La guerra in Ucraina e i negoziati interrotti: dalla visita di Johnson a Zelensky al ruolo di Kozak, l’inviato di Putin e la Nato

Il momento è delicato: l’aiuto occidentale sembra più incerto, mentre la Russia ha messo l’economia sul piede di guerra. È così in parecchi tirano fuori la storia di quel negoziato interrotto, che Zelensky – spinto dagli alleati – avrebbe fatto molto male a lasciarsi sfuggire. Torniamo all’inizio di aprile 2022. L’assedio a Kiev è fallito, l’Ucraina contro ogni previsione resiste, infliggendo alla Russia danni prima impensabili. Dopo i primi incontri diplomatici, i negoziatori russi paiono ammorbidirsi. Le parti si ritrovano a Istanbul e sembrano poter raggiungere una specie di accordo quadro: il ritiro della Russia sulle posizioni del 23 febbraio, cioè prima dell’invasione, e in cambio l’Ucraina si sarebbe impegnata a non aderire alla Nato - tenendo forse anche aperta la possibilità di modificare le sue rivendicazioni territoriali su Donbas e Crimea. Kiev inoltre avrebbe ricevuto delle garanzie di sicurezza dagli alleati in Occidente. Questo accordo stabiliva principi generali piuttosto che dettagli specifici, specie sui territori a cui l’Ucraina avrebbe potuto rinunciare, che sarebbero stati decisi in un incontro successivo tra Putin e Zelensky. L’abbozzo di accordo però franò e alcuni commentatori imputano alla leadership ucraina di aver commesso un grave errore rinunciando a quel compromesso. C’è chi sostiene – e Putin è fra questi – che sia stata la pressione americana e britannica a spingere Zelensky a continuare a combattere. Ma è successo davvero questo? E anche se fosse, fu davvero un errore?

Tra le fonti più concrete sulla presunta interferenza occidentale ci sono alcuni articoli di Ukrainska Pravda, quotidiano ucraino. Fonti anonime dell’entourage di Zelensky avrebbero raccontato al giornale che all’inizio di aprile la controparte russa sembrava pronta a un incontro tra Putin e Zelensky. Il tema principale sul tavolo era la neutralità dell’Ucraina. Ma quel processo si è interrotto in concomitanza con il viaggio improvviso di Boris Johnson, all’epoca primo ministro inglese, atterrato a Kiev il 9 aprile 2022. Ecco cosa scrive di quella visita Ukrainska Pravda – un articolo citato regolarmente come prova della nefasta mano occidentale. “Johnson portò a Kiev due semplici messaggi: Putin è un criminale di guerra, bisogna fare pressione su di lui, non negoziare. E in secondo luogo, anche se voi (ucraini) siete pronti a firmare accordi sulle garanzie (di sicurezza), noi (Regno Unito) non lo siamo. Possiamo firmarli con voi, ma non con lui (Putin), che comunque non li rispetterà”. Fu vera ingerenza? Perché gli ucraini si tirarono indietro?

L’autore dell’articolo, il giornalista politico Roman Romaniuk, dice di non condividere la teoria che attribuisce a Johnson il blocco del negoziato di pace. Secondo Romaniuk, che risulta intervistato almeno una volta sulla questione, Boris Johnson – di cui Zelensky si fidava – non era venuto per fermare l’accordo, ma per esprimere il suo scetticismo verso Putin, e questo scetticismo era largamente condiviso dal team di Zelensky. La paura era che il Cremlino non avrebbe rispettato l’accordo più a lungo di quanto non fosse utile ai suoi piani. C’era anche il sospetto che il negoziato fosse una mossa per prendere tempo visto che la delegazione russa mandata a trattare non era di primo livello. Dunque i paesi occidentali non si fidavano e non erano pronti a dare garanzie di sicurezza a Kiev – avrebbero potuto farlo ma non ebbero il coraggio? Forse sì. Va ricordato però che Putin aveva fatto carta straccia delle precedenti garanzie di sicurezza, il Memorandum di Budapest, e che il ministro degli esteri Lavrov mentiva fino a pochi giorni prima dell’invasione: per lui le truppe russe si stavano solo esercitando. E molti in Occidente credevano a Lavrov piuttosto che ai segnali di guerra imminente denunciati dagli americani.

