto sono le più esposte alla concorrenza dei nuovi arrivati sul mercato del lavoro). Al summit confindustriale Trump ha aggiunto una concessione alle aziende: pur riducendo i flussi in ingresso, il candidato repubblicano vorrebbe invece facilitare l’immigrazione legale per le categorie professionali più qualificate o gli studenti stranieri nelle università americane. Sarebbe un modo per ovviare al deficit di competenze necessarie per reindustrializzare l’America in settori strategici come i semiconduttori.

Alcuni dei chief executive che partecipavano all’incontro con Trump potrebbero entrare nella sua rosa di candidati per posti chiave come il ministero del Tesoro. Tra questi il Wall Street Journal cita due star della finanza, John Paulson e Scott Bessent. Il senso di quell’incontro si potrebbe riassumere così: che ci piaccia o no Trump, prepariamoci alla possibilità della sua vittoria, cercando di indirizzarlo sulla “retta via”, intesa nel senso degli interessi delle aziende. Non che questi interessi siano stati veramente penalizzati dalla presidenza Biden. A parte le lamentele sui prezzi che Biden ha pagato alla fazione dell’estrema sinistra nel suo partito (sulle regolamentazioni ambientaliste, i diritti sindacali, l’antitrust, e inizialmente sull’immigrazione), Wall Street deve constatare che le quotazioni della Borsa americana sono ai massimi storici. Dietro il boom di Borsa c’è anche un’economia reale in buona salute: la temuta recessione post-pandemia non c’è stata, la crescita continua, il mercato del lavoro è vicino alla piena occupazione, l’inflazione sta finalmente rallentando.

Approfitto per segnalarvi che la rete tv La7 ha deciso di riproporre domani, in prima serata, una versione condensata delle mie Inchieste da fermo dedicate all’America di Biden e di Trump.    

17 giugno 2024

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