Trump contro Andersonalla Corte SupremaAmerica-Cina dell’8 febbraio

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Giovedì 8 febbraio 2024
Trump contro Anderson
editorialista di federico thoman

Ben ritrovate e ben ritrovati su America-Cina. Oggi i riflettori sono puntati su Washington, sulla sede della Corte Suprema. È il giorno delle audizioni sul caso «Trump v. Anderson» che determinerà, nelle prossime settimane, un parere decisivo dei giudici sulla candidabilità dell’ex presidente alle prossime elezioni presidenziali. Prima firmataria del ricorso che, dal Colorado, è arrivato fino al grado massimo della giustizia americana è una 91enne determinata e combattiva, figura storica del Partito repubblicano nello Stato delle Montagne Rocciose: Norma Anderson. Nel frattempo non arrivano, per l’amministrazione Biden, buone notizie dal Medio Oriente: l’ennesima missione diplomatica del segretario di Stato Blinken non ha portato i frutti sperati e il premier israeliano Netanyahu ha seccamente rifiutato la tregua con Hamas.

Se avete poi qualche minuto da dedicare a parole e foto strazianti, il webreportage di Marta Serafini sui due anni di Mariupol — la città ucraina rasa al suolo dai russi — lo merita di sicuro.

Nella nostra newsletter c’è però spazio anche per un sorriso. Per esempio quello di noi comuni mortali che proviamo a empatizzare con super Vip e miliardari che a Las Vegas non troveranno «parcheggio» per il loro jet privati in occasione del Super Bowl. Oppure quello che nasce dopo aver letto due nuove parole (una olandese e l’altra inglese) che descrivono molto bene lo spirito del nostro tempo stressatissimo e spesso deludentissimo: «niksen» ed «entshittification». Cosa vogliono dire? Leggete l’ottima spiegazione di Irene Soave!

La newsletter America-Cina è uno dei tre appuntamenti de «Il Punto» del Corriere della Sera. Potete registrarvi qui e scriverci all’indirizzo: americacina@corriere.it.

1. Il caso Trump alla Corte Suprema
editorialista
di viviana mazza
corrispondente da New York

La Corte suprema di Washington ascolterà oggi le argomentazioni sul caso Trump v. Anderson, per decidere se Trump debba essere squalificato dalle primarie repubblicane del 5 marzo in Colorado, sulla base della sezione 3 del 14° emendamento della Costituzione che vieta di candidarsi agli uffici pubblici a chi abbia incitato un’insurrezione contro la Costituzione stessa. Un potere di intervento della magistratura nelle elezioni presidenziali paragonato da alcuni a quello esercitato nella decisione Bush v. Gore nel 2000. Il verdetto è attese tra settimane (non mesi, dicono gli avvocati che appoggiano la causa contro l’ex presidente). La Corte suprema del Colorado ha concluso a dicembre che l’assalto al Congresso era una insurrezione e che Trump non può apparire sulle schede elettorali delle primarie per candidarsi alla presidenza. La Corte suprema di Washington ha accettato di ascoltare il caso e probabilmente emanerà un verdetto che permetterà un’applicazione in tutti gli Stati. Anche la segretaria di Stato del Maine ha infatti dichiarato la squalifica di Trump, ma una corte dello Stato ha deciso che la Corte suprema dovrà prima esprimersi.

imageIl segnale per l’inizio della coda per entrare nella Corte Suprema e ascoltare l’audizione di Trump (Ap)

Un punto centrale del caso è chi determina cosa si qualifichi come insurrezione e quando qualcuno è soggetto alla sezione 3 del 14esimo emendamento. Biden e altri dicono che l’assalto al Congresso fu un’insurrezione contro la Costituzione. Ma i sostenitori di Trump osservano che contro di lui ci sono 91 capi di imputazione nelle quattro incriminazioni, ma non c’è l’accusa di insurrezione, per la quale è stato assolto dal Senato dopo l’impeachment. La Corte suprema, a maggioranza conservatrice e con tre giudici nominati da Trump, potrebbe risolvere la questione. Oppure potrebbe anche emanare un verdetto in suo favore senza nemmeno rispondere alla questione se l’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021 sia una insurrezione e se Trump abbia incitato i rivoltosi. Potrebbe insomma evitare questi nodi, determinando semplicemente che Trump non ha mai fatto un giuramento che lo vincola a rispettare la parte della Costituzione che vieta a chi ha fomentato una insurrezione di occupare una carica pubblica; oppure potrebbe decidere che quel comma non si applica al presidente; o ancora che il Congresso, non la magistratura, ha il ruolo di decidere chi può candidarsi e chi no.

