Il rilancio del protezionismo, la fine della tregua Usa-Cina
A San Francisco si diedero la mano, ma ora... La tregua America-Cina, il modus vivendi che si era instaurato dal novembre scorso al summit di San Francisco, sembra destinata a cessare. Non c’entrano Taiwan né l’Iran né l'appoggio di Xi Jinping a Putin in Ucraina o altre tensioni geopolitiche. No, stavolta torna d’attualità la guerra commerciale.
La Cina invade il mondo, ancor più del solito, con esportazioni a basso costo. L’America si protegge alzando nuove barriere. Altri seguono il suo esempio. Tensioni sociali e scadenze elettorali contribuiscono. Pechino reagisce con proteste ufficiali sempre più adirate. Prima di istruire processi a questo o a quello ricordiamoci che la Cina a casa sua ha sempre praticato il protezionismo, sotto tutte le forme possibili e immaginabili.
Per battere Trump, Biden lo copia e rincara la dose
In America c’è chi ha raggiunto questa conclusione: per battere Donald Trump bisogna imitare Donald Trump. Almeno sul tema del protezionismo, Joe Biden si è convinto che deve fare come il suo predecessore, anzi di più. Lo spinge in questa direzione il comportamento della Cina che invade il mercato americano (e mondiale) con esportazioni sottocosto, in dumping, un comportamento con cui Pechino rimedia alla propria sovrapproduzione e alla debolezza dei consumi interni.
Il mondo intero si adegua e adotta metodi cinesi, o americani: i dazi che venivano descritti come una nefandezza quando li metteva Trump, ora li mettono tutti. È di moda anche la politica industriale a base di sussidi statali, altra forma di protezionismo.
Stop contro acciaio e alluminio (poi navi, auto elettriche)
Biden ha lanciato in questi giorni la nuova offensiva contro la Cina, ripartendo proprio da uno dei settori dove Trump aveva messo i suoi dazi doganali: acciaio e alluminio. Biden ha scelto una tournée elettorale – a Pittsburgh nella Pennsylvania degli impianti siderurgici – per annunciare il suo ultimo piano protezionista: vuole alzare le tasse punitive contro le importazioni di alcuni tipi di acciaio e alluminio “made in China” dall’attuale 7,5% (fissato da Trump) fino al 25%. In questo caso si tratta quindi di triplicare i dazi di Trump. Per altre categorie di acciaio e alluminio l’addizionale del 25% voluta da Biden andrebbe a sommarsi a dazi del 25% (acciai) e del 10% (alluminio) già imposti da Trump. In un comizio elettorale Biden ha detto che «queste azioni strategiche e mirate proteggeranno i lavoratori americani e assciureranno una concorrenza equa».
La classe operaia nelle ultime due elezioni del 2016 e del 2020 aveva preferito Trump ai candidati democratici (Hillary Clinton e Biden). La Pennsylvania è uno di quegli Stati in bilico dove lo scarto fra i due candidati è minimo, e quindi piccoli spostamenti di elettori possono designare il vincitore nella corsa alla Casa Bianca il prossimo 5 novembre. La mossa di Biden per adesso viene presentata come una “proposta”, perché formalmente è il suo Trade Representative, Katherine Tai, a dover esaminare tutti gli aspetti tecnici della questione e infine decidere sui dazi in collaborazione con la segretaria al Commercio Gina Raimondo.
Biden non vuole limitarsi ad acciaio e alluminio. La sua Amministrazione sta studiando nuovi dazi anche contro le importazioni di auto elettriche, batterie, pannelli solari: tutti settori dove domina il “made in China”. Biden ha annunciato l’apertura di un’indagine sui cantieri navali cinesi, un altro settore sospettato di concorrenza sleale ai danni della cantieristica statunitense.
Infine il presidente sta facendo pressioni sul Messico affinché eviti di diventare una tappa di transito per gli esportatori cinesi, incluso nel settore dell’acciaio dove si segnalano delle “triangolazioni” sospette (i colossi della siderurgia cinese vendono acciaio a clienti messicani, che lo rivendono a loro volta negli Usa evitando così i dazi).
