Scena da una campagna presidenziale: Trump alla Corte Suprema, Biden supera la visita medica annuale

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Giovedì 29 febbraio 2024
I processi di Trump, la salute di Biden
editorialista di Andrea Marinelli

Buongiorno e bentornati su AmericaCina per un altro giro a bordo di questa newsletter. Oggi partiamo da Washington, per affrontare i due temi principali della campagna elettorale americana: i processi di Trump e la salute di Biden. La Corte Suprema ha deciso infatti che si esprimerà sull’eleggibilità dell’ex presidente, mentre l’attuale inquilino della Casa Bianca ha superato con successo l’annuale visita medica dei presidenti degli Stati Uniti. Entrambi, fra l’altro, oggi saranno in Texas per parlare del confine con il Messico, il terzo grande tema elettorale.

A Palm Beach, Florida, arriverà intanto il premier ungherese Viktor Orbán che ha richiesto un incontro all’ex inquilino della Casa Bianca. A Parigi, lunedì, è andato invece in scena il grande gelo fra Scholz e Macron, mentre sabato a Roma sarà ufficializzata la candidatura di Nicolas Schmit come capolista del partito socialista europeo.

Vi raccontiamo poi del potentissimo club degli over 70, dei generali russi che si esercitano per uno scontro al confine con la Cina, dello sciopero dei giovani medici sudcoreani e delle note stonate dell’economia cinese.

Buona lettura.

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1. La Corte Suprema si esprimerà su Trump

imageDonald Trump, 77 anni, in tribunale a New York per la causa civile contro la Trump Organization (foto Ap/Shannon Stapleton)

(Andrea Marinelli) La Corte Suprema ha deciso di esprimersi sull’immunità di Donald Trump. I nove giudici — sei dei quali conservatori e tre nominati dallo stesso ex presidente — valuteranno entro fine aprile se Trump potrà essere perseguito per aver tentato di interferire sul risultato delle elezioni 2020 — la terza delle quattro incriminazioni di Trump, quella che riguarda l’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021 — oppure se era coperto dall’immunità presidenziale come sostiene la sua difesa. La decisione finale è prevista entro la fine di giugno, quando i lavori dell’alta corte vengono sospesi per l’estate, ma difficilmente un eventuale processo potrebbe essere portato a termine entro le elezioni di novembre: tutto dipenderà dalla rapidità dei giudici. In ogni caso, comunque, si tratta di una vittoria per Trump, che è riuscito a rallentare l’iter giudiziario.

C’è anche un altro caso riguardante il tycoon che è già arrivato davanti ai nove saggi, a conferma del ruolo fondamentale che avranno in questo ciclo elettorale: quello sull’eleggibilità di Trump per il ruolo avuto nella medesima insurrezione del 6 gennaio. L’ex presidente è stato infatti escluso dalle schede elettorali per le primarie da un tribunale in Colorado, da una funzionaria elettorale in Maine e — notizia a sorpresa di ieri — da un giudice dell’Illinois che come gli altri si è appellato alla terza sezione del 14esimo emendamento, il cosiddetto «insurrectionist ban» ispirato dalla guerra civile su cui si esprimerà la Corte Suprema.

Colorado, Maine e Illinois — in modo diverso — hanno stabilito che Trump non ha il diritto costituzionale a candidarsi alla presidenza per il suo ruolo nella rivolta del 6 gennaio, costata la vita a 4 persone. La sentenza del tribunale del Colorado è già arrivata davanti alla Corte Suprema, mentre quella del giudice dell’Illinois Tracie Porter è brevemente in pausa, per dare a Trump il tempo di appellarsi alle corti statali (le primarie saranno il 19 marzo). Intanto simili tentativi di rimuovere Trump dalle schede elettorali sono stati bocciati in Michigan, Minnesota e Oregon.

