Imballaggi, no alla frutta «sfusa» e al riuso delle bottiglie di vino (ma più spazio al riciclo)
di Rita Querzè
Qualche anno fa alcuni economisti discutevano con entusiasmo di come utilizzare dei concorsi per stimolare l’innovazione. Anziché offrire a una nuova invenzione la garanzia del brevetto, che determina un monopolio per quanto temporaneo sullo sfruttamento di un’idea, si mettono in palio consistenti premi in denaro, per chi desideri tentare di risolvere i grandi problemi del nostro tempo. Per ora, si sono comportate così alcune fondazioni private, che provano a stimolare la ricerca con incentivi necessariamente complementari e non sostitutivi del sistema dei brevetti. La gara a chi arriva prima avrebbe un vincitore: come ce l’ha quella a depositare un brevetto. Il premio però dovrebbe essere talmente ingente da compensare il fatto che l’invenzione o la scoperta diventino disponibili per l’uso comune, ovvero per essere replicati da altri senza pagare royalties. Non è chiaro se questo sia davvero possibile, o sia un bel sogno di alcuni nostalgici dell’epoca d’oro delle accademie e delle società scientifiche. Certo è che la logica della gara è quella per cui se il problema è noto, non necessariamente lo è la soluzione. La scienza e le sue applicazioni non disegnano percorsi predeterminati. Possono essere messe in campo per fronteggiare situazioni problematiche, ma lo faranno sviluppando alternative che, oggi, non conosciamo.
di Rita Querzè
Viene da chiedersi se un sistema simile non andrebbe almeno considerato, prima di fughe in avanti anche quando si parla di ambiente. Il cosiddetto Green Deal ha a che fare con problemi che preoccupano ampie fette della popolazione, con tutta probabilità favorevoli a circoscrivere prassi che hanno un costo elevato per l’ambiente. Non è detto però che lo siano whatever it takes, indipendentemente cioè dai costi concreti di quelle iniziative. E soprattutto non è detto che le tecnologie attuali, per giunta imposte dall’alto sulla base di una selezione tutta interna ai corpi burocratici, siano quelle più adatte. La settimana scorsa il Parlamento europeo ha approvato la propria posizione negoziale sul regolamento imballaggi. Sono state apportate modifiche significative, che qualcuno spera portino la Commissione a rivedere il complesso della disciplina. In linea generale, il regolamento è forse lo strumento a disposizione della Commissione il più lontano dalla logica dei premi. Il regolamento imballaggi abbandona il principio della neutralità tecnologica, un tempo un caposaldo dell’Ue. Il documento, che era un po’ la pietra angolare della strategia dell’ex vicepresidente della Commissione Frans Timmermans sui problemi ecologici, faceva politica industriale spacciandola per politica ambientale, come ha scritto Giuseppe Portonera (Regolamento imballaggi, stop alla politica industriale, IBL, 2022). L’obiettivo era scoraggiare il ricorso ai prodotti imballati e, indirettamente, pure il riciclaggio, puntando invece sulle filiere corte e sul riuso. Non smaltire il materiale, ma tenerlo in circolo quanto più possibile. Una scelta con conseguenze ben più ampie che quelle, apparentemente «tecniche», circa le sostanze usate per imballaggi e spedizioni.
Voleva dire privilegiare per esempio lo sfuso, nel commercio al dettaglio, e penalizzare il monouso. Il che non necessariamente va bene per tutti i prodotti. Come ha ben spiegato Antonio Massarutto (Attacca l’asino dove vuole il padrone, L’astrolabio, 2023) tenere in circolo quanto più possibile il materiale, anziché incentivare il riciclo, può avere dei vantaggi ma ha anche dei costi. Questi non sono sempre compatibili con la sostenibilità economica e soprattutto è difficile dire quando lo siano, a priori. Va fatta la prova del budino e i soggetti più titolati per farla, piaccia o meno, sono le singole imprese mosse dal motivo del profitto, giorno dopo giorno.
Le reazioni all’approvazione del regolamento sono uno spaccato fedele di che cos’è la politica e raccontano bene perché non è saggio affidarsi a essa per decisioni di questo tipo. La sinistra festeggia l’addio alle confezioni monouso di sapone, ai sovraimballaggi classici dei tubetti di dentifricio e ai cellofan sulle valigie in aeroporto, la destra applaude la ritrovata moderazione che ha consentito di non costringere i fastfood a offrire bibite in bicchieri da lavarsi fra una consumazione e l’altra. Hanno vinto tutti, quindi non ha vinto nessuno? Alcune delle norme partorite dalla Commissione sarebbero state ferali per interi comparti, l’agroalimentare ma anche la farmaceutica. Nel vino è stata versata un po’ d’acqua.
Ma resta l’impressione che l’analisi costi benefici sia ormai scomparsa dall’orizzonte europeo. Le intenzioni del legislatore saranno pure le migliori ma non possono prescindere dai costi. Quanto davvero «guadagna» l’ambiente da norme molto restrittive? Il gioco vale la candela? Anche le leggi dovrebbero essere «sostenibili».
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