Russia-Ucraina, un plebiscito per riaccendere la guerra

Con l’artificiale referendum in corso in Russia, sotto mentite spoglie di un’elezione presidenziale, Vladimir Putin cerca la legittimazione popolare per un rilancio dell’invasione dell’Ucraina. Che, a più di due anni dal suo inizio, sta perdendo i connotati con i quali era stata presentata agli elettori russi: non una semplice e rapida «operazione militare speciale», ma una vera e propria guerra d’attrito, con costi umani ed economici altissimi. E perciò richiede un poderoso rabbocco offensivo nei tempi meteorologici e politici più propizi: presumibilmente nell’arco di due mesi al massimo dal giorno della riconferma scontata di Putin al Cremlino.

Non si spiega altrimenti la spasmodica ricerca di un voto plebiscitario, impedendo ogni forma di dissenso, perfino quello della scheda bianca (con l’espediente delle urne trasparenti). E inviando addirittura truppe cammellate di elettori da altre regioni della Russia nei territori occupati dell’Ucraina per cercare con il voto la conferma di un’annessione forzata e illegittima, come accadde per la Crimea prima della quarta rielezione dello zar.

Putin non ha fatto campagna elettorale. Non ne aveva bisogno visto che non aveva alternative serie e reali. E quella virtuale, cioè Navalny, era stata preventivamente e definitivamente eliminata.

Eppure nei giorni precedenti le elezioni (prolungate di tre giorni per aumentare l’affluenza e il consenso, con l’aggiunta di un voto elettronico facilmente mistificabile) Putin ha fatto quasi esclusivamente discorsi di guerra, arrivando perfino a sventolare la minaccia delle armi nucleari.

Usando toni e parole che finora erano uscite dalla bocca di Medvedev, il suo fantoccio ad alta gradazione alcolica, che lo aveva sostituito al Cremlino quando la Costituzione conteneva ancora il limite di tre mandati presidenziali.

Putin ha accompagnato, nella vigilia elettorale, questi messaggi sfidanti all’Occidente con azioni belliche di avvertimento in Ucraina — come l’attacco missilistico a Odessa — e provocazioni politiche e militari.

Nella regione separatista della Transnistria, in Moldavia, sono stati aperti seggi per le elezioni presidenziali in Russia, che hanno provocato una vibrata protesta diplomatica (l’accordo era per un seggio nell’ambasciata russa a Chisinau). La leader autonomista della Gagauzia, sempre in Moldavia, è stata a Mosca e lo zar le ha garantito la sua “protezione”.

Delle quindici ex Repubbliche dell’Urss, la Moldavia, ancor più delle Baltiche, che godono della polizza assicurativa dell’appartenenza alla Nato, è quella che sente maggiormente il fiato sul collo dell’espansionismo putiniano. E le mosse provocatorie di questi ultimi giorni miravano certamente ad alimentare la tensione e la paura del governo moldavo.

Ma, come ha segnalato Claudio Tito, da un mese e mezzo, più o meno quando, con una coincidenza sospetta, è cominciata la “campagna” elettorale di Putin, la Russia sta concentrando truppe ai confini con l’Ucraina (e perfino con i Paesi Nato limitrofi). Come fece tra la fine del 2021 e l’inizio del 2022, prima di lanciare «l’operazione militare speciale».

Un indizio preoccupante che, con il plebiscito elettorale che sta cercando in queste ore, Putin aspetta il momento propizio per rilanciare l’offensiva in Ucraina: l’assalto finale prima di essere magari lui stesso a proporre un armistizio.

E questo momento potrebbe arrivare a maggio. Quando le condizioni climatiche del terreno favoriscono le operazioni militari. E quando le condizioni politiche in Occidente aumentano le distrazioni dell’Europa, alla vigilia delle elezioni per il Parlamento europeo, e degli Stati Uniti, nell’imminenza delle convention dei repubblicani e dei democratici.

La trappola di Putin è evidente: dividere la Nato e attendere il possibile ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump, il quale ha già detto che gli lascerebbe fare «il diavolo che vuole».

È soprattutto l’Europa, dunque, che deve evitare di cadere in questa trappola. La risposta giusta, oltre ad aiutare militarmente l’Ucraina, è quella che ha dato a Repubblica il ministro della Difesa Crosetto quando, riferendosi al summit di Weimar tra Macron, Scholz e Tusk, ha invocato «una strategia chiara, non contraddittoria, e magari costruita tutti insieme come coalizione».

In altre parole, occorre sempre ricordare che c’è un aggressore, che si chiama Russia, e un aggredito, che si chiama Ucraina. E che, di fronte alla reiterata aggressività di Putin non serve, in questo momento, né suggerire la «bandiera bianca» della resa all’Ucraina, ma neppure proporre di mandare gli scarponi della Nato sul terreno ucraino.

Occorrono, semmai, compattezza dell’Europa e fermezza della Nato nel difendere i principi per i quali è stata costituita l’Alleanza, a cominciare dal caposaldo dell’articolo 5 (la difesa di un suo membro aggredito). Con o senza gli Stati Uniti di Trump.