Europa-Cina, la guerra dei dazi è solo un inizio

I dazi che la Ue applica a certe auto elettriche cinesi sono probabilmente insufficienti a fermare le importazioni «made in China». Segnalano però un nuovo peggioramento nelle relazioni tra i due blocchi, e un parziale allineamento degli europei sul «pessimismo» americano riguardo a Pechino. L’escalation dei protezionismi è solo alle battute iniziali. Nell’attesa di sapere quali ritorsioni deciderà Xi Jinping, il prossimo test è vicino: è il G7. In quella sede tornerà ad essere discusso l’appoggio della Repubblica Popolare alla guerra di Vladimir Putin in Ucraina. Si farà qualche passo verso l’applicazione di sanzioni anche alla Cina?

Cominciamo dall’auto elettrica e da una constatazione sorprendente. La classifica dei primi dieci modelli più venduti nell’Unione europea non include neanche una marca cinese. Zero. Sono tutte Tesla, Volvo, Volkswagen-Audi, Bmw, Peugeot. A prima vista quindi i dazi annunciati da Bruxelles sono la risposta a un’emergenza che non esiste. Allora perché scatenare questa offensiva protezionista? Perché l’invasione cinese è alle porte; in parte è già in corso, ma dissimulata. Per esempio alcune delle Tesla vendute sul mercato europeo sono in realtà fabbricate a Shanghai, così come la Volvo ex-svedese è di proprietà cinese e incorpora molti componenti made in China.

Tra le ragioni per cui le marche cinesi non hanno (ancora) conquistato la Top Ten ne ricordo un paio. Anzitutto un mini-boom di vendite dei modelli cinesi era già stato colpito quando la Francia li aveva esclusi dai programmi di incentivi. Inoltre le grandi case automobilistiche della Repubblica Popolare sapevano di essere sotto indagine a Bruxelles per aiuti di Stato, non volevano prestare il fianco ad ulteriori accuse di dumping (vendite sottocosto), quindi tenevano prezzi di listino molto più alti in Europa che in Cina. Detto questo, tutti gli esperti davano per scontato che l’invasione delle auto cinesi ci sarebbe stata, e quindi Bruxelles ha agito per prevenire una catastrofe annunciata. Semmai ci si può chiedere se la barriera doganale innalzata da Ursula von der Leyen sarà sufficiente. La media dei dazi europei sulle auto elettriche cinesi è del 31%, contro il 100% per i dazi varati da Biden.

Fa riflettere il tenore delle primissime reazioni da Pechino. Da una parte quelle industriali: sdrammatizzano. Questo fa pensare che le case produttrici siano fiduciose di poter assorbire questi dazi, e proseguire verso una lenta ma inesorabile ascesa nelle loro vendite sul mercato europeo. Diverse invece le reazioni del governo, molto più dure. Per Xi Jinping subentrano considerazioni di immagine («perdere la faccia» o subire una ferita all’orgoglio nazionale è sempre un problema), da inserire in un contesto più ampio: il leader cinese vede compattarsi, sia pur lentamente, un fronte occidentale contro di lui. Lo preoccupa il segnale di un allineamento dell’Ue sulle posizioni americane.

Xi reagirà colpo su colpo. Sono attese rappresaglie cinesi sotto forma di dazi e restrizioni, nel mirino potrebbero esserci prodotti europei come l’Airbus, le auto di lusso tedesche (Porsche ecc.), lo champagne e il cognac. Al di là di queste ritorsioni Xi deve valutare perché sta perdendo la sua tradizionale influenza sulla Germania. Finora erano stati i tedeschi ad opporsi con successo alle misure protezioniste contro la Cina. Dopotutto il mercato cinese rappresenta ancora almeno un terzo di tutte le esportazioni di auto made in Germany. La grande industria tedesca continua ad essere affezionata alla relazione storica che ha costruito con Pechino. Però questa relazione s’indebolisce, anno dopo anno, perché la Repubblica Popolare riduce la sua dipendenza dalle tecnologie tedesche, che sostituisce con le proprie. Anche le multinazionali tedesche più inserite sul mercato cinese sanno di avere gli anni contati.

