Vance ha le «chiavi» del trumpismo (e ce lo spiegò 8 anni fa)
J.D.Vance, il vice che ieri Donald Trump si è scelto, ha tutto quello che manca al suo capo. È giovane: ha 39 anni contro i 78 del candidato alla presidenza. Ha servito il suo paese in divisa, è stato in Iraq nel corpo dei marines, mentre The Donald da giovane si sottrasse al servizio di leva in Vietnam (così come fecero, peraltro, Bill Clinton e George W. Bush). Infine Vance è un vero self-made man che rappresenta il Sogno Americano: viene da quel mondo di bianchi poveri ai quali Trump (figlio di papà, rampollo di un magnate dell’edilizia) è estraneo, anche se ha saputo rappresentarne bene la frustrazione.
Alle origini della parabola politica del candidato vice c’è un libro e c’è una parola. «Hillbilly Elegy» è il titolo della sua autobiografia, a lungo un bestseller. In quel libro, uscito proprio nel fatidico 2016, l’anno della vittoria di Trump contro Hillary Clinton, c’è una delle chiavi del trumpismo. Racconta l’infanzia in una famiglia derelitta e disfunzionale, uno spaccato di miseria e di emarginazione. La parola «hillbilly» non è facilmente traducibile (infatti l’edizione italiana è uscita col titolo «Elegia americana»), io opterei per «bifolco». Un po’ come «redneck» (il collo rosso, abbronzato, tipico di chi lavora nei cantieri, all’aperto), quel termine trasuda disprezzo. È il sentimento che le élite progressiste delle due coste esibiscono verso i bianchi non laureati: gli unici verso i quali sia lecito oggi essere razzisti. Sono tra quegli elettori che hanno visto in Trump un difensore. Vance li conosce ancora meglio del suo capo, da bambino e da ragazzo era uno di loro. I suoi genitori e i suoi nonni appartenevano a quel mondo.
All’impoverimento economico di questi bianchi si è aggiunta da molti decenni una marginalizzazione che forse pesa perfino di più: quella culturale, valoriale, razziale, da parte della sinistra. Tutto ciò che appartiene al mondo degli «hillbilly» o «redneck» è diventato spregevole per un’élite globalista, multietnica, laicista, woke. Lo stesso Obama fu colto in flagrante snobismo quando in una riunione a porte chiuse con dei ricchi finanziatori di San Francisco confidò questa sua descrizione degli operai del Midwest: «Diventano amari, si aggrappano alle loro armi, alla loro birra, alla loro Bibbia, all’ostilità verso gli immigrati o il libero commercio». Un quadretto abbastanza realistico ma anche sprezzante. E un linguaggio così esplicito, così duro, non verrebbe usato dalla sinistra verso altre categorie di elettori. Lo stesso Obama avrebbe osato ironizzare su quelli che si aggrappano al loro Corano? Sicuramente no. Gli imam vanno rispettati anche se predicano regole più oscurantiste e retrograde degli evangelici di destra; no, criticare i musulmani non è politically correct. Con la campagna elettorale di Hillary nel 2016 divenne ancora più marcato l’appello ai diritti di tutte le minoranze: gay lesbiche transgender, neri ispanici islamici, più ovviamente le donne che avrebbero finalmente polverizzato il metaforico soffitto di vetro, la barriera invisibile all’emancipazione femminile. Tutti avevano qualcosa da guadagnare se vinceva lei, tutti eccetto «loro».
È un fenomeno sul quale ha riflettuto lo storico Walter Russell Mead. «Molti americani bianchi – sostiene Mead – si trovano in una società che parla costantemente dell’importanza delle identità, che valorizza l’autenticità etnica, che offre aiuti economici e sostegni sociali sulla base dell’identità – per tutti fuorché per loro. Nel corso della campagna elettorale del 2016, tutto quel parlare di un’emergente maggioranza democratica basata sul declino secolare dei bianchi venne percepito come un progetto deliberato per trasformare la composizione dell’America. Hanno visto l’immigrazione come parte di un tentativo determinato e consapevole per marginalizzarli nel loro stesso paese». Secondo un’indagine del Washington Post e della Kaiser Foundation, tra coloro che appoggiarono Trump nel 2016 il 46% metteva al primo posto tra le preoccupazioni il fatto che i bianchi stanno «perdendo».