Il caso ha riportato al centro del dibattito contemporaneo delle misure introdotte tre anni dopo la fine della Guerra civile, nel 1868, quando gli Stati Uniti adottarono il 14esimo emendamento e la sua sezione 3 che vieta di entrare in cariche pubbliche a coloro che hanno giurato sulla Costituzione se “sono stati coinvolti in insurrezione o ribellione contro di essa, o se hanno dato aiuto o supporto ai nemici della Costituzione”. La misura era stata introdotta per impedire ai Confederati di tornare al potere ma era anche stata scritta in modo abbastanza ampio da contemplare future insurrezioni.

2. Norma Anderson, repubblicana 91enne anti-Donald
editorialista
di massimo gaggi
da New York

Il caso «Trump contro Anderson» arriva oggi sul tavolo della Corte Suprema. I suoi nove giudici dovranno dire l’ultima parola sulla decisione del Colorado di escludere l’ex presidente dalle primarie repubblicane del prossimo 5 marzo: giudicato ineleggibile in base al 14esimo Emendamento della Costituzione che è stato inserito nella Carta dopo la Guerra Civile di metà Ottocento per tenere chi organizza o partecipa a insurrezioni lontano dalle cariche pubbliche. L’esclusione che, se dovesse essere confermata (è improbabile che accada), avrebbe valore nazionale e, di fatto, pregiudicherebbe l’elezione di Trump, è stata decisa dalla Corte Suprema del Colorado: ha accolto il ricorso contro il leader conservatore di sei cittadini, tutti repubblicani o indipendenti. Prima firmataria Norma Anderson: una dinamica 91enne che per molti anni ha avuto un ruolo di punta nel Grand Old Party e nel parlamento del suo Stato.

imageNorma Anderson, 91enne repubblicana del Colorado (Getty)

Nel Parlamento del Colorado, dove è stata eletta più volte diventando la prima donna a divenire capo della maggioranza tanto alla Camera quanto al Senato, la ricordano tutti come leader energica e dalle idee chiare. Trump, ad esempio, l’ha sempre considerato un corpo estraneo: poco dopo la sua elezione a presidente lei è uscita dal partito repubblicano per poi rientrarvi nel 2021. Quando ha saputo che alcuni cittadini volevano tentare di far dichiarare Trump ineleggibile ha dato la sua adesione entusiastica. Il motivo l’ha spiegato lei stessa al Washington Post: «Ha cercato di sovvertire il risultato delle elezioni. Non si fa così. Anch’io la prima volta che mi sono candidata non ce l’ho fatta. Mica mi sono messa a truccare le urne. Mi sono detta: ragazza, lavora duro e riprovaci»: e quattro anni dopo, nel 1986, ce l’ha fatta (leggi sul sito del Corriere il ritratto completo).

3. Netanyahu dice no
editorialista
di davide frattini
corrispondente da Gerusalemme

La leva obbligatoria più lunga perché la guerra durerà a lungo. Lo Stato Maggiore israeliano vuole aggiungere almeno quattro mesi alla ferma delle reclute (fino a un totale di 36 anche per le donne che servono nelle unità combattenti) e ampliare i periodi in divisa dei riservisti. Più soldati per un conflitto che va avanti, come ribadisce il premier Benjamin Netanyahu: «Siamo vicini alla vittoria totale, non è questione di anni». Dice di avere «il cuore in frantumi per gli ostaggi», ma respinge gli appelli delle famiglie per una tregua immediata e uno scambio di prigionieri a qualunque prezzo. Il prezzo definito dai capi di Hamas è secondo il primo ministro «delirante»: «Un accordo porterebbe solo a un altro massacro, i terroristi non sopravviveranno a Gaza». Così ha ordinato all’esercito «di avanzare verso Rafah», la città al confine con l’Egitto dov’è ormai ammassato l’85 per cento della popolazione nella Striscia.