Questo spiega perché Bruxelles stia adottando un’analisi sulla Cina sempre più simile a quella americana. La riassume un esperto della questione, Rush Doshi, un analista molto ascoltato dalla Casa Bianca. Secondo Doshi, Xi Jinping vede la Cina nel mezzo di una nuova rivoluzione industriale, con l’opportunità di sorpassare gli Stati Uniti. Verso questo sorpasso devono concentrarsi le risorse nazionali, quindi con un’accelerazione degli investimenti industriali, non dei consumi interni. Qui sta la radice dell’ulteriore aumento di capacità manifatturiera della Cina, che continua a costruire nuove fabbriche, peggiora i problemi e squilibri da «sovraccapacità» a livello globale, inonda il resto del mondo con le sue esportazioni. Di fatto «esporta deflazione», cioè contribuisce a deprimere la crescita degli altri, tedeschi ed europei in testa. Questa iper-industrializzazione cinese è anche dettata da considerazioni strategico-militari, ha una dimensione autarchica: per essere pronta una guerra su Taiwan, la Repubblica Popolare deve rendersi autonoma in tutte le catene di approvvigionamento.

L’Unione europea finora non ha condiviso l’analisi americana in tutti i suoi aspetti. Bruxelles si è concentrata sulla questione della sicurezza economica. È irritata per essere stata scavalcata da Washington nel dialogo con il governo olandese per cooptare l’azienda Asml nell’embargo contro la Cina sui macchinari per micro-chip. Gli europei diffidano degli Stati Uniti per l’insistenza americana sui temi di sicurezza nazionale. Sospettano che nella relazione America-Cina ci sia una componente di rivalità egemonica, un gioco nel quale il Vecchio continente non si sente partecipe.

Al tempo stesso l’allarme sulla Cina sta crescendo anche a Bruxelles per almeno due ragioni. La prima: con la sovraccapacità industriale voluta da Xi, e il boom di export made in China, è in arrivo un «secondo shock cinese» che rischia di fare molti più danni all’Europa che agli Stati Uniti. Secondo: l’atteggiamento di Xi sulla guerra in Ucraina ha aperto gli occhi a molti europei. Si è dileguata l’illusione che Pechino potesse svolgere un ruolo da intermediario diplomatico fra Putin e Zelensky. Al contrario, il sostegno economico della Cina alla Russia si è rivelato determinante, salvifico. Se Putin ha risollevato le proprie sorti, rispetto alla prima fase del conflitto, lo deve all’enorme quantità di risorse che ha trovato in Cina per compensare le sanzioni occidentali.

Gli europei hanno perso ogni speranza che la Cina voglia tornare ad essere un partner cooperativo in molti campi. L’asse Xi-Putin ha ripercussioni che vanno ben oltre la sorte dell’Ucraina. È in gioco la sicurezza stessa della Nato e dei paesi europei che ne fanno parte. Una Russia vittoriosa in Ucraina grazie alla Cina, diventerebbe una minaccia permanente per tutta l’Europa.

È la ragione per cui i dazi sulle auto cinesi sono solo un tassello in un mosaico più vasto che si sta componendo. Occhio al linguaggio che verrà usato nel vertice G7 sotto la presidenza Meloni: da qualche parte potrebbe apparire il tema delle «esportazioni duali» cinesi alla Russia, cioè le vendite di tecnologie ufficialmente ad uso civile, come microchip e droni, che in realtà la Russia usa in guerra. Finora Xi l’ha fatta franca, le sue imprese hanno venduto di tutto ai russi senza incorrere in sanzioni. Il linguaggio del G7 potrebbe cominciare a segnalare che questa immunità non durerà per sempre.

C’è anche in questo caso l’incognita Trump. Quando fu presidente dal gennaio 2017 al gennaio 2021, Trump inaugurò una stagione di protezionismo contro la Cina. Fu un precursore nella guerra dei dazi, poi imitato da Biden, infine da Ursula von der Leyen. In questo senso Xi non dovrebbe tifare per una rielezione di Trump. Al tempo stesso Trump ebbe un pessimo rapporto con Angela Merkel e con altri europei, colpì con i dazi anche alcuni prodotti di paesi dell’Unione (Italia inclusa). Xi può sperare che un ritorno di Trump indebolisca il fronte Usa-Ue ed apra nuovi varchi ad una sua offensiva diplomatica per ammorbidire gli europei.

12 giugno 2024, 18:19 - modifica il 12 giugno 2024 | 18:19

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