In Medio Oriente si va verso la «guerra totale»? O c'è speranza di de-escalation?

Due colpi micidiali messi a segno da Israele, due leader di milizie filo-iraniane uccisi nello spazio di due giorni. Uno (Fuad Shukr) è un capo di Hezbollah eliminato a Beirut in Libano, l’altro (Ismail Haniyeh) è un leader politico di Hamas ucciso da un missile a Teheran. Sulla prima uccisione manca per adesso una conferma da parte di Hezbollah. La seconda è già stata denunciata dal governo iraniano che promette vendetta.

L’impressione è quella di una escalation ormai inarrestabile, una spirale che conduce verso la deflagrazione di una "guerra totale" in Medio Oriente: con l’apertura del temuto terzo fronte contro Hezbollah in Libano (dopo i due fronti di Gaza e del Mar Rosso), possibilmente infine un quarto fronte con un conflitto diretto fra Israele e l’Iran. Senza escludere una nuova Intifada in Cisgiordania. C’è però un’interpretazione meno terrificante, che voglio riportare, è lo scenario detto “escalation for de-escalation”.

Lo scenario più pessimista è il più facile da dedurre dagli ultimi due colpi contro nemici di Israele. A Beirut l’attacco israeliano avrebbe centrato il leader di Hezbollah considerato responsabile per la strage di bambini drusi nel Golan. Il castigo era considerato necessario per più motivi, inclusa l’importanza di dimostrare che Israele protegge anche le proprie minoranze etniche (i drusi sono arabo-siriani). Hezbollah aveva negato la paternità di quella strage, ma si capisce perché: con ogni probabilità era avvenuta “per sbaglio”, il vero bersaglio doveva essere una base israeliana; l’imbarazzo di Hezbollah era accentuato dallo sdegno pressoché unanime nel mondo arabo. Resta il fatto che l’eliminazione di un leader Hezbollah nella capitale del Libano, in una zona presidiata da questa milizia filo-iraniana, è un colpo alla credibilità dei suoi leader e può innescare un altro ciclo di contro-rappresaglie.

A questo si aggiunge l’attacco immediatamente successivo, il missile che ha ucciso un capo politico di Hamas nientemeno che nella capitale dell’Iran, dove si trovava per assistere all’insediamento del nuovo presidente eletto. Anche in questo caso siamo di fronte ad un’assenza di rivendicazione, che però rientra nella prassi consueta delle forze armate israeliane. Qui il colpo è ancora più tremendo, un’umiliazione per l’intera leadership iraniana che assiste all’uccisione di un alleato mentre si trova nella propria capitale per un evento ufficiale. Va aggiunto che Ismail Haniyeh, il leader politico di Hamas che viveva in esilio in Qatar, era anche il capo negoziatore nelle trattative per il cessate-il-fuoco a Gaza e il rilascio di ostaggi. Non che ci fossero molte speranze su un esito rapido e positivo di quelle trattative, ma di certo ora sono più difficili che mai.

È irresistibile la tentazione di vedere all’opera un ingranaggio irreversibile. Le prossime rappresaglie, da Hezbollah, da Hamas, o dallo stesso Iran, potranno innescare ulteriori risposte da parte di Israele. D’altronde c’è una visione “realista” in Israele – non limitata a Benjamin Netanyahu – che considera impossibile raggiungere un livello di sicurezza accettabile senza una resa dei conti definitiva con chi vuole eliminare lo Stato ebraico. Quindi Hamas ma anche Hezbollah e lo stesso Iran, vero regista di tutti gli attacchi nella regione. Fin dalla sua fondazione con la rivoluzione khomeinista del 1979 la teocrazia sciita degli ayatollah si è data tre missioni sacre: distruggere Israele; cacciare l’America dal Medio Oriente; sottrarre all’Arabia saudita i luoghi sacri della Mecca e Medina. Non ci sarà pace in Medio Oriente finché l’Iran non rinuncia a tre obiettivi così distruttivi.

Una logica implacabile sembra quindi spingere verso una generalizzazione del conflitto. Tanto più che le ultime vicende avvengono nel quadro di una sorta di vacanza della politica estera americana. Joe Biden è un presidente depotenziato in tutti i sensi. L’azione degli Stati Uniti è ancora meno incisiva del solito, perché tutti gli attori mondiali già pensano al “dopo”, s’interrogano su quale sarà la strategia internazionale di una presidenza Harris o Trump

Voglio citare però uno scenario meno disastroso. È quello che spiega un collega esperto dell’area, James Rothwell del Daily Telegraph. È la teoria detta “escalate to de-escalate”. Seguendo questa dottrina Israele avrebbe colpito a Beirut e a Teheran non per segnalare la sua determinazione ad allargare la guerra, ma per prepararsi a una ritirata. L’uccisione del leader di Hezbollah e di quello di Hamas sarebbero funzionali a dichiarare missione compiuta, a proclamare vittoria, e a preparare un disimpegno delle forze armate israeliane, già molto provate dopo nove mesi di intervento a Gaza. L’escalation sarebbe il preludio alla de-escalation

È una teoria interessante, che vale a una condizione: che tutti gli altri attori stiano al gioco. Che cioè le inevitabili contro-rappresaglie da Hezbollah e da Hamas non oltrepassino qualche “linea rossa” segnata dagli israeliani. Nel qual caso torneremmo invece al primo scenario, quello della guerra generalizzata. Molto dipende dai calcoli iraniani sui rapporti di forze nella regione. Nonché dal livello di incoraggiamento che il regime degli ayatollah sciiti riceve dai suoi protettori nell’Asse della Resistenza, Russia e Cina.

31 luglio 2024

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