imageUn soldato israeliano seduto su un carro armato (Epa)

L’ottimismo espresso dal Qatar, tra i mediatori principali, si è spento quando ieri mattina sono emerse le condizioni poste dai boss fondamentalisti ed è stato subito evidente quanto fossero inaccettabili per Netanyahu e la sua coalizione di estrema destra. Gli islamisti invocano 135 giorni di cessate il fuoco e tre fasi per realizzare il rilascio del centinaio di ostaggi ancora nelle loro mani in cambio della scarcerazione di migliaia di detenuti palestinesi. Soprattutto pretendono il ritiro completo delle truppe dai 363 chilometri quadrati, dove in oltre quattro mesi i palestinesi uccisi sono quasi 28 mila, e garanzie che la pausa nei combattimenti sia permanente. Antony Blinken, il segretario di Stato americano, è costretto ad ammettere che «la risposta di Hamas ha molti elementi non affrontabili, eppure credo apra lo spazio per raggiungere un accordo» (leggi qui l’articolo completo).

4. La missione fallita di Blinken

(Davide Frattini) Il Mossad ha ricevuto il documento. Il Mossad sta valutando. Per rendere ancora più impersonali i comunicati i portavoce di Benjamin Netanyahu avrebbero potuto usare il termine l’Istituto, come la maggior parte degli israeliani chiama i servizi segreti. Eppure la scelta finale sulla possibile intesa con Hamas non spetterà mai a David Barnea, il capo delle spie. Come scrive Anshel Pfeffer: «La decisione su uno scambio di prigionieri, siano pochi o tanti, alla fine ricade solo sul primo ministro», quello che da queste parti considerano «il lavoro più difficile del mondo». L’editorialista del quotidiano Haaretz ripercorre le posizioni espresse in passato da Bibi, com’è soprannominato, quand’era a capo del governo e quando stava all’opposizione. Non riesce a ricostruire una strategia coerente.

imageIl segretario di Stato Usa Antony Blinken a Tel Avviv (Ap)

Per giorni il premier ha tenuto riunioni a porte chiuse e microfoni aperti in cui si metteva di traverso, ripeteva «la guerra andrà avanti fino alla vittoria totale», «uccideremo i capi di Hamas». Proclami diffusi in tempo per il telegiornale della sera, mentre ancora il Mossad negoziava e poi riceveva, valutava. In tempo per rovinare — anche se tutti i protagonisti nella regione ci hanno messo la loro parte — fin dal primo atterraggio il quinto viaggio di Antony Blinken in Medio Oriente dal 7 ottobre. Il segretario di Stato sembrava aver scelto le tappe proprio per raccogliere buone intenzioni da portare a Gerusalemme: dai sauditi la promessa di essere ancora pronti a discutere la normalizzazione con Israele. Decolla e il ministero degli Esteri precisa di non essere disposto ad accettare qualche formula vaga, il regno del Golfo chiede da subito il riconoscimento di uno Stato palestinese con Gerusalemme Est come capitale, ipotesi inaccettabile per Netanyahu e la sua coalizione di estrema destra al potere (leggi qui l’articolo completo).

5. Taccuino mediorientale | Il raid Usa a Bagdad
editorialista
di guido olimpio

Il raid di un drone americano a Bagdad ha ucciso alcuni dirigenti del movimento filoiraniano Kataeb Hezbollah. 1: la conferma di una rappresaglia prolungata da parte di Washington: il gruppo è accusato di aver condotto l’incursione contro una base americana in Giordania, tre i soldati morti. 2: i target sono stati raggiunti, hanno precisato le fonti, dopo un lavoro di intelligence condotto da tempo. Aspettavano finestra di opportunità e momento. 3: Washington, se da un lato manda un messaggio alle milizie e al tutore iraniano, dall’altro deve mettere in conto le contromosse degli avversari. Si vendicheranno in un ciclo senza fine.

imageL’auto su cui erano a bordo i miliziani centrata da drone americano (Ap)

Ricordiamo sempre che negli ultimi mesi sono stati oltre 160 gli attacchi delle fazioni. Ed è anche un test per gli ayatollah: possono frenare o spingere i militanti a repliche dure. 4: lo strike acuisce la tensione con il governo iracheno: sale nel paese la richiesta di una fine della presenza americana.

