Le due offensive cinesi contro di noi: ci esporta i problemi economici e prepara un ordine internazionale sino-centrico

Mai prima d’ora la Nato era stata così precisa nel denunciare le colpe della Cina nella guerra in Ucraina. Questo atto di accusa coincide con un’altra presa di coscienza, sui danni che Xi Jinping procura all’Occidente “esportando” in casa nostra i suoi problemi economici. 

Le due cose procedono in parallelo e sono una caratteristica del tempo in cui viviamo: Pechino ha i piedi in due mondi, da una parte si prepara a sostituire l’ordine internazionale americano-centrico con un assetto sino-centrico, dall’altra ha ancora bisogno di noi, soprattutto dei nostri mercati, per salvarsi dalla stagnazione economica.

Sull’Ucraina la dichiarazione emersa dal vertice Nato di Washington segna un cambio di linguaggio. Attribuisce alla Repubblica Popolare cinese «il ruolo decisivo come facilitatrice della guerra russa contro l’Ucraina», attraverso la sua «cooperazione illimitata e il suo vasto sostegno all’industria militare russa». L’ammonimento lanciato a Xi Jinping è severo: «Non può facilitare la più grande guerra europea della storia recente senza che questo abbia un impatto negativo sui suoi interessi e sulla sua reputazione». Non viene chiarito quale potrebbe essere l’impatto negativo sugli interessi cinesi, però è evidente il parallelismo tra questo inasprimento dell’analisi e dei toni in sede Nato, e quanto sta accadendo nella sfera commerciale con le misure protezionistiche anti-cinesi varate sia dall’Amministrazione Biden sia dall’Unione europea.

L’importanza assunta dalla questione cinese al summit Nato offre lo spunto per evocare Donald Trump e l’impatto che una sua rielezione avrebbe sulla stessa Alleanza atlantica. Ho seguito di recente un seminario della Heritage Foundation di Washington su questi temi. Un evento istruttivo, perché la Heritage viene considerata come un think tank vicino a Trump, addirittura coinvolta nella preparazione del suo programma di governo. Riassumo il tono di quell’evento, dedicato proprio alla Nato. Niente isolazionismo, semmai una dose di realismo: l’America non può continuare a sostenere una parte dominante e sproporzionata della difesa europea, perché non ne ha più i mezzi e perché deve fronteggiare altri pericoli. La situazione delle finanze pubbliche Usa non è sostenibile a lungo termine; la Cina è un pericolo assai superiore alla Russia; ecco perché gli europei devono attrezzarsi per difendersi (non proprio “da soli” ma con un impegno americano più leggero che in passato).

Una buona sintesi del seminario alla Heritage Foundation si può fare come segue. Da un lato c’è una “teoria Biden” sul nesso strategico Russia-Cina visto dall’America, che dal febbraio 2022 ci è stata presentata grosso modo in questi termini: «Dobbiamo fermare Putin in Ucraina se vogliamo impedire che Xi Jinping a sua volta invada Taiwan». A questa visione, gli esperti vicini a Trump contrappongono quella che secondo loro è la dottrina di Xi Jinping: «La Cina ha interesse a tenere gli Stati Uniti impegnati il più a lungo e il più intensamente possibile in Ucraina, per dissanguarli di risorse militari e così renderli impotenti nell’Indo-Pacifico». 

La conseguenza che ne traggono gli esperti trumpiani: l’America deve diventare più selettiva nell’uso delle sue risorse militari, che sono scarse, per non trovarsi sguarnita di fronte alle minacce in Estremo Oriente e nell’Indo-Pacifico. L’analisi del think tank di destra quindi è compatibile con la dottrina Nato sul pericolo cinese; non auspica né prevede un’uscita degli Stati Uniti dalla Nato; propone però una gerarchia di priorità. Ricordo che fu Barack Obama il primo a parlare di «pivot to Asia», annunciando una riconversione strategica che doveva mettere al primo posto nella dottrina americana il teatro dell’Indo-Pacifico. Quella svolta non fu mai veramente applicata. L’entourage di Trump pensa che sia ora di essere coerenti.

Anche sul versante economico bisognerebbe dare a Cesare quel che è di Cesare. E’ giusto accusare Trump di essere putiniano; non lo si può sospettare invece di essere filo-cinese. La sua prima campagna elettorale nel 2016 fu segnata dalle accuse alla Cina. I suoi dazi nel 2017 ne furono la conseguenza concreta. Gli stessi che accusarono Trump di rovinare l’economia mondiale con il protezionismo, hanno applaudito Biden quando ha confermato e poi rafforzato gli stessi dazi. Ora si sentono fare da parte democratica delle analisi molto più allarmate e severe sull’impatto economico della Cina. La parola più pronunciata dall’Amministrazione Biden su questo tema è “sovraccapacità”. In sostanza si tratta di questo. 

Sotto Xi Jinping la Repubblica Popolare sta accentuando una caratteristica del suo modello economico, fondato su bassi consumi e altissimo risparmio delle famiglie. Un tempo questo eccesso di risparmio domestico veniva usato per finanziare investimenti nelle infrastrutture interne e in quelle della Belt and Road: grandi opere pubbliche, trasporti come l’alta velocità ferroviaria, edilizia. Oggi l’edilizia cinese è in crisi. L’eccesso di risparmio viene quindi dirottato a finanziare investimenti industriali. La Cina ha troppe fabbriche ma continua a costruirne di nuove. Accumula un surplus di capacità produttiva, e per smaltirlo spinge le esportazioni, aiutandole con sussidi pubblici. Così invade i mercati mondiali di prodotti sottocosto e rovina le industrie altrui. 

Data la sua capacità manifatturiera già immensa – 30% della potenza industriale di tutto il mondo – con il suo attivo commerciale pari al 3% del Pil la Cina sta esportando i suoi problemi in casa nostra. Il surplus cinese della bilancia dei pagamenti supera il totale degli attivi raggiunti da Germania e Giappone quando erano all’apice della loro capacità esportatrice. Ciò che accade nell’auto elettrica è solo un esempio fra tanti: la Cina arriverà a una capacità produttiva totale di 70 milioni di vetture elettriche quando la domanda mondiale sarà a 45 milioni.

Di questa invasione distruttiva, sostenuta da miriadi di aiuti di Stato (in particolare quelli erogati dai governi locali delle provincie cinesi) in una totale opacità, si stanno accorgendo anche paesi emergenti e non-allineati come India Brasile Messico, di recente anch’essi hanno varato dazi e altre misure protezionistiche.

La Cina però continua a sfoderare un’offensiva della seduzione verso i paesi emergenti. Il recente summit dell’Organizzazione della cooperazione di Shanghai (tenutosi questa volta ad Astana, Kazakstan) è stato un’altra tappa nella lenta e paziente costruzione di un ordine internazionale sinocentrico. Xi persegue questa strategia ambivalente, che finora gli è stata consentita e gli ha offerto molti benefici. Usa l’Occidente come sbocco principale delle sue eccedenze di produzione, e così mantiene una capacità industriale unica al mondo; d’altro lato lavora per indebolire l’Occidente, con il suo sostegno a Putin in Ucraina e con le offensive diplomatiche per organizzare il Grande Sud globale. E’ una strategia esemplare, finché qualcuno o qualcosa non si mette di traverso.

11 luglio 2024

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