2. Biden sta bene, dice il suo medico

imageJoe Biden, 81 anni, arriva al Walter Reed Medical Center per la visita annuale (foto Ap/Evan Vucci)

(Andrea Marinelli) «Idoneo al servizio». È quello che ha scritto il medico di Joe Biden dopo l’annuale visita a cui si sottopongono i presidenti degli Stati Uniti. È una visita di routine che quest’anno aveva però un significato molto più ampio vista l’età del presidente — 81 anni — e le continue illazioni sul suo stato di salute. Il dottor Kevin O’Connor ha spiegato invece che il presidente «continua a essere idoneo al servizio», che si è adattato bene al nuovo dispositivo che lo aiuta a controllare le apnee nel sonno, che ha alcuni problemi in più all’anca sinistra, che cammina male ma non peggio dell’anno scorso a causa dell’artrosi della colonna vertebrale, ma anche che fa esercizio fisico cinque volte alla settimana.

«Il presidente Biden è un uomo di 81 anni in salute, attivo, robusto, che resta idoneo a portare a termine con successo le responsabilità della presidenza», ha scritto il medico nelle sei pagine di referto dopo una visita effettuata al Walter Reed National Military Medical Center di Bethesda, in Maryland, e durata due ore e mezzo. «Si sente bene e la visita di quest’anno non ha identificato nessun nuovo problema». Un «esame neurologico estremamente dettagliato» non ha riscontrato inoltre segni di ictus, sclerosi multipla, Parkinson o altri problemi.

Biden è già il presidente più anziano della storia americana, concluderebbe un eventuale secondo mandato a 86 anni ed è costantemente sotto attacco per le sue condizioni fisiche: le cadute, le gaffe, i nomi confusi dei leader stranieri, i momenti di appannamento durante le conferenze stampa hanno spesso dato adito a dubbi sulla sua tenuta fisica, cavalcati con grande veemenza da Donald Trump e ribaditi — provocando la rabbia della Casa Bianca — dal rapporto del procuratore speciale che indagava sul caso dei documenti classificati e che lo definiva un anziano con scarsa memoria. «Sembro troppo giovane», ha scherzato ieri dopo essere rientrato alla Casa Bianca.

P.S. Il suo amico Mitch McConnell, senatore repubblicano del Kentucky dal 1985, ha annunciato invece che da novembre non sarà più leader dei conservatori al Senato, ruolo che manteneva dal 2007 e che ha conservato più di chiunque altro nella storia americana. McConnell ha compiuto 82 anni la scorsa settimane e nei mesi passati aveva avuto alcuni problemi di salute: un paio di volte si era bloccato, restando immobile e senza parole, durante una conferenza stampa.

3. Orbán alla corte di Donald

imageViktor Orbán, 60 anni, primo ministro ungherese dal 2010 (foto Getty/Janos Kummer)

(A. Mar.) Insieme ai processi, prosegue anche la campagna elettorale di Donald Trump: l’ex presidente vince le primarie (le ultime, come sappiamo, in Michigan), si prepara per le elezioni di novembre e la settimana prossima incontrerà nella tenuta di Mar-a-Lago il premier ungherese Viktor Orbán. Il leader populista di Budapest — molto vicino a Trump, che lo cita spessa nei propri comizi — arriverà a Palm Beach venerdì per un incontro privato, mentre non ha in programma alcuna fermata a Washington per incontrare Joe Biden, ha specificato il consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca. Una conferma, scrive il New York Times, della strategia di Trump, che cerca di presentarsi come un presidente in esilio.

A richiedere l’incontro sarebbe stato Orbán, con il quale Trump ha sviluppato un rapporto molto stretto negli anni della presidenza e a cui ha offerto il proprio sostegno nel 2022 per un quarto mandato. Un endorsement ricambiato nelle scorse settimane da Orbán, che ha definito le elezioni americane un referendum globale. Del resto i due leader hanno molto in comune: entrambi conducono una dura battaglia contro l’immigrazione, si scontrano con la Nato e con l’Unione europea, criticano le decisioni prese rispetto alla guerra in Ucraina e mostrano una certa indulgenza verso Vladimir Putin.

L’ultimo incontro fra i due risale proprio al 2022, dopo la riconferma di Orbán, al golf club di Bedminster, in New Jersey. «Abbiamo discusso di molti argomenti interessanti: poche persone sanno quanto lui quello che accade oggi nel mondo», disse Trump celebrando il successo elettorale di quello che spesso definisce un amico e soprattutto un grande leader. «C’è un grande uomo, un grande leader in Europa: Viktor Orbán», ha ribadito durante un comizio a gennaio di quest’anno. «È il primo ministro dell’Ungheria. È un davvero un grande leader, un uomo forte. A qualcuno non piace proprio perché è troppo forte».