6. Fosse comuni e macerie: Mariupol, due anni dopo
editorialista
di marta serafini

«Sono riuscito a venire via vivo da Mariupol. Ma quello che è successo lì, né io né i miei figli potremo mai dimenticarlo». Vaagn Mnatsakanian era consigliere comunale della città. Oggi vive all’estero con la sua famiglia perché alla metà di marzo 2022 è riuscito a fuggire con un convoglio della Croce Rossa. Prima di andarsene, Mnatsakanian ha cercato di risolvere uno dei problemi peggiori dell’assedio. È il 2 marzo quando i cittadini di Mariupol a causa dei bombardamenti russi rimangono senza elettricità, acqua e riscaldamento. I membri del consiglio comunale, l’ufficio del sindaco, i soccorritori, i vigili del fuoco e gli agenti di polizia iniziano a incontrarsi ogni mattina alle 8 per condividere informazioni e cercare di coordinare le operazioni di soccorso. Il 6 marzo, Mnatsakanian, che all’epoca ha 34 anni ed è a capo del dipartimento di ecologia e gestione energetica della città di Mariupol, si rende conto che la città non dispone di un sistema per raccogliere e seppellire i corpi che sono ormai ovunque nella città. «Mio padre era morto il giorno prima. Crediamo abbia avuto un infarto provocato da un attacco di artiglieria nelle vicinanze».

imageLe esplosioni a Mariupol nel marzo 2022, pochi giorni dopo l’inizio dell’invasione russa in Ucraina (Ap)

Il vicesindaco gli dice di andare all’obitorio di Illichovski, nel nord-est di Mariupol. Quando Mnatsakanian e un amico arrivano sul posto con il corpo del padre, trovano circa 50 cadaveri, ma nessuno che se occupi. «Non c’era elettricità, quindi nessuno dei frigoriferi funzionava», spiega Mnatsakanian (leggi il webreportage integrale sul sito del Corriere).

7. Guerre segrete: infiltrazioni iraniane in Svezia

(Guido Olimpio) La polizia svedese ha fermato nel 2021 due iraniani che erano entrati nel Paese quattro anni prima fingendosi afghani e per questo avevano ottenuto asilo. In seguito, sono stati espulsi verso il loro paese. Ora i media confermano i sospetti: la coppia lavorava per i servizi segreti di Teheran ed era stata mandata in missione all’estero. Per individuare bersagli nella comunità ebraica e preparare poi attentati.

imageDue agenti di polizia svedese (polisen.se)

Diverse indagini in Nord Europa hanno riguardato elementi – spesso reclutati nella criminalità comune – incaricati di eseguire operazioni contro gli esuli. Una tattica che, purtroppo, ha permesso al regime di colpire con successo.

8. Una nuova telefonata tra Xi e Putin
editorialista
di guido santevecchi

Vladimir Putin ha battuto sul tempo Joe Biden. Mentre la Casa Bianca cerca di preparare a un vertice telefonico con Xi Jinping, previsto «entro la primavera», il presidente russo oggi ha parlato con l’amico di Pechino. Il colloquio, partito con gli auguri per il Capodanno lunare che cade sabato 10, ha abbracciato la relazione speciale tra Russia e Cina. Nel resoconto dell’agenzia Xinhua, Xi ha detto che è interesse comune opporsi alle ingerenze straniere, proteggere la propria sovranità dall’ostilità occidentale e collaborare strategicamente. Linguaggio duro, ma nella sostanza niente di nuovo in apparenza, almeno dalle prime informazioni diffuse a Pechino. Nel suo riassunto, Mosca ha messo in risalto l’impegno dei due leader a rafforzare la cooperazione economica e commerciale.

imageUna videoconferenza tra il leader cinese Xi Jinping, a sinistra, e quello russo Vladimir Putin nei mesi scorsi

Il fatto più significativo è che mentre per preparare un colloquio con Biden servono settimane di contatti e trattative, il presidente cinese resti in contatto personale costante con Putin.

