L’accordo sul clima alla Cop28 e i timori per le guerre in Ucraina e a Gaza | Newsletter

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Mercoledì 13 dicembre 2023
Accordo sul clima, timori per le guerre
editorialista di Andrea Marinelli

Buongiorno,

bentornati a bordo di AmericaCina. Le ultime ore sono state importanti su molti dei fronti che affrontiamo quotidianamente in questa newsletter.

A Dubai la Cop28 ha annunciato un accordo storico, che prevede «la transizione fuori dai combustibili fossili» e di accelerare tale azione «in questo decennio cruciale al fine di raggiungere le emissioni zero nel 2050». Per la prima volta, insomma, in una dichiarazione finale della conferenza Onu sul clima le parti si impegnano ad abbandonare i combustibili fossili.

A Washington Volodymyr Zelensky (sopra, nella foto Afp di Mandel Ngan, alla Casa Bianca) ha sbattuto sul muro eretto in Congresso dai repubblicani, che hanno bloccato nuovi aiuti, mentre a Kiev riprendono i raid russi: secondo un nuovo rapporto dell’intelligence Usa, diffuso proprio in occasione della visita del presidente ucraino, l’offensiva dell’Armata sarebbe scattata proprio per influenzare il dibattito al parlamento americano, ma è costata (ancora) enormi perdite.

A Gerusalemme il premier Benjamin Netanyahu ha incassato l’avvertimento di Joe Biden. «Israele sta perdendo il sostegno del mondo», ha affermato il presidente americano, che in un comizio è invece inciampato su Xi, chiamandolo Deng: Biden lo aveva effettivamente incontrato nel 1979, ma il Piccolo timoniere è morto da trent’anni.

A Varsavia, infine, ha prestato giuramento il nuovo premier polacco Donald Tusk.

Buona lettura.

La newsletter America-Cina è uno dei tre appuntamenti de «Il Punto» del Corriere della Sera. Potete registrarvi qui e scriverci all’indirizzo: americacina@corriere.it.

1. Un accordo storico alla Cop28
editorialista
di sara gandolfi
inviata a Dubai

imageSultan Al Jaber, presidente della Cop28 (foto Afp/Giuseppe Cacace)

«Nessuno ci credeva, siamo orgogliosi del nostro lavoro». L’emiratino Al Jaber apre la sessione plenaria con piglio autoritario e senza nessuna discussione pubblica, per la prima volta nella storia della Cop, annuncia il raggiungimento di un «accordo storico» che prevede «la transizione fuori dai combustibili fossili» e di accelerare tale azione «in questo decennio cruciale al fine di raggiungere le emissioni zero nel 2050».

Si chiude così la ventottesima Conferenza sul clima con un colpo di scena (o di mano). «È la prima volta che i combustibili fossili entrano nell’accordo finale», dice trionfante il presidente emiratino che ha scelto la strada del «prendere o lasciare», dopo un negoziato durato tutta la notte, che alla fine ha vinto anche le resistenze dei Paesi produttori. L’annuncio è stato accolto da un’ovazione nella sala e da molti abbracci fra i delegati.

È in effetti la prima volta che una dichiarazione finale della conferenza Onu sul clima le parti si impegnano ad abbandonare i combustibili fossili (petrolio, gas e carbone) anche se si sceglie una parola leggermente più morbida — «transitioning away» — appunto, invece del termine «phase out» (uscita) richiesta dai Paesi più ambiziosi ma rifiutato dai Paesi produttori, Arabia Saudita in testa.

Il testo riconosce la necessità di riduzioni profonde, rapide e durature se l`umanità vuole limitare l`aumento della temperatura a 1,5°C. Richiede «l’abbandono dei combustibili fossili nei sistemi energetici, in modo giusto, ordinato ed equo, accelerando l’azione in questo decennio critico». Afferma che la transizione deve avvenire in modo da raggiungere le zero emissioni nette di gas serra nel 2050, seguendo i dettami della scienza del clima. Prevede che il mondo raggiunga il picco di emissioni entro il 2025, ma lascia spazio di manovra alle singole nazioni (come la Cina) per raggiungerlo più tardi.