4. Il grande gelo fra Scholz e Macron
editorialista
di mara gergolet
corrispondente da Berlino

imageI sorrisi di circostanza fra Olaf Scholz,65 anni, ed Emmanuel Macron, 46 anni, lunedì a Parigi (foto Ap/Lewis Joly)

Non è stato solo un episodio, tra i due leader è crisi vera. Il cancelliere tedesco Olaf Scholz si è risentito dei commenti del presidente francese Emmanuel Macron, quando ha detto che «solo due anni fa qui c’era chi prometteva di mandare elmetti». E ieri ha fatto un video in cui precisava che con lui cancelliere nessun soldato andrà in Ucraina. «Di questo vi potete fidare». Insomma, non ha lasciato cadere la questione e non ha dato l’ultima parola a Macron, ma l’ha corretto.

Lo Spiegel parla di profonde divergenze, di un punto basso dei rapporti tra Francia e Germania, che sono cattivi da parecchio tempo. I due si prendono poco a livello umano. In più, è in questione anche la leadership sull’Ucraina e sulla politica estera, con entrambi i Paesi vogliono imporre la propria linea, che sarà anche il terreno su cui più l’Europa dovrà definirsi nei prossimi anni.

5. Schmit, il candidato del Pse a una sconfitta annunciata
editorialista
di Francesca Basso
inviata a Strasburgo

imageNicolas Schmit, 70 anni, attuale commissario Ue al Lavoro (foto Epa/Ronald Wittek)

Gli osservatori più cinici dicono che è il candidato dei socialisti alla sconfitta, «sacrificato» perché nessun big avrebbe accettato di correre in queste condizioni, sapendo di perdere fin dall’inizio: sabato al congresso di Roma il lussemburghese Nicolas Schmit, 70 anni, attuale commissario Ue al Lavoro, sconosciuto ai più, sarà ufficialmente nominato capolista, spitzenkandidat, del Partito socialista europeo alle elezioni di giugno — il ruolo che fu dell’olandese Frans Timmermans nel 2019 — e dunque candidato alla guida della Commissione Ue se il Pse sarà il partito più votato.

Schmit non ha avuto concorrenti all’interno del partito e lui con «spirito di servizio» si è messo a disposizione, diventando protagonista in una storia che apparentemente è già scritta, con l’attuale presidente Ursula von der Leyen — salvo colpi di scena — riconfermata a capo dell’esecutivo comunitario. Secondo tutti i sondaggi, infatti, il Ppe manterrà la posizione di primo partito nell’emiciclo di Strasburgo. Fondamentali saranno i risultati di Psoe e Pd.

Von der Leyen riceverà l’investitura del Ppe al congresso di Bucarest il 6-7 marzo ma di fatto ha già dato il via alla campagna elettorale annunciando la sua disponibilità a un secondo mandato. I leader Ue, cui spetta il compito di designare il/la presidente, sono già dalla sua parte. Lo scoglio più difficile è rappresentato dal voto della plenaria di Strasburgo, necessario per assumere l’incarico. Il sostegno da parte dell’attuale «maggioranza Ursula» — Ppe, socialisti e liberali — non è garantito. Il supporto da parte dei socialdemocratici non è scontato, dipenderà dal programma di von der Leyen, dalle priorità politiche che indicherà e anche dagli alleati a destra con cui deciderà di accompagnarsi. Già nel 2019 non fu votata dai socialisti tedeschi, austriaci, olandesi, belgi e greci.

Sabato il Pse adotterà il manifesto elettorale che si articolerà in otto punti chiave. Centrali la difesa del lavoro di qualità e pagato in modo equo, il green deal inteso come transizione verde attenta ai lavoratori e al sociale, la competitività industriale europea da rafforzare, la difesa dello stato di diritto, una migliore qualità di vita intesa come accesso alla casa, servizi alla salute e servizi pubblici. E poi l’impegno per la parità di genere e la lotta alla violenza contro le donne.