Così Pechino "trasmette" i suoi problemi al mondo
Quello che sta accadendo nel settore dell’acciaio è indicativo del nesso fra situazione interna dell’economia cinese, e riflessi internazionali. Nella Repubblica Popolare il 25% della produzione di acciaio normalmente viene assorbito da edilizia e grandi opere infrastrutturali (per esempio sotto forma di “tondini” per cemento armato, nei grattacieli, nei ponti, nelle autostrade). Ma il settore immobiliare è da tempo in una grave crisi, le nuove costruzioni ristagnano.
Di conseguenza la sovrapproduzione di acciaio cinese cerca sbocchi al di fuori del paese: le esportazioni l’anno scorso sono cresciute del 33%. La direttrice dei consiglieri economici della Casa Bianca, Lael Brainard (già numero due della Federal Reserve) ha dichiarato: «In settori industriali come l’acciaio, la Cina sta producendo molto più di quanto la Cina stessa e il mondo intero siano in grado di assorbire. I sussidi cinesi e altre forme di sostegno pubblico generano esportazioni che inondano i mercati globali a prezzi artificialmente bassi».
Con il rallentamento della domanda interna cinese e il ristagno dei consumi domestici, si sta riproducendo un’invasione dei mercati esteri che ricorda l’inizio del millennio, oppure il 2015 (altro anno-record per l’export, in particolare siderurgico, anche in quel caso “drogato” per ovviare a difficoltà interne). Se l’economia cinese ha potuto mettere a segno nel primo semestre di quest’anno un risultato superiore alle previsioni – il Pil è cresciuto del 6,6% su base annua – è proprio grazie al boom dell’export.
Gli Stati Uniti non sono la prima vittima, nel settore siderurgico. Anzi, proprio perché protetti dai dazi di Trump, gli Usa ormai comprano dalla Cina appena il 2% dei propri acquisti dall’estero e lo 0,6% dei propri consumi. I più grossi fornitori stranieri sono Canada e Messico. Ma Biden non pratica il protezionismo solo contro i cinesi.
Un gesto contro il Giappone
In un’altra mossa che ricorda Trump, il presidente democratico ha annunciato di voler bloccare l’acquisizione del gruppo siderurgico americano U.S. Steel da parte del giapponese Nippon Steel. In questo caso Biden se la prende con un paese alleato, e se il suo veto viene confermato rinuncia a 1,4 miliardi di dollari di capitali freschi che Nippon Steel investirebbe per modernizzare gli impianti Usa.
La parola finale sul veto contro Nippon Steel spetta ad un organo misto Casa Bianca-Congresso, il Commitee on Foreign Investments in the US (Cfius) presieduto dalla segretaria al Tesoro Janet Yellen. Il Cfius ha per compito quello di vagliare ed eventualmente bloccare investimenti stranieri in settori strategici per la sicurezza nazionale. Pertanto Biden ha dovuto argomentare che il passaggio di U.S. Steel sotto il controllo di un’azienda giapponese è una minaccia alla sicurezza dell’America: argomento specioso e contestato, visto che il Giappone è uno degli alleati più fedeli di Washington (lo stesso Biden lo ha ribadito di recente ospitando il premier nipponico alla Casa Bianca).
L'omertà degli economisti pro-Biden...
Quattro anni fa il protezionismo di Trump veniva denunciato dalla quasi totalità degli economisti come il preludio di un’Apocalisse, oggi il clima è completamente cambiato. Un po’ lo si deve alla faziosità degli esperti, che usano due pesi e due misure a seconda delle loro simpatie politiche (da Joseph Stiglitz a Paul Krugman a Dani Rodrik, una lunga schiera di economisti di sinistra applaudono Biden mentre denunciavano il protezionismo di Trump).