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2. Zelensky sbatte sul muro del Congresso
editorialista
di Viviana Mazza
corrispondente da New York

imageJoe Biden e Volodymyr Zelensky durante la conferenza stampa di ieri sera alla Casa Bianca (foto Afp/Chip Somodevilla)

Un anno fa, poco prima di Natale, Zelensky fu accolto come un eroe al Campidoglio e ottenne 50 miliardi di nuovi aiuti. Ieri, giunto a Washington su invito del presidente Biden che ha chiesto al Congresso di approvare 61 miliardi di nuovi aiuti per non dare a Putin «il più grande regalo di Natale», Zelensky si è sentito dire dai senatori repubblicani in un incontro a porte chiuse che la sicurezza al confine con il Messico è la chiave per sbloccare i fondi.

Il presidente ucraino ha ribadito che Kiev «può vincere» ma ha trovato un muro da parte dei repubblicani. «Non ha detto nulla di nuovo, le solite cose», afferma il senatore del Missouri Eric Schmitt. Non è da Zelensky ma da Biden che i repubblicani vogliono promesse. Il senatore della South Carolina Lindsey Graham ha detto al presidente ucraino che «il problema non è lui» e che, «se la Casa Bianca vuole i fondi per Kiev, Biden deve essere più coinvolto nei negoziati sul confine».

Nell’incontro i senatori repubblicani hanno sollevato dubbi sulla trasparenza nell’uso dei fondi e i rischi di corruzione in Ucraina (anche se gran parte del denaro è usato per l’acquisto di armi prodotte in America) ma soprattutto hanno messo in discussione l’efficacia della controffensiva. Alcuni, come JD Vance dell’Ohio, si erano detti «offesi» dalla visita e hanno accusato Zelensky di far loro «la predica».

Il presidente ucraino ha avuto un bilaterale con Mike Johnson, lo speaker della Camera, il più grande ostacolo ai nuovi aiuti. «Capisco la necessità di non permettere a Putin di prevalere in Ucraina e marciare sull’Europa», ha detto Johnson «ma dobbiamo occuparci del nostro confine innanzitutto, del nostro Paese». Johnson sembra inoltre condizionare i nuovi aiuti ad una strategia chiara per la vittoria di Kiev e accusa la Casa Bianca di aver fallito nell’articolarla.

La campagna elettorale per il 2024 e i sondaggi che mostrano la «stanchezza» dell’elettorato repubblicano sugli aiuti a Kiev portano anche chi nel partito continua ad appoggiarli a sostenere di non poterli giustificare senza una riforma dell’immigrazione. Il leader dei repubblicani al Senato Mitch McConnell ritiene «praticamente impossibile» che un accordo si raggiunga prima della pausa natalizia, il che significa per Zelensky tornare in Europa per discutere del futuro di Kiev senza impegni chiari da parte del suo più importante alleato.

Biden per primo aveva proposto i fondi per Kiev come parte di un pacchetto di 110,5 miliardi per Israele, Taiwan e il confine con il Messico (13 miliardi), riconoscendo che l’immigrazione è un problema politico in vista della sua rielezione e pensando di facilitare l’adesione dei repubblicani. Ma forse non è stata la scommessa giusta: i repubblicani hanno spinto ancora di più sull’immigrazione.

Ora l’ala progressista del partito democratico teme che la visita di Zelensky possa portare Biden a cedere ai repubblicani: sarebbe «inconcepibile», dicono alcuni deputati. I democratici sostengono che hanno fatto già forti concessioni e che le richieste dei repubblicani sono irrealistiche (barriere fisiche, cambiamenti alla politica sull’asilo, la permanenza dei migranti in Messico per fare richiesta).

Il leader ucraino ha mantenuto un tono positivo, definendo gli incontri produttivi. Ha spiegato di cercare «l’unità» tra Stati Uniti, Europa e il resto del mondo, nella consapevolezza che Putin sta guardando. Biden ha firmato 200 milioni di aiuti, di quelli già approvati dal Congresso ma ormai agli sgoccioli: «Dobbiamo dimostrare che Putin sbaglia». Zelensky ha ribadito che serve una difesa aerea e bisogna produrre armi insieme. Il timore è che se l’appoggio dell’America si incrina, la prossima sarà l’Europa.