9. I dolori dell’economia cinese (e il Messico diventa il primo esportatore verso gli Usa)

(Guido Santevecchi) L’Occidente è ancora alle prese con l’inflazione. In Cina spira il vento della deflazione: a gennaio l’indice dei prezzi al consumo è sceso dello 0,8% su base annua, per il quarto mese consecutivo e segnando la contrazione più forte da quindici anni. I prezzi calano perché i consumatori cinesi non spendono, preoccupati dallo stato dell’economia, mentre l’eccesso di capacità produttiva si gonfia. Molti indicatori sono negativi: il mercato immobiliare nel quale la classe media cinese ha investito gran parte dei suoi risparmi è in crisi profonda; la Borsa continua a scendere e dal 2022 ha bruciato duemila miliardi di dollari di valore azionario; anche l’export appare in difficoltà, soprattutto per effetto del clima da guerra fredda tra Washington e Pechino. I dati appena comunicati dallo US Commerce Department mostrano che la Cina ha perso il rango di primo esportatore verso gli Stati Uniti, superata dal Messico.

imageIl terminal per l’export di automobili cinesi a Yantai, nella provincia dello Shandong (Reuters)

Nel 2023 il valore delle esportazioni cinesi verso gli Usa è sceso del 20%, fermandosi a 427 miliardi di dollari, mentre la quota di prodotti messicani ha guadagnato il 5% salendo a 475 miliardi di dollari. Il Messico ha tratto vantaggio dalla strategia del «friendshoring» lanciata dall’Amministrazione Biden per mitigare i rischi geopolitici del confronto con la Cina. Le multinazionali americane sono state invitate a riorientare le loro catene di approvvigionamento in Paesi amici come il Messico, anche il Vietnam, l’Indonesia e la Malesia. Così, per la prima volta da vent’anni, il Messico è il primo fornitore di prodotti stranieri sul mercato americano. Il deficit commerciale degli Stati Uniti nei confronti del Messico è salito del 17% a 152 miliardi di dollari nel 2023. Quello verso la Cina è sceso del 27%, a 279 miliardi di dollari, il livello più basso dal 2010.
A Pechino i pianificatori dell’economia dicono che la caduta dei prezzi a gennaio è dovuta in parte al calendario: l’anno scorso il Capodanno lunare era stato il 22 gennaio e aveva trainato gli acquisti dei cinesi. Quest’anno l’Anno lunare del Drago comincia il 10 febbraio e dunque la gente ha aspettato per fare compere straordinarie. La tendenza però rivela che è da agosto che i prezzi continuano a scendere segnando deflazione. Prima delle vacanze, Xi Jinping ha presieduto una riunione centrata sullo stato del mercato azionario che da molti mesi continua a scendere, anche qui in controtendenza rispetto alle Borse occidentali. Ha pagato per tutti il compagno Yi Huiman, rimosso da presidente e segretario di partito della Commissione per il regolamento azionario. Al suo posto è stato nominato Wu Qing, 58 anni, che si è fatto notare a Shanghai dove da vicesindaco aveva condotto inchieste sulla Borsa, meritandosi il soprannome di «macellaio dei broker» per aver fatto chiudere una trentina di agenzie di intermediazione dei titoli.

10. A Las Vegas i super ricchi non sanno dove parcheggiare il jet

(Federico Thoman) «Non trovo parcheggio». Per la gente comune, in molte parti del mondo, questa frase è sia una condanna che un’amara constatazione. In occasione di grandi concerti o eventi sportivi, chi si sposta in auto si aggira spesso come uno squalo cercando un piccolo spazio in cui lasciare il suo mezzo a quattro ruote. Questo problema, al netto delle considerazioni sull’impatto ambientale, di solito non riguarda chi è molto ricco o ricchissimo perché tra autisti, elicotteri o jet privati la mobilità non è, semplicemente, una sua preoccupazione. Ma anche i ricchissimi piangono o, meglio, a volte non sanno dove parcheggiare il loro aereo. È il caso del Super Bowl, il grande evento sportivo americano in programma a Las Vegas domenica 11 febbraio (in Italia sarà già lunedì per il fuso orario): i jet che vorrebbero atterrare sono il doppio degli spazi di parcheggio disponibili nei quattro aeroporti vicini alla città regina dell’entertainment nel deserto del Nevada.

