Biden e l'Onnipotente (a tu per tu): il Covid è il segnale giunto dall'alto?

«Only the Lord Almighty…»., solo Dio onnipotente può toglierlo dalla gara per la rielezione. Così diceva qualche giorno fa Joe Biden, il secondo presidente cattolico praticante dopo John Kennedy. Non vorrei suonare irrispettoso, ma mi chiedo se il Covid rientri nei possibili segnali giunti dall’alto. Un Covid leggero, con pochi sintomi, di quelli che ormai si curano facilmente: un “nudge”, una spintarella amichevole, un incoraggiamento discreto e gentile, insomma? I segni della Provvidenza o del destino hanno spesso conquistato l’attenzione dei potenti. A Napoleone fu attribuita la seguente risposta, quando venne interrogato sul talento principale che lui cercava nei suoi generali: “La fortuna”.

La fortuna bacia generosamente Donald Trump di questi tempi, con quel “centimetro di differenza” nella traiettoria della pallottola, l’impercettibile errore di mira che gli ha salvato la vita. Napoleone sceglierebbe Trump anziché Biden, perseguitato dalla sfortuna.

Ma Biden almeno in parte se l’è cercata, la sventura, con le sue ambiguità e tante promesse mancate. Quattro anni fa lasciò che il suo partito e la nazione lo vedessero come un presidente “da un solo mandato”, una soluzione-ponte per impedire la rielezione di Trump, rappacificare il paese, curare le sue ferite, e preparare l’avvento di una nuova generazione di leader democratici. Lasciò che il suo partito e la nazione credessero nell’inganno di una Kamala Harris già presidente in pectore. Lasciò che il suo partito e la nazione s’illudessero che lui avrebbe governato al centro (come sembrava logico vista la sua storia personale), con ragionevoli e pragmatici compromessi per attirare i repubblicani moderati (ce ne sono ancora, stile Mitt Romney, benché ammutoliti nel trionfalismo della convention a Milwaukee). Lasciò che l’America e il mondo puntassero su una ritirata dagli affari internazionali dopo un rapido abbandono dell’Afghanistan.

La sfortuna Biden se l’è fabbricata, dunque. Si è circondato di una bolla autoreferenziale, media inclusi, che gli tesseva gli elogi delle sue politiche. Un esempio cruciale riguarda l’impatto dell’inflazione sui bilanci delle famiglie e quindi sullo stato d’animo degli elettori. Un celebre detto ispirò la campagna elettorale di Bill Clinton nel 1992: «It’s the economy, stupid!». L’insulto contenuto in quello slogan era rivolto al candidato e al suo staff: stupidi loro, se per un attimo dimenticavano la centralità dell’economia nelle preoccupazioni degli elettori. Nell’era Biden lo slogan è stato deformato in una volgare caricatura che diventa: «Stupidi americani, l’economia va benissimo». Al malcontento diffuso per il carovita, per l’impatto dell’immigrazione clandestina sui salari operai, per i danni della criminalità e della tossicodipendenza sul tessuto socio-economico dei quartieri popolari, Biden e il suo clan, spalleggiati da fior di opinionisti, continuavano a dire: l’economia va da Dio, aprite gli occhi su questa meravigliosa realtà e smettete di lamentarvi. Salvo adottare, tardivamente, le stesse misure (dazi, qualche restrizione sull’immigrazione illegale) che a Trump erano state rinfacciate come delle vergogne abominevoli.

Per il vasto mondo Biden non è stato quel fuoriclasse della politica estera che lui si considera. Lasciamo perdere lo slogan un po’ semplicistico (ma non privo di efficacia) dei repubblicani, «Zero guerre sotto Trump, due guerre sotto Bide». Molti europei danno atto al presidente in carica di avere resuscitato la Nato. E’ vero che dal febbraio 2022 Biden ha costruito una discreta coesione in Occidente e con altri alleati (Giappone, Corea del Sud, Australia). Però la guerra in Ucraina la sta vincendo Putin; l’efficacia di Biden non si misura solo dalle buone intenzioni, se mancano i risultati decisivi. Gaza è una ferita aperta che ha esasperato le contraddizioni interne al partito democratico. L’ala sinistra è filo-palestinese al punto da giustificare le stragi di Hamas. La comunità ebraica d’America, una colonna portante del movimento progressista, si sente abbandonata di fronte all’antisemitismo che dilaga. Biden ha detto tante cose giuste a Netanyahu; però il premier israeliano ignora le richieste della Casa Bianca e tra sei giorni sarà lui a salire in cattedra a Washington con un discorso al Congresso.

Anche qui, comunque uno la pensi su Gaza, il bilancio di Biden è: tante buone intenzioni, risultati scarsi. Intanto la Cina continua ad alzare la voce a gonfiare i muscoli militari in Estremo Oriente; continua a invadere il mondo intero con uno tsunami di esportazioni a prezzi stracciati (dumping) che mettono sotto pressione tante nostre industrie. Di fronte a questo bilancio descrivere Biden come un grande esperto di politica estera, e Trump come un pericoloso irresponsabile, sta diventando un’altra facile caricatura. Non spiega, ad esempio, la popolarità di Trump in diversi paesi emergenti del Grande Sud globale: dall’India all’Arabia saudita. Non dà conto di una contraddizione: se l’opinione pubblica americana è dominata da poderose correnti isolazioniste, a destra così come nella sinistra radicale, è più “democratico” un leader che viene incontro al desiderio degli elettori o uno che li tradisce?

Alle difficoltà attuali, Biden negli ultimi giorni ha risposto con nuove concessioni all’ala più radicale del suo partito. Tra le ultime che ha appena lanciato in campagna elettorale: una riforma della Corte suprema; di quelle che se ordite da un governo di destra in Israele o in Polonia vengono denunciate come dei golpe istituzionali. La Corte nella sua composizione attuale ha una maggioranza di destra. Ma andare all’assalto di questo organo perché le sue decisioni non piacciono, è esattamente ciò che in altri contesti definiamo una deriva autoritaria.

Tra le altre proposte annunciate da Biden all’improvviso in quest’ultima fase della campagna elettorale, a cento giorni dal voto: una sorta di blocco dei fitti, e un condono generalizzato di debiti delle famiglie (che fa seguito a quello già controverso dei debiti studenteschi). Anche in questi casi, vale il principio di obiettività? Se un leader di destra gettasse in pasto agli elettori questo genere di regalìe a cento giorni dallo scrutinio, parleremmo di demagogia e voto di scambio. Il che non esclude che queste promesse funzionino! Nel qual caso la fortuna tornerebbe a baciare Biden, e lui sarebbe confortato sul verdetto di God Almighty

Per adesso i suoi sembrano invece in preda allo scoramento. L’ultimo pezzo grosso del partito democratico ad essersi speso per un ritiro della candidatura del presidente, è il capogruppo alla Camera. Con un argomento potente: caro presidente, se insistiti a rimanere tu il candidato, rischi di farci perdere anche le legislative. Il 5 novembre infatti non votiamo solo per il presidente, ma anche per rinnovare il Congresso. Un deficit di entusiasmo della base democratica, qualora si traducesse in un calo di affluenza alle urne, potrebbe penalizzare anche tanti candidati parlamentari.

Una critica spesso rivolta a Trump, e giustificata, è la seguente: mette i suoi interessi personali al di sopra del bene della nazione. Se Biden non si sbriga a ritirarsi, per essere obiettivi dovremo accusarlo dello stesso peccato.

18 luglio 2024

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