3. Riprendono i raid russi su Kiev
editorialista
di Marta Serafini

imageUn edificio residenziale danneggiato questa mattina a Kiev (foto Afp/Setgei Chuzavkov)

Mentre il presidente ucraino Volodymyr Zelensky si trova all’estero per una delle missioni più difficili del suo mandato, nella notte sono ripresi i raid su Kiev. Le forze russe hanno lanciato nella notte 10 missili balistici e altrettanti droni kamikaze soprattutto nel sud dell’Ucraina. La contraerea ucraina è riuscita ad abbattere tutti gli ordigni ma i detriti hanno provocato almeno 53 feriti nella capitale, inclusi 8 bambini. «Secondo le informazioni aggiornate dei medici la maggior parte dei feriti viene dalla zona Dniprovskyj della capitale: 15 di loro sono stati ricoverati in ospedale, tra cui due bambini, 19 persone hanno ricevuto assistenza medica sul posto», scrive il sindaco di Kiev Vitaly Klitschko su Telegram. Ad essere colpito, anche un ospedale pediatrico.

4. Mosca ha perso 315 mila dei 360 mila uomini con cui aveva iniziato la guerra
editorialista
di Andrea Marinelli e Guido Olimpio

L’offensiva russa nell’Ucraina orientale di questo autunno aveva l’obiettivo primario di fiaccare il sostegno occidentale alla resistenza, ma non ha portato risultati strategici sul campo di battaglia e ha gravato su un bilancio delle perdite già drammatico.

La spinta dell’Armata sarebbe costata il sacrificio di 13 mila uomini fra morti e feritiche, stando a nuove valutazioni dell’intelligence americana appena declassificate, porterebbe il totale a 315 mila uomini — sempre fra morti e feriti — sui 360 mila che l’esercito di Putin aveva a disposizione al momento dell’invasione dell’Ucraina, il 24 febbraio 2022. Una percentuale drammatica che in quasi due anni di combattimenti ha obbligato il neo zar a nuove mobilitazioni, aperte o striscianti, e a reclutare detenuti nelle prigioni.

Le perdite sono considerevoli anche per quanto riguarda i mezzi: altri 220 mezzi si stima che siano stati distrutti duranti quest’ultima offensiva autunnale. Non è una novità, se non — anche in questo caso — per la percentuale di quelli lasciati sul campo dall’inizio della guerra: secondo l’intelligence americana, i russi hanno perso 2.200 dei 3.500 tank con cui avevano iniziato il conflitto, finendo costretti a tirare fuori dai magazzini i vecchi carri T-62 di produzione sovietica entrati in servizio sessant’anni fa.

Questo bilancio avrebbe quindi ridotto la complessità delle recenti operazioni russe, che tuttavia proseguono soprattutto nel settore orientale. «La guerra in Ucraina ha bruscamente riportato indietro di 15 anni l’esercito di Mosca, da tempo alle prese con un tentativo di modernizzare le proprie forze di terra», sostiene il documento dell’intelligence di Washington. «Alla fine di novembre, la Russia aveva perso più di un quarto delle attrezzature e subito perdite fra i soldati regolari».

Le nuove valutazioni — va ricordato che si tratta comunque sempre di stime occidentali: i due rivali non forniscono cifre, per lo meno affidabili — sono state condivise con il Congresso in occasione della visita di Volodymyr Zelensky, arrivato negli Stati Uniti per chiedere di non fermare il flusso degli aiuti: i 50 miliardi richiesti da Joe Biden sono infatti stati bocciati dall’ala conservatrice del Parlamento americano, che vuole ottenere in cambio una virata nella politica sull’immigrazione dell’amministrazione democratica.

L’offensiva russa sarebbe stata concepita proprio per influenzare il dibattito in Congresso, che il Cremlino segue con attenzione. «Mosca ritiene che uno stallo militare durante l’inverno farebbe calare il sostegno occidentale all’Ucraina», ha spiegato Adrienne Watson, portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale americano. L’offensiva si è tuttavia scontrata con la consueta resistenza degli ucraini, che — stando ai funzionari americani — hanno subito perdite ma non significative come quelle degli invasori.

