Chi è davvero Xi Jinping, l’uomo che vuole fare della Repubblica popolare il centro del mondo
In Occidente si parla di crisi della superpotenza asiatica, che avrebbe raggiunto il suo picco. Ma il presidente spinge sull'ipernazionalismo, e punta su tecnologie avanzate, batterie, veicoli elettrici e armamenti

Il presidente cinese, Segretario del Partito Comunista e presidente della Comissione Militare, Xi Jinping pianta un albero nella foresta di Tongzhou nel distretto di Pechino. Aprile 2024
Xi Jinping non guarda la versione americana (Netflix) della serie tv Il problema dei 3 corpi. Eppure c’è una scena che parla anche di lui, è la più bella e la più terribile. Quella iniziale. Si svolge nel mezzo della Rivoluzione culturale maoista, una giovane Guardia rossa tortura a morte un professore di fisica. L’attuale presidente cinese subì le follìe di quel decennio (1966-76), quando Mao Zedong precipitò il Paese nella violenza pur di aggrapparsi al potere. Scuole e università vennero chiuse, Xi come molti della sua generazione fu mandato a zappare la terra, perdendo anni preziosi per la sua formazione, senza alcun beneficio per l’agricoltura. Andò peggio a suo padre, gerarca del partito comunista. Ex compagno di lotte di Mao, fu tra i capi caduti in disgrazia, condannato alle purghe, perseguitato. Eppure Xi tratta con rispetto, quasi una punta di nostalgia, quel periodo infame della storia nazionale. Stende un velo di censura sul milione e mezzo di morti di quella guerra civile. Ai giovani di oggi dice: «Imparate a mangiare amarezza». Quasi un velato rimprovero per il benessere di cui gode la Generazione Z, le alte aspettative dei neolaureati. Il suo appello sembra cadere nel vuoto, molti giovani preferiscono restare a casa dei genitori disoccupati, piuttosto che accettare un lavoro in fabbrica o nei campi.
Viaggiando di recente in Cina – il mio primo ritorno dopo la pandemia – ho avuto l’impressione che Xi stia facendo una sorta di conto alla rovescia: quanto tempo ancora avrà bisogno di noi occidentali, prima di liberarsi da ogni dipendenza. Di sicuro non è interessato al turismo straniero, visto che la Repubblica Popolare è ormai una “bolla digitale” quasi impenetrabile. Chi arriva da fuori, senza una app cinese e una carta di credito o conto bancario locale collegato a Weixin o Alipay (piattaforme di pagamento su cellulare), non riesce a fare nulla: prenotare un treno o un museo, pagare un taxi o un biglietto aereo. Tutto funziona alla perfezione per chi ci abita, la digitalizzazione della vita quotidiana è molto più avanzata che in Occidente, ma non è prevista l’interazione con il mondo esterno.

Xi Jinping (il primo a destra) cammina dietro suo padre, l’alto ufficiale vestito di verde. Anni 70 (foto Xinhua)
«PEAK CINA»
Gli unici stranieri che ancora interessano Xi sono quei top manager che portano capitali e tecnologie. Non per molto tempo ancora. Avida consumatrice di tecnologia tedesca per trent’anni, ora la Repubblica Popolare invade la Germania con auto elettriche e pannelli solari. Xi è accogliente con chi gli porta quelle tecnologie che Pechino non è ancora riuscito a copiare. È furioso con l’America per via dell’embargo sulle forniture di microchip sofisticati, una sanzione imposta da Biden. Ma si sta già adoperando per fabbricarseli in casa, e forse un giorno la sua Huawei ci riuscirà davvero. Nel frattempo la nostra comunità di manager espatriati a Shanghai si è dimezzata dai livelli pre-pandemia. Marco Polo cercasi. Dal momento che Pechino si chiude anche alla stampa estera, riduce i visti per giornalisti, inevitabilmente si riduce la qualità della nostra informazione sulla seconda superpotenza mondiale. La cosa non preoccupa Xi, anzi.
CRISI VERA O PRESUNTA?
In Occidente, soprattutto negli Stati Uniti, si parla molto di crisi del modello cinese. Il neologismo di moda è “Peak China”: la superpotenza asiatica avrebbe ormai raggiunto il “picco”, il vertice della sua ascesa, ora è cominciato il declino e non si sa dove finirà. I segnali di difficoltà sono reali: disoccupazione giovanile al 20%, crac del settore immobiliare. Però dall’inizio dell’anno è in atto una ripresa della crescita: +6,6% di aumento del Pil. Siamo lontani dall’Età dell’Oro, quando la Cina del periodo 1999-2008 metteva a segno una crescita del 10% annuo e anche superiore. La natura di questa ripresa è familiare: trainata dalle esportazioni. Siamo noi a tirar fuori Xi dai guai, i nostri mercati assorbono una nuova invasione di prodotti “made in China”. Mentre la dirigenza comunista pianifica la transizione verso una sempre minore dipendenza dall’Occidente, è convinta che noi non saremo capaci di affrancarci da loro.
AD OGNI CONFLITTO, PECHINO SI SCHIERA CON LE FORZE ANTI-OCCIDENTALI PER SOSTENERE IL CONTROPOTERE DEL GRANDE SUD GLOBALE

