Il debito pubblico italiano non è più il più costoso d’Europa: il sorpasso dell’Ungheria
di Francesco Bertolino
È buona norma iniziare l’anno azzardando previsioni sui dodici mesi a venire. I lettori di questa newsletter sapranno però che cerco di evitarle. In primo luogo per non sbagliarle. In secondo, perché non credo che le previsioni rientrino nella lista dei miei compiti. È già abbastanza impegnativo cercare di orientarsi nei fatti effettivamente accaduti, per raddoppiare sui fatti che in teoria dovrebbero accadere. Però ho notato un dettaglio, nella conferenza stampa di Giorgia Meloni di inizio anno: la premier ha parlato per 190 minuti, ma non ha citato neanche una cifra. Non una. Eppure in tre ore di discorsi qualche numero te lo aspetteresti anche da un amministratore di condominio, mentre Meloni governa un’economia complessa da duemila miliardi di euro di produzione lorda e seicento miliardi di export. Come interpretare il suo silenzio?
Forse è il caso di iniziare dalle cifre che Giorgia Meloni non avrebbe potuto citare, perché sarebbe stato davvero irrituale. Non avrebbe potuto riferirsi allo scivolamento ormai evidente dell’Italia dallo status di Paese avanzato, al rango di un Paese a reddito medio ormai distante dalla frontiera dell’economia globale. Perché questo è ciò che sta accadendo, malgrado le migliaia di imprese dinamiche e i milioni di professionisti eccellenti d’Italia.
di Francesco Bertolino
Meloni non avrebbe potuto dire che la quota dell’economia italiana in quella dei 27 Paesi dell’attuale Unione europea è crollata del 26% fra il 1995 e il 2023 (giù dal 17,2% al 12,7%). O che negli stessi anni la sua quota è scesa del 21% anche fra i venti Paesi attualmente dell’euro: pesavamo poco meno di un quinto dell’attuale zona una trentina di anni fa, pesiamo a stento il 15% oggi. Si può pensare che un simile declino sia un’illusione ottica data dalla crescita delle nuove economie d’Europa centro-orientale, ma il confronto con la Francia mostra che non è così: la quota dell’economia transalpina nell’attuale area-euro è rimasta praticamente invariata dal 1995 a oggi, la nostra è fortemente scesa. Siamo proprio noi a perdere rilevanza (tutti i dati vengono dalla banca dati della Commissione europea).
Del resto Meloni non avrebbe potuto aggiungere che il paragone dell’Europa tutto sommato non sarebbe stato neanche troppo impegnativo, per l’Italia. Paragoniamo per esempio questa Europa a 27, sulla quale stiamo perdendo terreno, agli Stati Uniti. In dollari correnti, nel 1996 le due economie erano di dimensioni uguali: entrambe a circa ottomila miliardi di prodotto lordo. E adesso? Malgrado la forte crescita dei Paesi emergenti dell’Europa centro-orientale, nel 2022 l’economia americana era del 52% più grande di quella dell’Unione europea, uno scarto di quasi diecimila miliardi di dollari che nel 2023 non ha fatto che allargarsi ancora.
Provo a esprimere lo stesso concetto in un altro modo, riassunto nel grafico qui sopra. All’inizio della globalizzazione, nel 1980, il prodotto interno lordo per abitante negli Stati Uniti era paragonabile a quello medio dell’Unione europea a 27 Paesi (malgrado il reddito basso delle economia allora sottomesse all’Unione sovietica). Facciamo un “fast forward” al 2022 e il reddito medio per abitante negli Stati Uniti è di 76.300 dollari correnti, quello medio nell’Unione europea è di 37.400 dollari correnti: meno della metà, malgrado il fortissimo recupero dell’arco dei Paesi che vanno dall’Estonia alla Slovenia. Tra l’altro la differenza è cresciuta particolarmente a partire dalla crisi del 2008, primo grande momento di rottura del trentennio della globalizzazione (i dati in questo caso sono della Banca mondiale).
di Daniele Manca
In sostanza l’Italia sta perdendo terreno su un’area economia che, a sua volta, sta rapidamente perdendo terreno rispetto alla frontiera produttiva e tecnologica del mondo. Siamo in decelerazione rispetto a un gruppo di Paesi che già di per sé decelera. La conseguenza è che la nostra perdita di velocità rispetto alla frontiera è impressionante. Nel 1992 il reddito medio per abitante negli Stati Uniti era di appena il 9% sopra a quello dell’Italia, in dollari correnti. Nel 2022 è di un bel pezzo più del doppio sopra a quello dell’Italia, 34 mila dollari contro 76 mila dollari medi per abitante. Si dirà che esprimere questi scarti in dollari a valore corrente non è perfetto; forse il confronto andava fatto in modo da scontare le fluttuazioni dei cambi o del valore d’acquisto. Ma di fronte a slittamenti così enormi – che proseguono – davvero non fa molta differenza.