È cambiato anche lo scenario mondiale. Pandemia, aggressione della Russia all’Ucraina, guerra in Medio Oriente, hanno portato in primo piano la sicurezza delle economie nazionali, la necessità di mettere al riparo le catene produttive e di approvvigionamento contro choc geopolitici e potenze ostili.
Qualche voce contro il protezionismo si leva ancora, per esempio in occasione dei meeting di primavera del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale a Washington.
"Così fan tutti": dilaga la politica industriale
Nell’insieme prevale invece la linea del “così fan tutti”, quindi è in atto una gara di emulazione nei protezionismi. Questi non sono fatti soltanto di dazi e tasse doganali punitive. C’è una forma di protezionismo “positivo”, che di solito chiamiamo “politica industriale”: sussidi pubblici, aiuti di Stato, sgravi fiscali, a favore dei campioni nazionali dell’industria, oppure per attrarre gli stranieri a investire sul proprio territorio nazionale.
Biden la pratica alla grande, in particolare con le due leggi chiamate Inflation Reduction Act (Ira) e Chips Act, che distribuiscono qualche centinaio di miliardi a settori strategici come semiconduttori, auto elettriche, batterie, energie rinnovabili. Proprio in queste ultime settimane il suo ministero del Tesoro ha staccato vari assegni a favore di Intel, Tsmc, Samsung, come contributi alla costruzione di fabbriche di microchip sul territorio Usa.
È di moda dire – per semplicità l’ho scritto talvolta anch’io – che in questo modo l’America sta copiando la Cina, sia pure in ritardo, visto che la potenza industriale della Repubblica Popolare è stata costruita in decenni di aiuti pubblici. La precisione storica impone di ricordare che la politica industriale non è stata inventata a Pechino. La praticarono tutti i paesi asiatici protagonisti di “miracoli economici” prima della Cina: Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Singapore. La praticò la Germania. Fecero politica industriale alla grande gli Stati Uniti, per esempio con «l’invenzione della Silicon Valley» quando bisognava armare il paese contro il Giappone dopo Pearl Harbor (1941) o negli anni Sessanta con la corsa allo spazio di John Kennedy.
Stiamo assistendo alla rivalutazione di strategie e modus operandi che erano temporaneamente passati di moda. Dall’Europa alla Corea del Sud al Giappone, tutti i paesi a economia di mercato alleati dell’America stanno adottando politiche industriali ricalcate su quelle di Biden. Nel corso del 2023 sono stati censiti a livello mondiale ben 2.500 provvedimenti di politica industriale, il triplo rispetto a quelli che erano stati varati nel 2019 prima della pandemia.
Prossimo casus belli: TikTok?
Prima di passare al caso europeo, aggiungo in extremis quello che potrebbe diventare il prossimo capitolo del protezionismo Usa, e il prossimo casus belli contro la Cina: TikTok. Era passato in secondo piano, ora torna alla ribalta.
La Camera dei deputati di Washington, nell’approvare una manovra legislativa che contiene aiuti per l’Ucraina e Israele, ci ha infilato pure un articolo che impone la vendita del social TikTok dall’attuale proprietario cinese (la società ByteDance) ad azionisti americani. In mancanza di quel cambio di nazionalità nella sua proprietà, la piattaforma TikTok verrebbe vietata negli Stati Uniti, dove ha 170 milioni di utenti.
Dietro questo provvedimento c’è un allarme per la sicurezza nazionale: il pericolo che TikTok trasferisca al governo cinese l’immensa mole di dati raccolti presso il suo pubblico americano.
Ricordo che su questo dossier Biden è molto più tiepido perché ha paura di inimicarsi alla vigilia delle elezioni il “popolo di TikTok”. Ricordo anche la questione della reciprocità: la Repubblica Popolare ha già messo al bando da molti anni la maggior parte dei social americani. Di recente ha anche ordinato ad Apple di cancellare dal suo app store in Cina le due app di proprietà di Meta (Facebook), Whatsapp e Threads.
21 aprile 2024
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