Alle elezioni europee ha vinto Trump? | Federico Rampini
Alle elezioni europee ha vinto anche Donald Trump? La domanda ricorre in molte analisi americane sul voto. Aleggia su un G7 dove alcuni leader (Macron, Scholz) sono degli zombie, indeboliti da un crollo di consensi, assediati dalle destre. La risposta su Trump è affermativa se si guarda ad alcuni contenuti vincenti, più ancora che alle sigle o agli schieramenti. Immigrazione, protezionismo contro la Cina, normative ambientaliste, portano consensi a una destra europea che può definirsi «trumpiana» solo nella misura in cui ha orientamenti simili su questi tre terreni. Invece è meno netto il verdetto sulla politica estera, perché alcune destre vincitrici in Europa (i cristiano-democratici tedeschi e Giorgia Meloni) hanno una posizione atlantista e pro-Ucraina, quindi tutt’altro che allineata con Trump.
Sia chiaro: la tornata elettorale dello scorso weekend non ha alcun effetto sull’opinione pubblica americana.
La stragrande maggioranza degli elettori Usa hanno una percezione minima di quel che accade nel resto del mondo, e non si fanno certo influenzare dal Vecchio continente nella loro scelta se appoggiare Trump o Biden il prossimo 5 noembre. Gli analisti però cercano di capire se esistano delle tendenze internazionali, delle «ondate», dei temi che travalicano i confini e gli oceani. In questo senso si può parlare di un voto europeo che «dà ragione» a Trump, conferma che su alcuni temi forti la sua ricetta è più popolare di quella della sinistra. Tant’è che in America Biden ha già colto il messaggio e si adatta. Sull’immigrazione ha annunciato una sostanziale chiusura del confine col Messico (più facile da proclamare che da attuare, però gli ingressi sono diminuiti). Sul protezionismo ha raddoppiato la posta alzando i dazi che lo stesso Trump aveva varato contro la Cina. Sulle normative ambientali è a livello locale che i democratici Usa stanno facendo concessioni, l’ultima è la decisione della governatrice di New York di cancellare la «congestion tax» sugli automobilisti.
Immigrazione e protezionismo sono temi su cui il trumpismo si rivela esportabile. Tutte le destre europee beneficiano del fatto che un afflusso disordinato e mal governato di stranieri genera insicurezza; tanto più se il paese di accoglienza non riesce a integrare questi immigrati anche dal punto di vista culturale e valoriale. È un tema esplosivo perfino negli Stati Uniti che abbiamo spesso etichettato (con una certa superficialità) come una «nazione di immigrati».
L’afflusso di forza da lavoro dall’estero non fu sempre incoraggiato, in realtà, gli stessi Stati Uniti ebbero lunghi periodi di protezionismo demografico che coincisero con una maggiore solidarietà sociale, redistribuzione, diritti sindacali, alti salari (vedi il trentennio «socialdemocratico» da Franklin Roosevelt a John Kennedy). Inoltre il paradigma della «nazione di immigrati» funzionò finché c’era un modello culturale forte e sicuro di sé a cui i nuovi arrivati dovevano adattarsi.
Quel sistema si è sfasciato. Fa acqua sia dal punto di vista materiale che morale.
Una economista esperta di immigrazione – e propensa a sottolinearne i benefici – come Tara Watson della Brookings Institution, oggi ammette che l’ingresso di stranieri minaccia la condizione economica di due categorie: «i lavoratori americani meno qualificati; e coloro che erano immigrati in precedenza».
Guarda caso sono due categorie che continuano a registrare deflussi di consensi dal partito democratico verso quello repubblicano, da Biden verso Trump. I bianchi non laureati erano già lo zoccolo duro del trumpismo, ora l’ex presidente repubblicano aumenta la sua presa fra black e latinos.
Torna utile qui l’analisi di uno studioso italiano in America, Carlo Invernizzi Accetti, docente di Scienze politiche alla Columbia University e al City College di New York. È appena uscito in Italia il suo saggio «Vent’anni di rabbia. Come il risentimento ha preso il posto della politica» (Mondadori). È un’analisi innovativa e illuminante sui movimenti del XXI secolo, che unisce i populismi tradizionalmente catalogati a destra – trumpismo, Brexit, Gilets jaunes – e quelli etichettati a sinistra – #MeToo, BlackLivesMatter, ambientalismo apocalittico, M5S e altri ancora. Un merito di Invernizzi è quello di evitare con cura la faziosità di certe élite progressiste che vedono nei populismi di destra una minaccia per la democrazia, in quelli di sinistra proteste legittime e sacrosante. Invernizzi vede invece un fattore comune che è soverchiante. Molto più degli interessi economici danneggiati o minacciati, ancor più delle convinzioni etiche, questi movimenti hanno in comune la rabbia per ciò che percepiscono come un mancato riconoscimento, un declassamento di status.
Il tema dell’immigrazione sotto questo profilo è molto chiaro, perché unisce la dimensione economica a quella dello status. Certe categorie di cittadini in America come in Europa sono oggettivamente danneggiate dall’immigrazione perché gli stranieri clandestini accettano di svolgere le loro mansioni a salari inferiori. Ancor più si sentono declassati nello status, perché dei migranti entrati violando le leggi ricevono rispetto e attenzioni dalle élite, mentre le stesse élite condannano come «razzisti» coloro che vorrebbero limitare i flussi di ingresso. Si aggiunge una terza dimensione, quella valoriale, quando l’insicurezza e il disordine sociale danno l’impressione che un modello di civiltà e una cultura delle regole stiano franando. Il trumpismo e molte destre europee hanno colto questa componente della «rabbia», mentre molte sinistre l’hanno avvolta nel disprezzo élitario.
La correzione di rotta di Biden su questo fronte – il suo tentativo di chiudere la frontiera col Messico e di sospendere le leggi sul diritto di asilo – segna una presa di coscienza, che era già in atto nelle componenti moderate del partito democratico americano.
Le elezioni europee lasciano aperte delle possibilità che al momento non ci sono negli Stati Uniti. In America, in virtù del bipolarismo – sia pure disturbato da candidature indipendenti come quella di Robert Kennedy Junior, un efficace canalizzatore della «rabbia» – da qui al 5 novembre gli elettori hanno una sola destra a disposizione, quella di Trump. Questa sembra vincente su temi come immigrazione, protezionismo anti-Cina, eccessi e forzature dell’ambientalismo radicale.
Al tempo stesso il trumpismo ha una vena anti-democratica, perfino sovversiva; e ha la potenzialità di indebolire tutto il sistema di alleanze internazionali fra paesi democratici. In Europa il trumpismo ha segnato dei punti ma resta aperta l’opzione di una destra che lo canalizzi in un’altra direzione, atlantista e non destabilizzante per le istituzioni democratiche.
13 giugno 2024, 17:03 - modifica il 13 giugno 2024 | 17:05
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