Xi Jinping nel 1989 quando era il Segretario del Partito Comunista nella prefettura di Ningde (foto Xinhua)
È tutto calcolato, si direbbe, nella visione di Xi. La crisi dei consumi interni è un disagio in buona parte fabbricato in casa, dalle politiche governative. Tornando alle sue radici maoiste, Xi da anni esprime disprezzo verso il «consumismo occidentale», segno di decadenza. Curiosamente, per una superpotenza che genera più emissioni di CO2 di Europa e America messe assieme, e che deve il proprio benessere materiale al suo ruolo di fabbrica del pianeta per conto dell’Occidente, la Cina di Xi condivide con certi ambientalisti un’ostilità moralistica verso la società dei consumi. Che gli occidentali sperperino pure, la sua nazione deve stringere la cinghia, adottare un’implicità austerity, per convogliare investimenti verso i settori strategici: tecnologie avanzate, batterie e veicoli elettrici, armamenti. Se il mondo si avvia verso una de-carbonizzazione, la Repubblica Popolare ha già il controllo (estrazione, raffinazione, lavorazione) di minerali e componenti indispensabili.
I TRE PROGETTI DEL NUOVO ORDINE
Che cosa pensano di noi, Xi e i suoi collaboratori più stretti ce lo hanno detto più volte. Altro che Peak China, siamo noi sulla parabola discendente. Il suo capo dei servizi segreti, Chen Yixin, ha detto «l’Est è in ascesa, l’Ovest in declino». Nel documento ufficiale approvato dal Partito comunista in occasione del suo centenario, si dice che «la Cina è più vicina che mai ad essere il centro del mondo». Lo stesso Xi accusa volentieri l’America di voler «occidentalizzare la Cina», una prospettiva rovinosa. Incontrando Putin a Mosca, il presidente cinese ha descritto così gli sconvolgimenti nei rapporti di forze tra i blocchi: «Accadono cambiamenti come non si erano verificati in un secolo, e siamo noi a guidarli».
«PEAK CHINA»? LA CINA AVREBBE ORMAI RAGGIUNTO IL PICCO? XI JINPING NON CI CREDE E SPINGE L'IPERNAZIONALISMO
Ad ogni conflitto Pechino non ha esitazioni, si schiera sempre con le forze anti-occidentali: Russia, Iran, Corea del Nord. Lungi dal sentirsi in declino, la dirigenza comunista lavora a costruire un’architettura alternativa dell’ordine internazionale, per sostituire quello che Xi considera come un ordine ancora troppo “americano-centrico”. Fin dal primo decennio del suo potere lui lanciò tre progetti globali che sono le architravi del nuovo ordine. Nel 2013 la Belt and Road Initiative sostituì e ampliò le Nuove Vie della Seta: un titanico piano di costruzione di grandi infrastrutture nel mondo intero, per esportare il “modello cinese” nei Paesi emergenti, vincolare a Pechino i Paesi avanzati, e smaltire le sovraccapacità produttive dell’industria nazionale. Nel 2021 fu la volta della Global Development Initiative, seguita l’anno dopo dalla Global Security Initiative. L’una è rivolta ai bisogni dei Paesi emergenti; l’altra prefigura l’embrione di una Nato sino-centrica, una ragnatela di accordi di sicurezza per contrastare i sistemi di alleanze dell’Occidente.
Libertà e tolleranza in declino
Fui corrispondente a Pechino – allora per La Repubblica – dal 2004 al 2009. Era una sorta di “età dell’oro”, per diverse ragioni. Il boom economico era ai massimi, con tassi di crescita del Pil del dieci per cento annuo. La censura era già attiva e onnipresente (per esempio, se cercavo notizie sul Dalai Lama la sua biografia su Wikipedia era oscurata mentre avevo accesso solo a notizie ufficiali che lo descrivevano come un terrorista), e io venni fermato dalla polizia due volte, quando mi ero introdotto in Tibet nel 2008 e nello Xinjiang nel 2009 durante rivolte etniche. Però le sanzioni furono abbastanza lievi, si limitarono ad espellermi ricacciandomi a Pechino, non persi il visto. Allora almeno noi giornalisti occidentali godevamo di margini di libertà e di tolleranza superiori a quelli attuali. All’epoca era presidente il grigio e incolore Hu Jintao, premier era Wen Jiabao, c’era una direzione collegiale, noiosa ma un po’ meno autoritaria rispetto all’accentramento e al culto della personalità di Xi. Vivevamo – non solo noi giornalisti, l’intera classe dirigente occidentale – nella speranza o nell’illusione che quella Cina volesse diventare un po’ più simile a noi, che l’effetto combinato dell’interdipendenza economica e di Internet l’avrebbe resa un po’ più democratica. Di sicuro sottovalutavamo problemi interni come la corruzione e le diseguaglianze, che hanno favorito l’ascesa al potere di Xi e il suo ritorno a ricette più dirigiste. La crisi del 2008 a Wall Street ha fatto il resto, perché i dirigenti comunisti hanno “gettato la maschera” e hanno cominciato ad affermare esplicitamente la superiorità del proprio sistema sul nostro.
L’ipernazionalismo
Un altro cambiamento era cominciato a spuntare nel 2008 che era anche l’anno delle Olimpiadi di Pechino. Lo rivelarono le contestazioni che accolsero il passaggio della fiaccola olimpica in alcune capitali occidentali scatenarono una reazione furibonda in Cina. Il nazionalismo acceso unì le autorità e fasce di popolazione. Quelle proteste contro la fiaccola – condotte da noi in nome dei diritti umani – furono respinte con la convinzione rabbiosa che «l’Occidente ci è ostile, vuole rovinarci una festa, non vuole ammettere che la Cina è diventata una grande potenza». La controreazione sciovinista alle manifestazioni occidentali, era un segnale premonitore dell’ascesa di Xi, che dell’ipernazionalismo ha fatto un ingrediente della propria fortuna.
«Peak China»? Lui crede, al contrario, che siamo in un ciclo lungo di tramonto dell’Occidente; il fatto che il Grande Sud globale sia spesso schierato con Pechino e contro di noi, gli appare come un segno dei tempi che verranno.