Anche le valutazioni dell’intelligence sono state diffuse per influenzare la decisione del Congresso e convincere i conservatori che Kiev ha ancora bisogno dell’assistenza americana. Il punto però è che la Russia può «accontentarsi» di tenere le sue conquiste — infatti ha declassato e cambiato obiettivi in corso d’opera — mentre spetta a Kiev liberare i territori e questa meta appare sempre lontana. Inoltre le truppe di Putin hanno confermato una grande capacità di adattamento rivelatasi decisiva nel momento cruciale.

5. «Gli aiuti all’Ucraina? Alla fine ci riusciremo»

(Viviana Mazza) «Il nostro sistema politico è tale, in questo momento, che nonostante ci sia una forte maggioranza a favore degli aiuti sia nell’opinione pubblica che nei due partiti al Congresso, è difficile approvare una legge, per via di una piccola minoranza e delle vulnerabilità dello speaker della Camera...», dice al Corriere Michael Froman, il nuovo presidente del Council on Foreign Relations. L’ambasciatore Froman ha lavorato sia nel governo che nel business: rappresentante Usa per il commercio dal 2013 al 2017 nell’amministrazione Obama è stato poi vicepresidente, e direttore per la crescita strategica, di Mastercard. «Penso che sia importante avere un dialogo con i nostri amici all’estero e far capire che l’America appoggia ancora l’Ucraina. Dobbiamo lavorare attraverso questi processi politici e penso che alla fine ci riusciremo».

Alla fine, quindi, lei pensa che gli aiuti arriveranno, come insiste l’amministrazione Biden?
«Penso di sì» (...).

Credete che sia possibile che, dopo la fine di questo conflitto tra Israele e Hamas, si arrivi alla soluzione dei due Stati?
«Possiamo immaginare uno scenario in cui, alla fine di questo conflitto, la politica in Israele, nella comunità palestinese e nel mondo arabo porti ad essere più aperti a ciò che è necessario fare per una credibile soluzione dei due Stati. Ma si può anche immaginare uno scenario in cui è molto difficile per gli israeliani sedersi a discutere e giungere ad un compromesso con i palestinesi e c’è anche molta incertezza sulla presenza o meno di una sufficiente leadership dal lato palestinese e da parte dei Paesi arabi. Non sappiamo oggi quale di questi scenari diventerà realtà. Da una parte, questo conflitto ha sottolineato che non si possono ignorare o mettere da parte le questioni fondamentali per avere davvero pace e sicurezza nella regione. D’altra parte, questo conflitto ha mostrato tutte le complessità del problema: Hamas non vuole una soluzione dei due Stati ma una soluzione, “dal fiume al mare”, che non contempla Israele. È un contesto difficile in cui immaginare un compromesso. È una sfida che si è manifestata per 70-75 anni in vari modi, e le parti dovranno affrontarla quando questo conflitto sarà finito. Ma c’è anche una questione più immediata: che cosa succederà a Gaza dopo la campagna militare? Chi la governerà? Un’occupazione israeliana? Una opzione credibile che permetta di estendere il ruolo dell’Autorità palestinese dalla Cisgiordania a Gaza? Un possibile coinvolgimento dei Paesi arabi? Un mandato Onu? Ci sono varie ragioni per cui tutte queste sono idee terribili. La sfida è che, a questo punto, non sappiamo nemmeno come verranno risolte le questioni a breve termine».

Leggi l’intervista completa sul sito del Corriere, cliccando qui.

6. Biden avverte Netanyahu: «Così perdete il sostegno del mondo»
editorialista
di Davide frattini
corrispondente da Gerusalemme

imageIl premier israeliano Netanyahu e il presidente Herzog al funerale di un soldato ucciso a Gaza (foto Ap/Leo Correa)

Benjamin Netanyahu li chiama «Hamastan» o «Fatahstan». Per Joe Biden quei territori devono andare a costituire «la futura nazione palestinese». Il primo ministro israeliano parla di «divergenze d’opinioni con gli Stati Uniti», il presidente americano gli fa capire che ormai la frattura non è solo semantica: «Israele sta cominciando a perdere il sostegno di tutto il mondo con i bombardamenti indiscriminati. Bibi deve cambiare e rafforzare il governo, il più a destra nella Storia del Paese, un esecutivo che non vuole la soluzione dei due Stati». Racconta un vecchio e noto episodio, quando aveva detto a Bibi: «Non sono d’accordo con niente di quello che dici». Aggiunge: «E siamo ancora lì». Allora gli aveva sussurrato: «Ma ti voglio bene».