Un best-seller uscito l’anno successivo alla prima elezione di Trump, nel 2017, s’intitolava «Strangers In Their Own Land»: estranei nel proprio paese. Con una forzatura linguistica si potrebbe anche tradurre con: stranieri in patria. L’autrice, la sociologa Arlie Russell Hochschild, esplora la frustrazione, il risentimento, il rancore che covano nell’elettorato popolare (la sua inchiesta si concentra geograficamente più a Sud, in Louisiana). Nelle interviste della Hochschild ricorre un’immagine metaforica. La condizione in cui versa il paese viene rappresentata – anzi vissuta nella «deep story», la narrazione profonda che ciascuno si crea – come una fila sempre più lunga di masse che aspirano ad accedere all’American Dream. Traguardo ambito ma un tempo accessibile: un modesto benessere per tutti, la proprietà della casa, sicurezza economica, opportunità per i figli. E mentre la fila d’ingresso al Sogno Americano s’ingrossa, e avanza sempre più lentamente o sta quasi immobile, ci sono categorie appena arrivate che passano davanti a tutti, si avvalgono di aiuti per le minoranze, sorpassano nella fila i bianchi poveri a cui nessuno presta attenzione. Donne, neri, ispanici, profughi, immigranti illegali, ciascuno ha diritto a «quote», agevolazioni, «affirmative action» per promuoverne l’ascesa.
Lo storico Mead, che traccia un parallelo fra il populismo di Trump e quello di Andrew Jackson (settimo presidente degli Stati Uniti, fondatore del partito democratico), è convinto che molti operai bianchi sentono che «Trump sta inequivocabilmente dalla loro parte, le élite no».
A conferma che oggi loro si sentono i veri perdenti, c’è la droga in fabbrica. Prima ancora del Fentanyl, dieci anni fa le nuove droghe che uccidevano erano i potenti antidolorifici a base di oppioidi come l’Oxycontin. E molte delle vittime erano loro: operai bianchi di mezza età.
Gli Appalachi sono le montagne che si estendono dal Kentucky alla Virginia. Fu una tra le prime zone degli Stati Uniti a svilupparsi, e tra le prime a entrare in una spirale di crisi, declino, impoverimento. Ci sono lì alcune delle industrie più antiche e oggi disastrate come le miniere di carbone. Nella sua campagna del 2016 Hillary Clinton predicando un futuro «californiano» fatto di energie rinnovabili e auto elettriche, si dimenticò di indicare una soluzione – anche transitoria, anche di breve termine – per quelli che nelle miniere hanno lavorato una vita, hanno perso la salute, ma hanno comunque guadagnato di che campare. Lì Trump fece il pieno di voti. Un senatore repubblicano, Ben Sasse, all’epoca evocava tra le spiegazioni il degrado umano e le nuove tossicodipendenze, in questi termini: «Nelle indagini demoscopiche che chiedono quali sono le tre o quattro principali preoccupazioni della gente, in passato il problema dei farmaci anti-dolore non appariva neppure. Oggi gli oppioidi sono diventati una delle maggiori paure. La gente sa che c’è un abuso di droghe tra persone di mezza età. Questo è un sintomo della devastazione economica».
L’inferno degli Appalachi fa da sfondo a «Hillbilly Elegy». L’autobiografia del candidato vicepresidente è la storia di uno che ce l’ha fatta a fuggire da quella regione e dalla spirale della miseria. Vance racconta come si cresce in un mondo di famiglie sfasciate, fallimenti scolastici, alcolismo, micro-criminalità… e senza neppure la «scusante» di essere neri. «White Trash», spazzatura bianca. Con la Bibbia e le armi come valore a cui aggrapparsi, appunto. Proprio come disse Obama. Dall’alto delle sue due lauree a Columbia University e Harvard.
Vance è un personaggio pieno di contraddizioni, a sua volta. Senza aiuti familiari, liberandosi dai condizionamenti delle sue origini familiari, si conquistò anche lui un’istruzione élitaria, approdando all’università di Yale, la gemella-rivale di Harvard. Prima di entrare in politica Vance aveva fatto fortuna nel venture capital, la finanza al servizio dell’innovazione. Anche se fu uno degli interpreti più lucidi del trumpismo alle sue origini, il giovane senatore dell’Ohio diede giudizi durissimi su Trump, fino a definirlo un aspirante dittatore. Il fatto che Trump lo abbia «perdonato» in seguito alla sua conversione, fino a cooptarlo nel ticket, è un caso di trasformismo. Non è l’unico. C’è un parallelo in campo democratico. Kamala Harris quando era ancora in corsa per la nomination presidenziale nelle primarie del 2020, durante un celebre dibattito tv, insultò brutalmente e gratuitamente Biden accusandolo di razzismo. L’offesa fu perdonata da Biden e quasi dimenticata dai suoi elettori, per un calcolo politico del quale forse si è pentito in seguito.
16 luglio 2024
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