Anche perché Meloni nella sua conferenza stampa avrebbe avuto altre cifre da non ricordare. Per esempio, quelle che mostrano come il nostro Paese si stia chiudendo al mondo. In proporzione alle dimensioni attuali dell’economia, dal 2005 al 2022 l’Italia avrebbe ricevuto in totale investimenti esteri diretti per 120 miliardi di euro correnti in più, se avesse ne avesse avuti in proporzioni pari alla Francia; e ne avrebbe avuti per 600 miliardi di euro in più, se l’Italia avesse avuto dal 2005 investimenti dall’estero pari alla media dell’Unione europea (sempre in proporzione al prodotto lordo).
Quanto agli investimenti diretti dall’Italia verso l’estero, dal 2005 hanno raggiunto un valore cumulato del 27% del Pil. Per la Francia del 40% del Pil, per la Germania del 48%, per la Spagna quasi del 60%. I legami produttivi dell’Italia con il resto del mondo si stanno sviluppando di meno rispetto alle economie avanzate. Importiamo meno capitali produttivi, meno conoscenze e competenze dei processi e delle tecnologie, meno innovazione. Siamo meno presenti nelle catene complesse di produzione e organizzazione del mondo, meno capaci di articolare la nostra presenza al di fuori delle nostre frontiere. Tutto questo limita le nostre le nostre possibilità. Malgrado tanti casi individuali in senso opposto, come Paese ci stiamo chiaramente rannicchiando (qui i dati sono dell’Ocse di Parigi). Tra l’altro il Centro Studi di Confindustria (grazie!) mi fornisce altri dati che mostrano come gli investimenti diretti in arrivo dall’estero confermano anche nel 2023 le tendenze di lungo periodo: più investimenti produttivi verso gli Stati Uniti; ma l’Italia e l’Europa registrano un rallentamento anche rispetto al 2022.
di Francesco Bertolino
Sarebbe stato troppo aspettarsi che Meloni sollevasse questi temi giovedì scorso. Una conferenza stampa di un leader non è una newsletter, né un seminario. Non sarebbe stato troppo però aspettarsi in una premier giovane, donna, poliglotta, attenta a ciò che accade nel mondo, e alla testa di un governo capace di durare, un senso di rivolta per questo destino apparente dell’Italia. Questo io non l’ho avvertito. Mi dicono che Meloni sia uno di quei rari politici che studiano le carte e vanno a fondo sui problemi, prima di prendere ogni decisione. Eppure, in conferenza stampa il 4 gennaio e in genere nella sua azione di governo, di economia ha scelto di parlare pochissimo e in termini vaghissimi. Come se tutto andasse già avanti da sé. Come se gli italiani non avessero bisogno di una scossa, di un incoraggiamento, di sentire che a Roma c’è qualcuno che cerca di ridare energia al Paese.
di Federico Fubini
Il collega del Corriere, Marco Galluzzo, giovedì ha chiesto a Meloni degli scarsi investimenti esteri diretti in Italia e dell’americana Intel la quale – malgrado i precedenti impegni per un impianto da 5 miliardi di euro vicino a Verona o in Piemonte – ha preferito strutturare la sua filiera di semiconduttori in altri quattro Paesi europei (Germania, Francia, Irlanda, Polonia). A Galluzzo Meloni ha risposto con generici cenni a interventi da fare su “giustizia” e “burocrazia”, senza nemmeno riferirsi agli impegni che lei stessa ha appena sottoscritto a Bruxelles con il Piano nazionale di ripresa e resilienza. Anzi del Pnrr - che è l’unico progetto-Paese oggi esistente, l’unica fonte di veri investimenti - Meloni nella conferenza stampa non ha praticamente parlato: malgrado un 2024 di riforme previste, in teoria, difficili e importanti (ne ho scritto ieri sul Corriere), è stato come se la premier volesse tenere le sue distanze da quel piano. Si è giusto limitata a ripetere come consideri importante la presenza dello Stato in certe imprese - una ricetta non nuovissima - e per l’economia è stato più o meno tutto.
Dunque sono costretto a iniziare l’anno contraddicendo subito me stesso: mi sbilancio in previsioni. Nel 2024, se continua così, rischiamo di non deviare dalle nostre tendenze degli ultimi trent’anni.
Questo articolo è apparso nella newsletter Whatever it takes, curata da Federico Fubini, del Corriere della Sera. Per iscriversi, cliccare qui.
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08 gen 2024
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