Il commissario al Lavoro Schmit, è l’autore della direttiva sui rider, che è stata annacquata dai Paesi Ue, e sul salario minimo. Durante la pandemia con il commissario all’Economia Gentiloni ha messo a punto lo strumento Sure per la disoccupazione. All’interno della Commissione europea ha portato avanti con determinazione la dimensione sociale del green deal. Ma è un candidato nel segno della continuità con la Commissione Ursula.

6. Il potentissimo club degli «anta»
editorialista
di Michele Farina

imageShehbaz Sharif, 72 anni, favorito per diventare premier in Pakistan (foto Afp/Arif Ali)

Dieci anni fa i dieci Paesi più popolosi del mondo avevano soltanto un leader che superava i settant’anni di età: il premier indiano Singh. Oggi il «club degli anta» è al completo: dieci su dieci. Gli ultimi due sono sulla soglia del potere: in Pakistan proprio oggi si è riunito il nuovo Parlamento, e il candidato premier favorito è il settantaduenne Shehbaz Sharif, mentre il coetaneo Prabowo Subianto, ex generale, giurerà tra poco come nuovo presidente dell’Indonesia: nel 2014 il suo predecessore, l’ex mobiliere Yoko Widodo, era stato eletto alla giovane età di 53 anni.

Widodo, nel club dei potenti di oggi, sembrerebbe un ragazzino cinquantenne alla Barack Obama. Date di nascita alla mano, l’analisi fatta dal Wall Street Journal è inequivocabile. Se gli americani si apprestano a scegliere, salvo imprevisti, tra l’ottantunenne Biden e il settantasettenne Trump, altrove i leader invecchiano al potere e non c’è neppure la possibilità di sostituirli. Più che una questione puramente anagrafica, in Cina e in Russia è un fatto di longevità autocratica: quando Putin salì al potere aveva 47 anni, la stessa età di Aleksei Navalny al momento della sua morte. E Xi Jinping non ne aveva ancora compiuti sessanta, quando ricevette il suo primo mandato presidenziale nel 2013. In Bangladesh Sheikh Hasina ha 76 anni e ha passato gli ultimi quindici sulla poltrona di primo ministro.

Anche alcuni neo-eletti hanno i capelli grigi: in Nigeria il presidente Bola Tinubu il prossimo mese ne fa 72. Poi ci sono i redivivi: Lula ne aveva 58 quando divenne presidente del Brasile nel 2003, e vent’anni dopo è tornato in carica.

Un paradosso: il continente più vecchio del mondo è quello che mediamente ha i leader politici più giovani. L’Europa non è presente nel club dei dieci Paesi più popolosi, ma l’età al vertice è comunque più bassa della loro. Perché non ci sono dittature e autocrazie? Guarda caso il dittatore bielorusso Lukashenko compie 70 anni ad agosto e si è già fatto un decennio al potere. Questo per dire che conta più la libertà delle elezioni che l’età degli eletti. Un po’ di tempo fa l’Economist fece una copertina in cui si diceva che, grazie a tutti i progressi del viver longevo, la vita comincia a 46 anni. Evviva i leader anta, a patto che siano democraticamente scelti.

7. Quando i generali russi facevano «war game» sulla guerra con la «Dasinia» (ovvero la Cina)
editorialista
di Guido Santevecchi

image Nel 1969 forze cinesi e sovietiche si sfidarono per sei mesi lungo il confine (foto Xinhua)

«Documenti militari classificati», che qualche mano segreta ha passato al Financial Times, hanno rivelato che i generali di Vladimir Putin si sono esercitati (sulle mappe stese nei loro comandi operativi) all’impiego di armi nucleari tattiche in caso di gravi difficoltà dell’esercito russo in una «guerra convenzionale». Le rivelazioni sulla «Dottrina nucleare» della Russia, più aggressiva di quanto si pensasse, hanno fatto naturalmente venire in mente il campo di battaglia ucraino. Ma secondo i files ricevuti dal giornale della City lo scenario tracciato a Mosca guardava in particolare al teatro cinese.