In questi 67 giorni di guerra il premier ha continuato anche la campagna elettorale. In un messaggio video sui suoi canali social dichiara per la sua base: «Non permetterò che venga ripetuto l’errore di Oslo, non consentirò che dopo il sacrificio enorme dei nostri combattenti Gaza ritorni a chi educa al terrore, lo sostiene, lo finanzia», si riferisce all’Autorità palestinese del presidente Abu Mazen. È da lunedì che Netanyahu martella contro l’intesa di pace del 1994, l’ennesimo tentativo di allontanare da sé le responsabilità politiche e strategiche per gli attacchi del 7 ottobre, 1.200 israeliani uccisi.

La nuova formula propagandistica vuole imputare al patto con i palestinesi il disastro di nove settimane fa. Arriva a dire che «il numero delle vittime causato dagli accordi è lo stesso degli assalti». Una matematica della morte che perfino Danny Danon, tra i fedeli nel Likud, gli rintuzza: «Non è possibile fare paragoni, mai come nel sabato nero sono state uccise tante persone in poche ore». Benny Gantz, l’ex capo di Stato maggiore e ministro della Difesa, già travolge Netanyahu nei sondaggi, per entrare nel consiglio di guerra ristretto ha lasciato l’opposizione.

Dov’è rimasto Yair Lapid, l’unico a essere riuscito a spodestare Bibi — anche solo per 563 giorni — dal potere che detiene negli ultimi 14 anni: «La sua è una politica malvagia, cerca di incolpare gli altri, questa nazione merita una leadership diversa». A Tel Aviv arriva Jake Sullivan, il consigliere per la Sicurezza nazionale di Biden, che intende discutere con Netanyahu i tempi del conflitto: i palestinesi uccisi sono oltre 18 mila, le Nazioni Unite dicono che la situazione umanitaria nella Striscia «è oltre il punto di rottura».

L’Assemblea generale ha approvato una risoluzione, non vincolante, che chiede un immediato cessate il fuoco umanitario a Gaza, il rilascio di tutti gli ostaggi e l’accesso umanitario nell’enclave palestinese ma non condanna l’organizzazione islamista responsabile delle violenze.

L’esercito israeliano — scrive il Wall Street Journal— avrebbe iniziato a pompare acqua di mare nelle gallerie e nei bunker sotterranei scavati in questi anni da Hamas, un’operazione che potrebbe andare avanti per settimane, il sistema di gallerie copre quasi 500 chilometri. Le truppe hanno recuperato i cadaveri di due ostaggi proprio nei cunicoli: Eden Zacharia, 27 anni, era stata rapita al festival rave nel deserto mentre il soldato Ziv Dado era stato ucciso il 7 ottobre.

Fronte di Gaza | Imboscate, immersioni, petroliere
editorialista
di Guido Olimpio

imageUn mezzo israeliano spara verso la Striscia di Gaza (foto Afp/Kack Guez)

Una triplice imboscata dei mujaheddin è costata la vita a 9 militari israeliani a Shejaiya, nella zona nord di Gaza. I guerriglieri hanno bersagliato con lanciagranate, trappole esplosive, bombe a mano i team che cercavano di raggiungere quattro compagni «dispersi» (si è poi scoperto che erano morti). L’episodio è la fotografia di quanto sta accadendo: Israele ha il controllo di diversi quartieri ma questo non impedisce ai miliziani di organizzare sortite e agguati dietro «le linee», se mai esistono in un combattimento urbano.

