Intelligenza artificiale, la Cina copia gli Usa e corre (mentre l'Europa è ferma)
La Cina guadagna terreno nell’intelligenza artificiale, grazie a un mix di ingredienti particolare che le danno un vantaggio competitivo. Dovremo preoccuparcene anche per le conseguenze in campo militare.
Vi ricordo la sarcastica battuta con cui gli esperti americani descrivono la gara mondiale nell’AI (uso l’acronimo inglese per Artificial Intelligence): «America innovates, China replicates, Europe regulates». Aggiungo il commento dell’economista e investitore Alec Ross: «In questa gara si distinguono soprattutto le aziende americane, inseguite da quelle cinesi. Gli europei sono assenti o marginali, s’illudono di contare fabbricando regole, cioè facendo gli arbitri della competizione. Ma si è mai visto un arbitro vincere una gara?»
La Cina è l’esatto contrario dell’Europa, fa dell’assenza di regole la sua forza. Vuole ripetere nell’AI gli exploit che le riuscirono in molte altre tecnologie: inizia copiando, alleva una serie di campioni nazionali, finché quelli diventano a loro volta capaci di competere con gli americani. Il tutto in un ambiente favorevole, sia per l’ampia disponibilità di dati personali da usare come materia prima, sia per l’abbondante forza lavoro giovanile addestrata nelle tecnologie, sia perché la mano dello Stato spinge anziché frenare. Aggiungiamoci pure che l’AI ha bisogno di data center energivori, e la Cina non avendo movimenti ambientalisti investe in tutte le energie senza eccezioni: dalle rinnovabili al nucleare al carbone.
Attingo qui a uno studio di Chatham House su questo tema. E’ un censimento della diffusione dell’AI nei luoghi di lavoro, all’interno delle aziende cinesi di ogni tipo. L’atteggiamento generale è all’opposto di quello italo-europeo. Mentre sul Vecchio continente si discute di tutti i pericoli legati all’AI, cominciando dai possibili tagli all’occupazione, in Cina il mondo delle imprese ha un pregiudizio favorevole e moltiplica gli sforzi per adottare in fretta questa rivoluzione tecnologica.
Esistono già ben 4.300 imprese cinesi attive nel settore dell’AI. E’ un numero inferiore solo alle americane. La Repubblica Popolare è ancora in ritardo nelle innovazioni più sofisticate e nella ricerca pura. Ma la sua forza sta nella velocità con cui passa alle applicazioni pratiche dell’AI. È appunto lo stesso copione che Pechino ha seguito con successo in molti altri campi. Già in passato in molti settori industriali la Cina ha iniziato da parassita, rubando letteralmente le scoperte altrui, ma dimostrando un’eccezionale concretezza e flessibilità nel trasformare le innovazioni altrui in prodotti. Un esempio fra tanti è l’auto elettrica. Il governo cinese fece ponti d’oro a Elon Musk perché aprisse una fabbrica Tesla a Shanghai. All’inizio le Tesla che sfrecciavano per le vie di Pechino e Shanghai sembravano oggetti di fantascienza. Ora le marche cinesi hanno banalizzato quella tecnologia e la producono a prezzi inferiori. Su scala di massa.
Il mix unico che Xi Jinping offre nella corsa alla leadership mondiale nell’AI è fatto di tre ingredienti. Primo: il governo incoraggia la concorrenza più sfrenata fra aziende private, come si vede dalla fioritura di quei 4.300 soggetti già attivi. Secondo, c’è anche un forte sostegno statale all’innovazione nell’AI. Terzo: ci sono pochissime tutele sia ai diritti dei lavoratori sia alla privacy dei consumatori, anche questo è un segno più per chi opera nell’AI, significa avere dei margini di libertà superiori rispetto all’Occidente.
La Cina dunque è partita in ritardo rispetto all’America ma punta a ripetere l’operazione compiuta con la pandemia. Il Covid è stato utilizzato come un’opportunità per un formidabile balzo in avanti nella digitalizzazione dell’economia, per esempio nella diffusione del riconoscimento facciale. L’Occidente ha voluto vedere sempre e soltanto l’aspetto demoniaco, il Grande Fratello che usa le tecnologie per rafforzare la sorveglianza e il controllo autoritario sulla popolazione. Ma fissandoci esclusivamente sul versante negativo, sulla nuova fase digitale del “dispotismo orientale”, abbiamo perso di vista la dimensione di progresso, modernità, efficienza, facilitazione della vita quotidiana. Che a molti cinesi non dispiace affatto. Lo stesso accadrà con l’AI: mentre in Europa cresce un allarmismo che può diventare paralizzante, la Cina si rimbocca le maniche e cerca di estrarne la massima utilità possibile.
Vengo al tema militare. Cito un aneddoto recente. L’Amministrazione Biden ha tentato di coinvolgere il governo cinese in un dialogo permanente ad alto livello, per concordare dei limiti sugli usi bellici dell’AI. In parte viene già utilizzata, ma in futuro le sue potenzialità potrebbero diventare allarmanti. Faccio un esempio banale tratto dalla mia vita professionale quotidiana. Ho avuto modo di sperimentare la rapidità estrema con cui un chatbot dell’AI scrive un testo (di media qualità) su un tema che le assegno. Ancor più impressionante è la qualità delle traduzioni da ogni lingua ad ogni altra lingua, congiunta con la velocità pazzesca di esecuzione. Se tanto mi dà tanto, immaginatevi la tentazione per lo stato maggiore di un esercito di battere il nemico in effetto-sorpresa e velocità di pianificazione degli attacchi. Con il rischio, naturalmente, di una escalation fino alla guerra nucleare, che verrebbe sottratta quasi del tutto al controllo umano, in nome della superiore efficienza e velocità dell’AI.
Alla richiesta americana, «sediamoci a un tavolo e discutiamone», la risposta cinese è stata questa: «accettiamo, se a quel tavolo si siedono Microsoft e Google». Come a dire: voi politici, o voi generali, o voi tecnocrati, di queste cose capite poco; a noi interessano le vere superpotenze, cioè le aziende private, perché negoziando con loro speriamo di riuscire a rubargli dei segreti.
28 luglio 2024
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