imageIl parcheggio dell’aeroporto internazionale di Las Vegas H, Reid «impaccato» di jet privati in occasione del match di boxe Mayweather-Pacquiao nel 2015

Ad annunciare l’esaurimento dei 475 posti disponibili in totale, perché già tutti prenotati, è stata l’autorità federale per l’aviazione (FAA). I quattro scali sono l’aeroporto internazionale Harry Reid, quello più grande, e poi quelli più piccoli, regionali, a North Las Vegas, Henderson e a Boulder City, a circo 40 chilometri dalla città in cui si disputerà la sfida di football americano più attesa e seguita dell’anno tra i Kansas City Chiefs del super quarterback Patrick Mahomes (per lui sarebbe la terza vittoria dopo il 2019 e l’anno scorso) e i San Francisco 49ers. Lo scorso anno, quando il Super Bowl si disputò a Phoenix, in Arizona, i parcheggi disponibili per i jet di vip e miliardari erano oltre 1.100 e anche allora ci fu il tutto esaurito (leggi qui l’articolo completo).

11. Due nuove parole per il vocabolario dell’epoca
editorialista
di irene soave

Un verbo da imparare: niksen. Olandese per «non fare nulla». Bighellonare sulla spiaggia di Scheveningen, all’Aia, di fronte al Mare del Nord così freddo da non contemplare di bagnarsi quasi mai. Ricaricare le batterie. Il termine è olandese, e si è conquistato qualche articolo di giornale come il termine danese hygge o lo svedese lagoem: parole scandinave che raccontano di un modo di vivere più umano. Oggi torna in voga nell’Olanda del burnout: è il Paese europeo a sentire di più il peso della pandemia di stress lavoro-correlato, con il 90% della popolazione che dice, in un recente sondaggio, di averlo esperito. Colpa anche della cultura calvinista del lavoro come virtù, nata non troppo lontano. La soluzione: niksen. Bighellonare. Un verbo rivoluzionario, di cui oggi scrive il Guardian. Qualche osservatore potrebbe riferirlo anche al centrista Pieter Omtzigt, leader del «Nuovo Partito di Centro» nato per le elezioni di novembre come formazione di puri e rigorosi, allergici alle pastette e agli scandali del precedente governo Rutte. Dopo due mesi con un piede dentro e uno fuori, Omtzigt ha dichiarato definitivamente che non parteciperà al governo di Geert Wilders, ex paria della politica uscito vincitore dal voto di quest’autunno. La decisione di fondare il suo Nuovo Partito di Centro, oggi ago della bilancia governativa, gli è venuta anni fa proprio dopo un brutto burnout: aveva portato alla luce lo scandalo dei sussidi statali richiesti indietro ai bisognosi sulla base di un algoritmo razzista e mentre il torto era stato sanato la politica non glielo aveva perdonato, isolandolo nella maggioranza parlamentare. Oggi lo stesso impulso etico gli ordina di non fare nulla, e lasciare che il governo più di destra della storia del Paese si formi senza di lui. Niksen.

imageAl centro, il leader del Nuovo Partito di centro dei Paesi Bassi Pieter Omtzigt (Epa)

Un sostantivo di cui prendere atto: «entshittification», cioè, più o meno, «merdificazione». La usa il giornalista e blogger canadese Cory Doctorow, oggi, sul Financial Times: per descrivere il modo in cui tutto, nella nostra epoca, sembra andare in m... . A partire dall’esempio dei social network, e precisamente di Facebook: internet è stato colonizzato dalle piattaforme, argomenta Doctorow, e queste piattaforme, che sono il modo principale con cui noi oggi stiamo online, si stanno degradando in modo rapido e completo. Diventando «m...». Facebook è solo la prima: prima, scrive Doctorow, ha offerto agli utenti un nuovo servizio positivo, poi li ha sfruttati e ha abusato dei loro dati e diritti a beneficio di un altro tipo di cliente, cioè le aziende. Infine ha sfruttato le aziende. E ora, così, è diventato irrilevante. Succede a tutto, in quest’epoca, e soprattutto alle piattaforme internet. Cosa possiamo farci? Nella migliore delle ipotesi, usare il verbo di prima. Niksen: non fare niente. Più spesso che no, è una forma di resistenza.

Grazie per averci letto anche oggi, a domani!


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