Notizia che può rispecchiare la verità ma essere anche propaganda. Numerosi dirigenti di Hamas all’estero si sono «immersi» per timore di essere colpiti dal Mossad. Quelli che erano in Qatar avrebbero lasciato il Paese, un altro esponente — Saleh al Arouri — si sarebbe spostato dal Libano alla Turchia. Spenti i telefonini.

Avviso degli Emirati Arabi Uniti. La ricca monarchia del Golfo è pronta a finanziare la ricostruzione nella Striscia, però pone come condizione la soluzione diplomatica dei due Stati.

Yemen. Gli Houthi insistono: lanciati due missili contro una petroliera — la Ardmore Encouter — in Mar Rosso. L’attacco è però fallito. Una nave Usa avrebbe intercettato un drone dei guerriglieri sciiti filo-iraniani.

7. Biden inciampa ancora su Xi: «Ho avvertito Deng»
editorialista
di Guido Santevecchi

imageJoe Biden stringe la mano a Deng Xiaop... ehm... Xi Jinping (foto Ap/Doug Mills)

Oops! Lo ha fatto ancora: in un discorso Joe Biden ha scambiato il compianto Deng Xiaoping con Xi Jinping, confermando la sua propensione per gaffe, lapsus, inciampi (anche mentre sale e scende le scalette del suo Air Force One). Il presidente degli Stati Uniti stava tenendo un comizio elettorale in una fabbrica di pale eoliche in Colorado e stava vantando le sue credenziali «verdi» e la difesa dell’industria americana nel settore delle energie rinnovabili di fronte alla Cina: «L’ho detto a Deng Xiaoping sull’Himalaya: non è mai, mai e poi mai una buona scommessa puntare contro gli Stati Uniti d’America».

Deng è morto nel 1997, alla bella età di 93 anni e Biden, che ne ha da poco compiuti 81 e corre per un secondo mandato quadriennale alla Casa Bianca, avrebbe voluto dire di aver ammonito Xi Jinping. I due si sono effettivamente appena incontrati a San Francisco e tra gli argomenti trattati spiccava la lotta contro il cambiamento climatico e un’azione comune alla Cop28 di Dubai. L’ennesimo errore pubblico di Biden, confermato dal fatto che la trascrizione del suo discorso sul sito della Casa Bianca è stata corretta e Xi ha ripreso il posto di Deng.

Il video del comizio è finito immancabilmente sui social, alimentando il dibattito sulla «forma» del presidente. Ne hanno discusso anche i netizen mandarini sul loro Weibo e qualcuno ha commentato: «C’è una generazione tra i due, impossibile che si siano incontrati... e poi sull’Himalaya». Errore: nel 1979, quando era un giovane senatore, Biden andò in Cina e potè vedere da vicino il Piccolo timoniere. E sull’altopiano tibetano, alle pendici della catena Himalayana, c’è effettivamente stato con Xi diversi anni fa, quando i due erano vicepresidenti e Obama aveva incaricato Biden di prendere contatto con il futuro leader supremo della Cina.

Tutto si può dire e pensare su Biden, eccetto che non sia coerente, anche nei lapsus: gli archivisti della stampa americana hanno recuperato un altro discorso elettorale, tenuto nel febbraio del 2020, quando l’allora candidato e sfidante di Donald Trump disse: «Sono io il politico che ha detto a Deng Xiaoping che la Cina dovrebbe entrare nell’accordo climatico». Ovviamente, aveva ancora scambiato Deng con Xi. Nonostante fosse già famoso per gli inciampi, nel 2020 Biden ha vinto le elezioni: la ripetizione della gaffe Deng-Xi potrebbe portargli fortuna.

8. In Polonia ha giurato il premier Tusk
editorialista
di Samuele Finetti

imageIl nuovo premier polacco Donald Tusk firma l’atto di giuramento (foto Epa)

Mancava solo l’ultimo atto formale, il giuramento davanti al presidente, perché il nuovo governo polacco guidato da Donald Tusk entrasse in carica. E questa mattina l’ex presidente del Consiglio europeo è arrivato al palazzo presidenziale accompagnato dai suoi ministri, a bordo di un bus su cui campeggiavano i colori della bandiera nazionale e due parole: «Grazie Polonia!».