I piani segreti sulla possibile necessità di ricorrere a missili con testate nucleari tattiche furono tracciati dagli strateghi russi tra il 2008 e il 2014 e ipotizzarono uno scontro al confine con la Cina. Sembra impensabile oggi, dopo che Vladimir Putin e Xi Jinping si sono promessi «collaborazione senza limiti» e Pechino di fatto puntella l’economia russa permettendole di reggere lo sforzo bellico in Ucraina. Ma una delle simulazioni condotte dagli strateghi dell’Armata russa ancora una decina di anni fa immaginava una campagna cinese per destabilizzare le regioni dell’Estremo Oriente russo.

Nel «gioco di guerra» a tavolino raccontato in uno dei «documenti classificati» appena rivelati, l’operazione cinese sarebbe cominciata con l’infiltrazione di agenti in territorio russo per sobillare manifestazioni contro il governo, causare scontri con la polizia, sabotare infrastrutture. Una volta creato il caos, Pechino avrebbe spostato forze al confine accusando Mosca di genocidio contro la comunità russa di etnia cinese (alcune decine di migliaia di persone). Conclusione del «war game»: in caso di invasione cinese, i russi dovrebbero difendersi lanciando armi nucleari tattiche sul campo di battaglia.

Ora Putin e Xi giurano di lavorare insieme a un nuovo ordine mondiale, per spezzare la politica di contenimento degli Stati Uniti. Dal 2012, quando è salito al vertice della Cina, Xi ha incontrato di persona Putin una trentina di volte, lo ha definito «amico del cuore», nel febbraio 2022 gli ha garantito «collaborazione senza limiti», è andato a portargli consiglio e sostegno politico a Mosca nel 2023 anche dopo l’aggressione all’Ucraina. Eppure, i politologi cinesi ancora nel 2013 ricordavano uno degli infiniti proverbi mandarini: «Si può andare a letto insieme e fare sogni diversi». Gli strateghi moscoviti magari hanno aggiunto una considerazione in più: «A letto si può sognare di tradirsi».

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Taccuino militare | Dagli Houthi al Libano
editorialista
di Guido Olimpio

Mar Rosso. La fregata tedesca che ha intercettato due droni Houthi ha rischiato di abbattere un Reaper statunitense impegnato in una missione di ricognizione. La coppia di missili lanciati contro il velivolo senza pilota non ha funzionato ed è caduta in mare. All’origine dell’errore un problema di identificazione del target. Da Berlino i giornali aggiungono un dettaglio: la Marina non ha scorte per i suoi sistemi anti-aerei, «ordigni» ormai superati e fuori produzione.

Ancora sugli Houthi ma in chiave diversa: la milizia sciita ha neutralizzato un nucleo di seguaci dello Stato Islamico, uccisi diversi elementi e sequestrate cinture da kamikaze (ne vedete una nella foto). I governativi yemeniti, invece, hanno sventato il sequestro di cittadini stranieri da parte di una cellula di al Qaeda. Le due news rammentano come nello Yemen siano molti i protagonisti del conflitto civile.

Segnali d’allarme sul Libano. Fonti americane citate dalla Cnn non escludono che Israele possa lanciare un’operazione contro l’Hezbollah nel caso i guerriglieri non ripieghino a nord del fiume Litani, nella parte meridionale del Paese. Da mesi, nei contatti diplomatici, lo Stato ebraico preme con questa richiesta. La minaccia può avere una doppia valenza: è reale ma anche una forma di pressione accompagnata dai continui scambi di colpi artiglieria-razzi.

8. Giovani contro giovani: lo sciopero dei medici in Corea del Sud

imageUna manifestazione dei medici in Corea del Sud (foto Epa/Jeon Heon-Kyun)

(Michele Farina) Dalla settimana scorsa novemila giovani medici scioperano in Corea del Sud. Quali sono le ragioni della protesta: cattive condizioni di lavoro? Stipendi troppo bassi? Nient’affatto: i giovani medici scioperano perché il governo ha deciso di aumentare il numero dei giovani studenti in medicina da tremila a cinquemila unità.

