Come finiscono i chip Usa nei missili russi usati in Ucraina? La risposta è (anche) in Cina
Le sorti della guerra in Ucraina si decidono a Pechino. È il messaggio che si può estrarre dalla visita del ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba, a Guangzhou (Canton) dove ha incontrato il suo omologo cinese Wang Yi. Non c’è da illudersi che la Cina voglia fare pressioni sulla Russia per una rapida cessazione delle ostilità. Però, soprattutto nell’eventualità di una vittoria di Donald Trump, le parti si preparano a un negoziato. L’Ucraina lo affronterebbe in condizioni di inferiorità. Le conviene tenersi buono il partner più potente di Vladimir Putin, che è Xi Jinping, in vista di una trattativa difficile e dolorosa.
La Cina ha un ruolo decisivo anche per un’altra ragione: per la Russia è diventata il principale fornitore… di tutto. Armi incluse. O meglio, la Repubblica Popolare vende a Mosca tutto ciò che serve all’industria bellica russa per fabbricarsi le armi. In particolare i microchip. Con un dettaglio allarmante: dalla Cina arrivano in Russia fior di semiconduttori sofisticatissimi che sono in realtà di progettazione americana. Alcuni di questi sono stati identificati nei resti del missile russo che centrò un ospedale pediatrico a Kiev. È la prova più terribile che l’embargo occidentale in questo campo è fallito, aggirato da tutte le parti, ivi compreso da giganti Usa del settore dei microchip come Intel, Amd, Micron, Texas Instruments.
Che l’embargo contro Putin sia un colabrodo non è una novità. Gli ultimi dettagli sui microchip americani nei missili russi però sono nuovi e aggravano il quadro. Li rivela un’ottima inchiesta del New York Times, che qui riassumo. La Russia, in barba alle sanzioni, nell’intero 2023 ha continuato a comprare microchip proibiti, quasi nella stessa quantità che aveva importato nel 2021 cioè prima di invadere l’Ucraina e di essere soggetta ai divieti. L’embargo viene aggirato attraverso reti di intermediari sparsi nel mondo intero, quasi un terzo si trovano in Cina.
La sola Hong Kong ospita seimila società-paravento, agenzie commerciali che consentono questo tipo di scambi. Altri paesi che si distinguono in queste “triangolazioni” di scambi proibiti, vendendo prodotti occidentali sotto embargo alla Russia, sono Turchia Serbia India e perfino il Canada. Sempre attraverso reti di intermediari che nascondono la natura del commercio o i veri destinatari.
Per chi ricorda la storia dei fallimenti di altri regimi sanzionatori – contro Cuba, la Corea del Nord, l’Iran – non ci sono grandi sorprese. Forse è più sconcertante, dal punto di vista di Washington, il ruolo dell’industria americana. Nel settore dei microchip gli Stati Uniti continuano ad avere delle eccellenze mondiali, capaci di elaborare i prodotti più sofisticati. Però da decenni l’America ha abbracciato una divisione internazionale del lavoro in cui si riserva il ruolo più “pregiato”, che è la progettazione di microchip; mentre delocalizza altrove la loro fabbricazione manifatturiera.
Le stesse multinazionali Usa di questo settore hanno mantenuto in patria molti centri di design ingegneristico, ma poi assemblano in Cina quegli stessi semiconduttori che sono stati progettati nei laboratori della California o del Texas. È così che l’America perde il controllo sulla destinazione dei propri microchip più avanzati. Che finiscono – anche – nei missili russi. L’inchiesta del New York Times fa l’esempio concreto e tragico del missile KH-101 che l’8 luglio colpì un ospedale pediatrico di Kiev. Era pieno di microchip americani, della Intel e di Amd, due giganti del settore. Tutti quei microchip sono soggetti a sanzioni, la loro vendita alla Russia è vietata. Eppure Mosca ne ha importati tanti, anche dopo l’inizio della guerra, per un valore totale di 390 milioni di dollari.
Questi semiconduttori hanno usi duali, sia civili che militari. Servono a elaborare dati alla velocità della luce, a tal fine sono incorporati nei modem per collegamenti Internet, animano i sensori di allarmi anti-incendio, oppure pilotano droni e missili verso i bersagli da distruggere, bambini compresi.
Le rivelazioni del New York Times illuminano un paradosso dell’embargo americano. Due delle principali aziende Usa nei semiconduttori sono Texas Instruments e Micron Technology. La prima ha una fabbrica di chip a Chengdu, capitale del Sichuan: lì assembla fra l’altro quei semiconduttori che sono montati sui droni Shahed e Lancet, «due fra le armi più micidiali che la Russia usa in Ucraina», secondo il reportage. La Micron ha una fabbrica a Xian, l’ex capitale imperiale celebre per l’armata dei “guerrieri di terracotta”. Tutti questi semiconduttori di concezione e progettazione americana, ma assemblati in Cina, vengono venduti a miriadi di aziende locali. Molte ne fanno un uso benigno, incorporandoli dentro prodotti civili. Ma se qualche azienda cinese li rivende ai russi, l’America assiste impotente. Lo viene a sapere ex post, analizzando i frammenti di un missile che ha centrato un ospedale di Kiev.
25 luglio 2024
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