Là lo aspettava Andrzej Duda, che dopo il voto del 15 ottobre ha fatto il possibile per allontanare questo giorno. Perché Tusk è l’uomo che ha sconfitto, grazie alle sue alleanze politiche, il partito Giustizia e Libertà (Pis), che governava dal 2015 e del quale Duda è un esponente di primo piano. Ma il passaggio a vuoto in parlamento dell’ormai ex premier Mateusz Morawiecki ha sancito la fine di un’epoca durata otto anni.

Ieri, davanti ai membri della Sejm, la Camera bassa del parlamento polacco, è stato il turno di Tusk. I numeri erano sicuri, e non ci sono state sorprese: fiducia incassata con 248 voti favorevoli e 201 contrari. Tusk, che è già stato primo ministro dal 2007 al 2014, ha parlato chiaro. Ha iniziato citando Piotr Szczesny, un medico che nel 2017 si diede fuoco a Varsavia lasciando un «testamento ideologico» contro il Pis allora al potere, una denuncia «contro la xenofobia, l’ostilità verso gli immigrati e la pressione sui media».

Tusk ha detto che quel «manifesto» avrebbe potuto sostituire integralmente il suo discorso d’inizio mandato. La Polonia dei prossimi anni, quella che guiderà con la sua coalizione, sarà «un Paese felice» e di nuovo «leader in Europa», grazie anche ai 35 miliardi di fondi del Recovery Fund che il neopremier ha promesso di sbloccare smantellando le riforme illiberali degli ultimi anni. In cima ci sono quelle che hanno colpito i diritti della comunità Lgbtq+ e le donne (a partire dall’interruzione di gravidanza).

Continuità con gli anni del Pis ci sarà solo da un punto di vista: il sostegno all’Ucraina. Tusk non usa mezzi termini: «Chiederemo a gran voce una piena mobilitazione del mondo libero per sostenere Kiev». E poi l’allineamento con la Nato e con l’Ue, compito che il capo di governo ha affidato a Radek Sikorski, nuovo ministro degli Esteri (lo fu già nei primi sette anni di governo di Tusk). Già oggi, Tusk volerà a Bruxelles per il primo atto della sua seconda stagione da premier: un vertice dell’Unione europea.

Mentre il neopremier parlava, fuori dall’aula un deputato di estrema destra ha spento con un estintore una hanukkia, il candelabro ebraico: è stato espulso, Tusk l’ha definito un «gesto vergognoso».

9. Il misterioso russo volante (fra Copenaghen e Los Angeles)

(Guido Olimpio) Una strana storia. Un russo, identificato come Sergey Vladimirovich Ochigava, ha viaggiato su un aereo della Scandinavian da Copenaghen a Los Angeles senza avere biglietto e neppure il passaporto. Il clandestino è stato scoperto solo al suo arrivo, il 5 novembre, nella meta californiana quando non è stato in grado di esibire un documento valido all’Immigrazione.

L’equipaggio, interrogato dall’Fbi, ha ricordato di aver notato l’uomo per il suo comportamento durante il volo: cambiava spesso di posto, ha chiesto pasti supplementari, ha persino cercato di rubare una barretta di cioccolato di una hostess. Però nessuno ha verificato se avesse la carta di imbarco.

Confuso il suo racconto, con poche spiegazioni e il riferimento ad un lavoro in Russia. Gli investigatori hanno trovato nel suo bagaglio tracce di documenti russi e israelianimentre sul telefonino c’erano foto di un ostello a Kiel, in Germania. L’inchiesta continua.

Leggi la ricostruzione del mistero di Leonard Berberi, cliccando qui.

10. Pechino e i piani del 2024: la politica industriale prima dei consumi

(Guido Santevecchi) Xi Jinping ha cambiato priorità nel piano 2024 per lo sviluppo economico della Cina. La politica industriale sale al primo posto, scavalcando l’incentivazione della domanda interna di beni e servizi. Una delusione per gli investitori che speravano in uno stimolo ai consumi delle masse cinesi.

La decisione è stata presa dalla Conferenza economica di lavoro che il Partito comunista tiene sempre a dicembre per fissare gli obiettivi dell’anno seguente. Questa volta i tecnocrati mandarini puntano alla «modernizzazione del sistema industriale», con particolare enfasi sulla tecnologia e l’Intelligenza artificiale.