Giovani contro giovani. I junior doctors sostengono che un flusso così maggiorato di nuove entrate impedirà un’educazione di qualità. D’altra parte, la situazione sanitaria è drammatica: la Corea del Sud ha un tasso di medici per abitanti tra i più bassi dei Paesi Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico): 2,6 dottori ogni mille persone.

L’Italia, che è comunque in difficoltà, ne ha 4,3; la Germania 4,5; l’Austria è prima con 5,5. Il presidente sudcoreano Yoon Suk-yeol ha minacciato di togliere «la licenza» ai manifestanti se entro oggi non torneranno al lavoro. Lo sciopero del bisturi ha già provocato vittime e disagi: una donna è morta dopo che la sua ambulanza è stata costretta a fare il giro di sette ospedali prima di trovare un letto disponibile.

9. Le note stonate dell’economia cinese

imageLa rifinitura dei pianoforti in una fabbrica cinese: la produzione si è dimezzata da 390 nel 2019 mila a 190 mila nel 2023 (foto Xinhua)

(Guido Santevecchi) Nel decennio feroce della Rivoluzione culturale il pianoforte in Cina era stato scomunicato come simbolo di «decadenza borghese». Ma da quando Pechino ha abbracciato l’economia di mercato «con caratteristiche cinesi» (vale a dire capitalismo con forti ingerenze statali), il pianoforte ha rappresentato uno degli status symbol della nuova classe media nella Repubblica popolare.

I metodi usati dalle madri mandarine per imporre ai figli di diventare virtuosi della tastiera sono stati narrati da Amy Chua nel celebre L’inno di battaglia della mamma tigre: «... delusa dai progressi troppo lenti con le lezioni di piano, minacciò la figlia di bruciarle tutti gli animaletti di pelouche se non fosse riuscita subito a eseguire alla perfezione un brano particolarmente complicato». La popolarità delle lezioni di piano tra le mamme tigre è stata accresciuta da quando le autorità scolastiche di Pechino decisero di assegnare punti di merito nel temutissimo esame per l’accesso all’università agli studenti in possesso di certificati rilasciati da maestri di musica classica.

L’industria nazionale ha fiutato il business e a partire dal 2003 ha cominciato a sfornare non meno di 300 mila pianoforti all’anno, arrivando al record di 396.400 nel 2019, secondo i dati raccolti dall’agenzia Bloomberg. Nel 2021 Fang Baili, docente del Conservatorio di Shanghai, fece un censimento degli studenti di piano in Cina e ne fissò il numero in 60 milioni. Un bacino di consumatori così grande da invitare allo sbarco sul mercato cinese un grande produttore come Steinway & Sons di New York.

Ma il calo della crescita cinese, a partire dallo scoppio del Covid-19, ha spaventato la classe media cinese. E tra le spese non essenziali il pianoforte è stato messo quasi in cima alla lista. Le costose lezioni musicali ai figli e l’investimento nell’acquisto dello strumento sono state tagliate: così nel 2023 la produzione è crollata, dimezzandosi a quota 190 mila.

Gli analisti del mercato musicale indicano tra le cause della crisi anche il calo demografico e la pressione di Xi Jinping per abbandonare le «mode occidentali» e tornare a espressioni culturali «che sono nei geni del popolo cinese». A quanto si dice, mentre le quotazioni del piano scendono, salgono quelle del guzheng, un’antica cetra che allietava le corti imperiali duemila anni fa.

Lucy Cheng, una mamma tigre pentita di Pechino ha detto alla Bloomberg: «Quello del piano è stato uno spreco di tempo e di denaro: in tre anni, tra la spesa per un piano Yamaha e le lezioni per mio figlio, abbiamo speso almeno 95 mila yuan (circa 12 mila euro). Lui non mostrava né entusiasmo né di essere portato e noi continuavamo a pagare 400 yuan a settimana per le sue lezioni. Ora che l’azienda di mio marito gli ha ridotto lo stipendio la prima cosa che abbiamo fatto è lasciar perdere i sogni musicali».

I cronisti della Bloomberg hanno fatto un giro tra gli showroom di Pechino e hanno rilevato che vengono offerti sconti del 30% sui pianoforti, ma i clienti continuano a mancare.

Grazie di averci letto fin qua. Buona giornata!

Andrea Marinelli


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