Trump contro Kamala Harris, 100 giorni da brivido
Trump contro Kamala, cento giorni da brivido da qui all’elezione del 5 novembre. È questo lo scenario su cui dobbiamo forse cominciare a riflettere. Benché Joe Biden non abbia ancora gettato la spugna, le probabilità che lo faccia continuano a salire. Non si ricorda a memoria d’uomo una campagna così “improvvisata”, con un nome nuovo gettato allo sbaraglio a tre mesi dal voto. Non è una Mission Impossible, ma bisogna valutare tutti i rischi. Cominciando con un bilancio della convention repubblicana.
Il discorso di accettazione di Donald Trump, il più lungo della storia (92 minuti), prima ancora di ricordarne i messaggi politici si presta anche a una meta-considerazione sociologica. L’ex presidente ricandidato dal suo partito ha dedicato la prima parte del discorso a una lunga rievocazione dell’attentato a cui è scampato per miracolo.
È ovvio che quello shock gli giovi. È ovvio che voglia ricavarne il massimo vantaggio. Ma queste “ovvietà” sono anche un segno del tempo in cui viviamo: un’epoca in cui le vicende personali dei politici giganteggiano nell’attenzione degli elettori.
Qualcuno – perché di età avanzata o perché ha studiato bene la storia – ricorda un’altra epoca in cui pudore e discrezione dominavano. Dwight Eisenhower, presidente repubblicano dal 1953 al 1961, era stato uno dei generali vincitori della seconda guerra mondiale. Eppure non ne parlava mai, non faceva di quel suo passato glorioso uno strumento di propaganda esplicita e vociferante. John Kennedy, che nella seconda guerra mondiale aveva combattuto, era stato ferito gravemente, aveva rischiato la vita e tratto in salvo dei compagni d’armi, scrisse un libro sul tema ma non ne parlò in campagna elettorale. Non si usava esibire vistosamente la propria vita ad uso e consumo degli elettori.
Poi è arrivata la rivoluzione dei costumi degli anni Sessanta, «il personale è politico», l’Età dell’Io, il narcisismo dei baby-boomer. Da Bill Clinton (primo presidente della Boomer Generation) in poi, l’esibizionismo è la regola, l’egomania è un tratto distintivo dei leader. Millennial e Generazione Z sono cresciuti nell’era dei social e sono a tutti gli effetti figli e nipoti di iper-vanitosi come i Clinton, gli Obama, i Trump.
Il falò delle vanità brucia in fretta. L’attentato giova a Trump, senza alcun dubbio. Da qui a dire che sarà il fattore decisivo il 5 novembre, e quindi i giochi sono fatti, non ci giurerei. Prudenza. Nell’epoca in cui l’attenzione media è quella per un video su TikTok, cento giorni sono tanti e anche l’emozione per l’attentato andrà riducendosi. Sul resto del discorso trumpiano vi rimando al mio videocommento di oggi ma il succo è questo. Non c’è stata una metamorfosi, Trump ha speso qualche appello per l’unità nazionale ma resta divisivo, mezza America lo teme o lo odia. I suoi punti di forza maggiori sono sempre quelli, inflazione e immigrazione. A questo punto la palla è nel campo avverso.
I democratici finora hanno fatto di tutto per aiutare Trump, con il “calvario” di Biden. Se questa brutta storia finisce con il ritiro della sua candidatura, hanno la possibilità di imprimere una svolta repentina alla dinamica della campagna. Di colpo si smetterà di parlare ossessivamente degli acciacchi di Biden e si comincerà a parlare di una nuova candidatura. Può essere la chance per togliere a Trump il vantaggio da attentato, conquistare l’attenzione degli elettori su temi positivi, ripartire su un percorso diverso.
Bisogna però aver chiaro il pericolo, soprattutto se un ritiro della candidatura Biden si accompagna a un “endorsement” ufficiale del vecchio Joe in favore della sua vice.
I sondaggi danno risposte ambigue, e tutt’altro che esaltanti, sulla capacità di Kamala di sconfiggere Trump. Ma dimentichiamo pure i sondaggi: valgono poco. Un tema di fondo è questo: al di là della vecchiaia Biden è impopolare perché il giudizio sulla sua presidenza è complessivamente negativo, una maggioranza di americani (compresi molti elettori democratici) pensano che la nazione sia “sulla cattiva strada”. Kamala essendo stata la numero due nell’ultimo quadriennio non può fare campagna senza prendersi la responsabilità integrale delle politiche di Biden. Non può certo improvvisare una campagna “da opposizione” né prendere le distanze da qualche aspetto della presidenza Biden. Dunque, tolto il fattore età, è in parte appesantita dalla stessa zavorra che penalizza Joe.
