Smart working, le lavoratrici hanno meno accesso a forme di flessibilità del lavoro

Le differenze fra uomini e donne sul luogo di lavoro a volte non si contano, ma si pesano. Si vivono e si avvertono nella pratica quotidiana più di quanto non sia possibile leggerle nei contratti, nelle leggi e nel complesso dell’inquadramento normativo. Forse dunque sono più persistenti e più subdole nella realtà, anche quando invisibili nelle regole. Almeno questo è il sospetto che suscita una recentissima ricerca che il team di Economic Graph di LinkedIn, ossia gli esperti di analisi dei dati, ha svolto per il Corriere sul mercato del lavoro in Italia.

La domanda sottoposta alla prova dei dati è apparentemente semplice: in base alle informazioni (rese anonime) che sono reperibili sul LinkedIn, le donne hanno più o meno accesso degli uomini al lavoro a distanza o al lavoro ibrido, grazie al quale si può operare da casa per un certo numero di giorni alla settimana o al mese? I risultati dell’analisi del social network più usato nella vita professionale – che in Italia ha circa 19 milioni di iscritti, almeno tre quarti dei quali attivi – sono molto chiari: le lavoratrici hanno meno accesso alle nuove forme di flessibilità del lavoro emerse dopo la pandemia, rispetto ai colleghi maschi. L’attività da remoto è praticata dal 5,8% delle donne contro il 6,8% degli uomini (almeno, fra coloro che disseminano i propri dati su LinkedIn), mentre l’obbligo della presenza spetta al 71,7% delle donne contro il 65,6% degli uomini. 

Quanto alle soluzioni «ibride», con un numero di giorni concordato di attività a distanza, anche qui gli uomini sembrano avere soluzioni più convenienti: vi hanno accesso nel 27,6% dei casi registrati su LinkedIn, contro il 22,5% per le donne. Se tutti questi scarti sembrano piccoli, bisogna tenere conto che la forbice in termini relativi è a favore dei lavoratori maschi rispettivamente del 17% (sullo smart working totale) e del 22% (nel caso dell’ibrido).

I risultati sull’Italia confermano quelli di una ricerca simile che la squadra di data analytics di LinkedIn ha fatto in Francia (29 milioni di iscritti alla piattaforma) e pubblicati dal quotidiano Les Echos. Oltralpe, la spiegazione più plausibile di questo scarto in quello che potrebbe essere definito un’opportunità di nuova generazione – il lavoro almeno in parte da casa – sembra spiegarsi soprattutto con la maggiore forza degli uomini nelle gerarchie: il 66% delle posizioni di responsabilità sono in mano a loro e gestiscono il loro tempo operativo più liberamente. E di certo anche in Italia solo il 32% dei manager è donna, secondo una recente ricerca di Francesco Baldi e colleghi della Luiss. Peraltro in Italia l’analisi dei dati di LindenIn segnala differenze particolarmente forti nei servizi professionali (avvocati, commercialisti, architetti e vari altri) con il 43% degli uomini che si dichiarano in regime ibrido e solo il 35% delle donne.

Questi risultati, a prima vista, sorprendono. Come osserva Rita Querzè nel libro Donne e lavoro. Rivoluzione in sei mosse, un punto di riferimento sul tema, l’agenzia Eurostat registra semmai un maggior incidenza di donne che normativamente hanno contratti tali da implicare del tempo di lavoro a casa. Anche Maurizia Villa, amministratore delegato della società di head hunting Korn Ferry in Italia, sottolinea come ormai non ci siano differenze di genere nell’accesso ai diritti e negli accordi contrattuali: soprattutto in grandi aziende come Unicredit, Generali, Snam o Microsoft.
Eppure LinkedIn continua a cogliere differenze nella pratica quotidiana. In parte forse sono spiegabili con quel 45% di donne che – secondo il centro studi americano Catalyst – si sentono meno ascoltate se partecipano a una riunione in teleconferenza. In parte perché, nota l’imprenditrice Elisabetta Neuhoff di Close to Media, le donne cercano di più la condivisione e la conferma degli altri.

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