Il comunicato finale cita anche il settore immobiliare, sprofondato in una crisi che pesa sulla crescita e ha un grave impatto sociale, visto che la casa è la forma di investimento principale della classe media cinese. Il Partito promette di sostenere il settore, mette enfasi nel rilancio dell’edilizia popolare, ma non offre nuove ricette.

11. Il brutto record di Myanmar: supera l’Afghanistan per produzione di oppio

(Guido Santevecchi) Myanmar ha superato l’Afghanistan. E non è un bel record, perché l’ex Birmania è diventata la prima produttrice mondiale di oppio, con 1.080 tonnellate nel 2023. Un balzo del 36% nella coltivazione e raffinazione dei papaveri, dovuto al fatto che Myanmar del 2021 è in preda alla guerra civile, ogni controllo governativo è saltato e molti contadini di aree remote si sono dedicati al traffico illegale, più remunerativo di quello dei normali prodotti agricoli.

Il rapporto dell’United Nations Office for Drugs and Crime sottolinea che invece in Afghanistan la produzione di oppio si è ridotta del 95%, a una quota stimata di 330 tonnellate, dopo che i talebani l’anno scorso hanno messo al bando la coltivazione dei papaveri.

L’oppio, che è l’ingrediente chiave dell’eroina, è stato coltivato per decenni in Myanmar ed è sempre stato una fonte di finanziamento per gruppi ribelli ed eserciti irregolari. La produzione ora è aumentata drammaticamente perché ci sono intere regioni del Paese sfuggite a ogni controllo della legge, dove i trafficanti possono utilizzare sistemi più intensivi e sofisticati di coltivazione, con l’uso di impianti di irrigazione fissi e di fertilizzanti.

Il rapporto dell’Onu stima che quest’anno dall’oppio siano state prodotte nei laboratori clandestini di Myanmar (in particolare la regione settentrionale di Shan contesa tra tre gruppi armati e l’esercito regolare) 154 tonnellate di eroina, che sul mercato fruttano ai narcotrafficanti 2,2 miliardi di dollari.

12. Quelli fra palco e mimetica

imageLa foto pubblicata dai Bts, due dei quali già in mimetica

(Samuele Finetti) Dal palco del Tonight Show di Jimmy Fallon alla branda di una base militare in Corea del Sud, il passo è breve. E poco importa che tu sia uno dei membri della più celebre gruppo pop del Pianeta. Perché la leva obbligatoria ti tocca pure se ti chiami Jung Kook e con i tuoi sei compagni dei Bts hai venduto centinaia di milioni di dischi, scalato classifiche, vinto premi e, soprattutto, incarnato la massima espressione di quel fenomeno globale che è la cultura sudcoreana e in particolare il K-Pop.

Ieri Jung, 26 anni, si è ufficialmente arruolato. Una foto condivisa sui social ritrae i sette ragazzi, due già in mimetica. Perché Seul è ancora formalmente in guerra con la Corea del Nord e dunque ogni uomo è obbligato, tra i 18 e i 28 anni, a passare 18 mesi di addestramento nell’esercito. A poco sono serviti gli appelli dei fan e i tentativi del parlamento (sì, il parlamento, che ha pure spostato da 28 anni a 30 il limite massimo per arruolarsi) di esonerare i sette cantanti dall’obbligo patriottico, poiché — sostengono molti —la patria l’hanno già servita esportando la cultura nazionale e importando turisti e con essi miliardi di dollari.

Tra le principali preoccupazioni degli ammiratori, le chiome sempre perfette dei giovani: ricresceranno, ma ha fatto un certo effetto vederle dopo il consueto taglio a zero tipico dei soldati. Mentre la band di preoccupazione ne aveva un’altra: evitare che i fan assediassero le basi militari per avvicinare i propri idoli. Così hanno pubblicato sui social anche un video-appello, davanti a pizza e bibite (che non vedranno per mesi): lasciateci servire il nostro Paese, poi torneremo in scena.

Grazie per averci letto fin qua. A domani,

Andrea Marinelli


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