I repubblicani hanno già cominciato a segnalare la loro linea d’attacco principale contro la Harris: «L’unico dossier che Biden le delegò, l’immigrazione, è stato un disastro». Di una sola cosa doveva occuparsi lei, e proprio quella cosa lì oggi è una delle ragioni per cui Trump può essere rieletto.
L’immigrazione clandestina è un handicap enorme per la Harris, per più di un motivo. La sinistra radicale, quella “no border” guidata da Alexandria Ocasio Cortez, considera Kamala una vera e propria traditrice. Al suo primo viaggio da vicepresidente in Centroamerica la Harris andò a proclamare alto e forte uno slogan adatto a Matteo Salvini: «Non vi vogliamo negli Stati Uniti. Restate dove siete. Vi aiuteremo a rimanere a casa vostra». La destra l’accusa del contrario: a quelle parole non seguirono i fatti, perché gli ingressi clandestini continuarono a crescere. E questi ingressi clandestini sono una ragione per cui i democratici perdono consensi perfino tra i black e i latinos. L’insicurezza sul controllo delle frontiere spaventa i ceti popolari, anche se di origine straniera. Inoltre la manodopera clandestina fa una concorrenza sleale sul mercato del lavoro che impoverisce proprio black e latinos. La Harris qui è vulnerabile da tutti i lati. E come dice la propaganda repubblicana: «Se ha fallito miseramente sull’unico dossier a lei affidato, figurarsi se dovesse governare tutto il resto, dall’economia ai destini del mondo».
Un passaggio delle consegne da Biden alla Harris non è affatto automatico: a meno che il presidente si dimetta anzitempo, interrompa il suo mandato, lasciando che sia Kamala a guidare l’esecutivo negli ultimi mesi. In ogni caso non sappiamo se Biden sia convinto che la sua vice può sconfiggere Trump. Non è automatico neppure il travaso di delegati alla convention di metà agosto a Chicago, perché in caso di ritiro di Biden i delegati designati durante le primarie acquistano piena libertà di voto. Non mi risulta sia veramente automatico neanche il trasferimento dei finanziamenti elettorali dalla campagna Biden ad un’eventuale campagna Harris.
In ogni caso qui siamo in “unchartered waters”, un mare sconosciuto, la situazione è senza precedenti, molte regole verrebbero improvvisate strada facendo dai notabili del partito democratico. Nancy Pelosi e Chuck Schumer e Hakeem Jeffries, gli Obama e i Clinton, più qualche altro maggiorente di Senato e Camera, più il concerto dei governatori, dovrebbero unirsi in uno sforzo di fantasia creativa. Con pochissimo tempo a disposizione, e tante mediazioni delicate.
Una convention “aperta” a Chicago – candidature multiple, dibattito e confronto reale davanti ai delegati e all’opinione pubblica – sarebbe un bell’omaggio alla democrazia. Far fuori Kamala comunque sarà problematico. Lei fu scelta non per le sue competenze, modeste, quanto perché donna e di colore. Una sua bocciatura scatenerà prevedibili accuse di razzismo e sessismo. Peraltro una sua candidatura rischia di confermare nell’America bianca – quasi il 60% degli elettori – che la sinistra difende solo i diritti delle minoranze e offende quelli della maggioranza. È una trappola in cui Biden s’infilò nel 2020 per placare l’ala radicale.
A proposito di voltagabbana: è stato ricordato giustamente che J.D.Vance definì Trump un aspirante Hitler, prima di diventare trumpiano; a onor di cronaca va ricordato che Kamala dovette la sua breve notorietà durante le primarie 2020 all’accusa che lanciò a Biden di essere un razzista, il peccato più infamante nell’America di oggi.
Cento giorni saranno sufficienti forse a cancellare una parte dell’effetto-attentato a beneficio di Trump. Rischiano di essere pochi per ricostruire una credibilità di Kamala, oppure per gestire con delicatezza e tatto il suo allontanamento in favore di altre o altri candidati. L’utilità di riaprire i giochi rinunciando a Biden, è che almeno l’attenzione si sposta, finalmente si parla d’altro che della sua vecchiaia.
19 luglio 2024, 12:30 - modifica il 19 luglio 2024 | 12:56
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