Secondo Romaniuk, l’altra grande preoccupazione di Zelensky era che la società ucraina dopo un mese di guerra brutale non avrebbe accettato un simile accordo. Per Zelenskyy, leader eletto in modo democratico, era difficile cedere la Crimea e il Donbas alla Russia così facilmente. Era difficile aderire alle condizioni di Putin senza adeguate garanzie di sicurezza, col rischio che la Russia avrebbe usato la tregua per prendere tempo e poi riattaccare.

A detta di Romaniuk, Zelensky e i suoi negoziatori capirono di non aver alcun mandato per fare concessioni territoriali alla Russia (ancora oggi la stragrande maggioranza degli ucraini è contraria, secondo i sondaggi). In quegli stessi giorni vennero anche scoperti i massacri di civili a nord di Kiev, nelle aree temporaneamente occupate dai russi, e le chance di compromesso vennero affossate ancora di più. Quanto ai nuovi territori nel sud e nell’est dell’Ucraina, la realtà sul campo già mostrava che i russi non avevano alcuna intenzione di ritirarsi (avrebbero annesso quelle regioni pochi mesi dopo con dei referendum illegali). Quel luglio, in un’intervista con i media statali russi, il ministro degli esteri Sergey Lavrov affermò che il compromesso non era più un’opzione, e che anche il Donbas non era più sufficiente, perché “la geografia era cambiata”.

Un ulteriore indizio sulle motivazioni di Putin saltò fuori a settembre con uno scoop di Reuters. Secondo tre fonti anonime vicine alla leadership russa, il principale inviato di Putin in Ucraina, Dmitry Kozak, nelle prime fasi della guerra informò il suo capo di aver strappato un accordo provvisorio da Kiev: la rinuncia di aderire alla Nato. Ma Putin avrebbe ignorato la concessione e deciso di andare avanti con operazioni militari su larga scala.

Dunque cosa ha ottenuto l’Ucraina in quasi due anni di guerra? Ricordiamoci che oggi controlla circa l’80% del suo territorio e combattendo ha recuperato almeno metà delle terre conquistate dai russi dall’inizio dell’invasione del 2022. La linea del fronte è sostanzialmente ferma da un anno. Nel 2024 però gli aiuti occidentali potrebbero diminuire. “Per gli ucraini ora si pone un punto interrogativo a cavallo tra militare e politico: prepararsi per tentare un’altra controffensiva, quindi chiedendo aerei da combattimento, carri armati etc.; oppure prepararsi per tenere questo fronte contro l’offensiva russa, chiedendo maggiore artiglieria e mine e facendo lavori di fortificazione”, spiega Alessandro Marrone, capo del programma “Difesa” dello Iai, uno dei principali think tank italiani. “Puntare su un’altra controffensiva significa pensare che questa volta si riesca a sfondare, e mi sembra molto difficile e molto rischioso – i russi saranno ancora più trincerati. Ma difendere la linea del fronte significa di fatto rinunciare a liberare il resto. In questo caso si andrebbe verso uno scenario coreano”.

Alle condizioni attuali, secondo Marrone, le linee difensive sono abbastanza efficaci da fermare reciproci attacchi. Un rallentamento degli aiuti militari chiaramente indebolirebbe l’Ucraina, ma dovrebbe essere molto grave, “un’interruzione sostanzialmente”, per arrivare a un punto in cui l’Ucraina non riesca a reggere il consumo di munizioni, il danneggiamento e la distruzione di mezzi blindati.

Un blocco degli aiuti occidentali non fermerebbe la guerra. Sarebbe solo un grosso danno per l’Ucraina che però continuerebbe a combattere. E sarebbe una follia per l’Occidente che a quel punto si troverebbe sul serio con uno Stato fallito sull’uscio di casa. Boris Johnson arrivò a Kiev con un messaggio giusto: vi sosteniamo. Bisogna mantenere la promessa.