Il Nobel per la Letteratura Mo Yan, autore di «Sorgo rosso» (foto Ap) Il loro nome suona innocente: «Piccoli rosa». Ma non sono meno pericolosi delle Guardie rosse che Mao scatenò durante la Rivoluzione culturale. Si tratta di un movimento ultranazionalista cinese che agisce sul web e aggredisce personaggi pubblici, gruppi industriali, anche la più quotata università di Pechino, per presunte attività anti-patriottiche. Le ultime vittime sono Mo Yan, Premio Nobel per la letteratura nel 2012, Zhong Shanshan, miliardario dell’acqua minerale salito al rango di uomo più ricco della Cina; e poi il colosso telecom Huawei e l’università Tsinghua. Personalità ed entità diverse contro le quali i Piccoli rosa si sono mobilitati sui social, sostenendo che «nutrono vergognose simpatie per il Giappone e collusioni con gli avversari della Cina». L’autore di Sorgo rosso è stato preso di mira dal «blogger patriottico» Wu Wanzheng, che lo ha accusato di aver insultato la memoria degli eroici combattenti della guerra di liberazione contro i giapponesi e addirittura di aver «vilificato Mao». Wu perseguita Mo Yan da più di un anno con i suoi post firmati «Mao Xinghuo, la Bocca della verità» e a febbraio ha cercato di trascinarlo in tribunale in una causa che chiede un risarcimento da 1,5 miliardi di yuan, uno per ogni cittadino cinese «ferito» dagli scritti del letterato. Come pena accessoria la Bocca della verità ha sollecitato il sequestro dei libri che a suo dire hanno «denigrato i martiri cinesi ed esaltato i carnefici nipponici». La campagna di Wu si basa su una legge del 2018 per combattere quello che Xi Jinping definisce il «nichilismo storico»: vale a dire ogni interpretazione degli eventi storici e politici contraria alla narrazione ufficiale del Partito comunista. Non c’è da scherzare con quella legge, che prevede fino a tre anni di carcere. Mo Yan nel 2005 disse che «letteratura e arte debbono esporre il lato oscuro e l’ingiustizia della società»: Sorgo rosso è ambientato ai tempi della guerra di resistenza contro i giapponesi e presenta personaggi e situazioni controverse, oggi forse alcune situazioni narrate nel capolavoro creerebbero qualche problema con la censura. Ma la nuova era di Xi non era ancora cominciata e il Partito allora non ebbre a che ridire. Nel 2011, un anno prima del Nobel, Mo Yan è stato nominato vicepresidente dell’Associazione statale degli scrittori. Dopo il premio il Partito ha elogiato Mo Yan come «eccelso esponente dell’influenza della cultura cinese nel mondo». Ora, nessun commento governativo sull’attacco al romanziere. Il tribunale di Pechino a cui si è rivolto Wu ha rigettato l’istanza per vizio di forma, sostenendo che nella citazione mancava l’indirizzo del celebre scrittore. Sembra che le autorità non abbiano alcuna voglia di aprire un caso così clamoroso. Anche il giornalista nazional-comunista Hu Xijin, ex direttore del Global Times è intervenuto su Weibo definendo il blogger Wu «un populista farsesco». Wu ha reagito minacciando di far causa anche a Hu. Il caso, sotto l’hashtag #MoCitatoingiudizio ha raccolto oltre due milioni di contatti in rete. Murong Xuecun, scrittore cinese emigrato in Australia, osserva che anche se il governo non appoggia l’attacco a Mo Yan, ne ha creato i presupposti: «Cavalcando il nazionalismo, il Partito ha incitato i cittadini a sospettare, denunciarsi uno con l’altro, prendendo di mira chi non segue l’idologia di massa o promuove valori universali». Il nome Piccoli rosa deriva dall’origine: questo movimento cinese online partì una ventina d’anni fa come gruppo di commento letterario di romanzetti d’amore e la sua pagina web ha mantenuto come sfondo il rosa. I partecipanti si chiamarono tra di loro «xiao fenhong», piccoli rosa, e discutevano di tutto, dalla cultura ai trend sociali. Una parte del movimento si è poi dedicata alla difesa dei valori patriottici e al nazionalismo. Non picchiano a sangue i neri controrivoluzionari, come facevano le Guardie rosse, ma usano i commenti sul web come randelli. In questi giorni hanno preso di mira anche il gruppo Nongfu dell’acqua minerale e bevande. Il tamtam è partito quando qualcuno ha osservato che il logo su una bottiglietta di té «ricordava il famigerato tempio Yasukuni di Tokyo», dove sono commemorati criminali della guerra d’invasione giapponese; fuoco anche su un’altra etichetta che presentava una montagna verde, identificata come il Monte Fuji; qualcuno ha sparato sul tappo di plastica rosso, che ricorda il Sol Levante della bandiera nemica. Le bottigliette della Nongfu accusate di esaltare simboli giapponesi nell’etichetta Fantasie da caccia alle streghe. Ma l’appello al boicottaggio dei prodotti Nongfu è partito, alimentato anche dal fatto che il figlio del proprietario Zhong Shanshan avrebbe ottenuto la cittadinanza americana. Le vendite sono calate del 30 per cento da inizio marzo e il titolo in Borsa ha perso il 5%. Huawei, che pure è stata accusata da Washington di essere una quinta colonna del governo cinese, è finita nel mirino dei Piccoli rosa perché ha dato un nome inglese a un suo microchip. E la Tsinghua ha ricevuto un’ondata di attacchi per il solo fatto di non essere stata sottoposta a sanzioni dal governo degli Stati Uniti, che pure hanno colpito circa 600 entità statali cinesi. Su Weibo è uscito: «Lo Stato vi sovvenziona generosamente ma voi non siete nemmeno riusciti a far inserire la Tsinghua nella lista delle istituzioni sgradite agli americani». Pechino ha fatto uscire dalla bottiglia il genio del nazionalismo. Richiuderlo dentro non è possibile. |