Putin e l'abbraccio (o stritolamento?) di Xi: cosa comporta una «Russia asiatica»
Cinema, letteratura, musica, cattedrali: il nome di Alexander Nevsky è impresso ovunque nella storia e nella cultura russa. Sant’Alessandro, essendo stato canonizzato dalla chiesa ortodossa. Questo principe medievale oggi viene esaltato dai nazionalisti russi vicini a Vladimir Putin. In una chiave particolare: come un simbolo della «vocazione asiatica» della Russia, in opposizione all’Occidente.
In un momento in cui l’America torna a premere sulla Cina perché cessi di sostenere l’aggressione di Putin in Ucraina (il segretario di Stato Usa Blinken oggi è in visita a Pechino, l’Amministrazione Biden minaccia di sanzionare delle banche cinesi che finanziano la guerra di Mosca), il tema dello scivolamento russo verso Oriente è in primo piano.
L’uso che la propaganda nazionalista fa della figura di Alexander Nevsky è interessante. Nel XIII secolo regnava come principe di Novgorod, uno degli Stati che in seguito avrebbero dato dascita alla Moscovia, precursore della Russia imperiale. Nevsky si trovò a combattere su due fronti, Est e Ovest. Scelse di contrastare il nemico occidentale, cioè i crociati teutonici che venivano dalla Svezia. Per sconfiggerli fece atto di sottomissione verso il nemico orientale, l’invasore mongolo che lo attaccava dall’Asia. Nevsky attraversò l’Asia centrale per recarsi nella capitale dell’Orda d’Oro mongola, e farsi riconoscere lì come principe della Russia. Nella revisione putiniana della storia, i crociati dell’Occidente cristiano volevano distruggere l’identità della Russia ortodossa, mentre i mongoli si accontentavano che Nevsky pagasse un tributo come vassallo.
La lezione: come ai tempi di Nevsky oggi ai russi conviene allearsi con i cinesi, per salvarsi da un Occidente che minaccia il ruolo e l’identità profonda di Mosca. «Tutte balle», commenta uno dei massimi esperti di storia russa, Stephen Kotkin, docente a Stanford e autore fra l’altro di una monumentale biografia di Stalin. È Kotkin ad attirare l’attenzione sul revival nazionalista della figura di Nevsky, in un saggio intitolato «I cinque futuri della Russia» sulla rivista Foreign Affairs. Lui evidenzia la manipolazione del passato. «Ci vollero secoli – scrive – prima che i russi riuscissero a liberarsi da quello che i loro stessi manuali scolastici definiscono il 'giogo mongolo'». Invece la Russia è sopravvissuta a secoli di relazioni con l’Occidente senza mai acquisire un’identità pienamente occidentale, osserva lo stesso Kotkin.
La querelle attorno a Nevsky naturalmente nasconde un tema scottante: se Putin stia trasformando la Russia del XXI secolo in uno Stato-vassallo della Cina, troppo dipendente, in posizione subalterna. Se quindi abbia fatto la scommessa giusta, rompendo con l’Occidente e rivolgendosi a Oriente. Ci ha guadagnato davvero, o a lungo termine pagherà un prezzo troppo elevato? Noi occidentali abbiamo avuto qualche responsabilità, lo abbiamo spinto nelle braccia di Xi Jinping perché non gli abbiamo dato alternative? Come dovremmo comportarci in futuro?
Quando Cina e Russia «divorziarono»
Per rispondere a questi interrogativi è utile ricordare la storia dei rapporti sino-russi risalendo all’inizio degli anni Sessanta: fu allora che le due maggiori potenze comuniste del mondo divorziarono. Mao Zedong e Stalin erano andati d’accordo, almeno in superficie, anche se non mancarono tra loro i dissidi per esempio sulla guerra in Corea. Poco dopo la morte di Stalin (1953), Mao contestò la «destalinizzazione» avviata dai riformisti sovietici come Kruscev nel 1956. Dietro lo scisma ideologico affiorava una rivalità geopolitica, ancora più profonda perché strutturale e ineliminabile, tra le due maggiori potenze terrestri del continente asiatico.
Nel 1969 scoppiò perfino una mini-guerra tra i due eserciti stazionati lungo il fiume Ussuri (in russo) o Wusuli (in mandarino) nella regione settentrionale della Manciuria. Quel breve conflitto lasciò irrisolta una contesa territoriale.
Come ricorda Kotkin, «la Russia rimane l’unica potenza che controlla dei territori strappati all’impero Qing, con quelli che i cinesi considerano dei trattati iniqui». Dopo il limitato conflitto del 1969 Mao temette che l’Urss potesse lanciare un’offensiva ben più seria, addirittura nucleare. Il fondatore della Repubblica Popolare aprì all’America, con una sterzata di politica estera dalle conseguenze enormi. In chiave anti-sovietica avvenne il disgelo con il presidente americano Richard Nixon e la regìa di Henry Kissinger. Il successore di Mao, Deng Xiaoping, fece seguire una svolta perfino più clamorosa, la graduale transizione al capitalismo.
La ricucitura e l'amicizia «senza limiti»
Ma la ricucitura con Mosca avvenne abbastanza presto, fin dal successore di Deng: Jiang Zemin (che da giovane aveva lavorato in un’azienda sovietica) ricominciò a comprare armi da Mosca, contribuendo a resuscitare un’industria sovietica degli armamenti allora moribonda. Dunque Xi ha ereditato una relazione bilaterale con Mosca che si era già ricomposta. Le ha dato uno slancio formidabile proclamando urbi et orbi la sua amicizia personale con Putin. Sulla guerra in Ucraina la linea di Pechino è perfettamente allineata con la giustificazione russa sull’«accerchiamento della Nato»: le uniche colpe stanno a Occidente. Se Putin non avesse alle spalle il colosso economico cinese sarebbe tutto più difficile per lui. Xi ripete a Ovest un gioco praticato a Est da decenni, dove la Repubblica Popolare è felice che la Corea del Nord tenga sotto tensione permanente l’America e i suoi alleati (Corea del Sud, Giappone).
Perché la Russia guarda più a Occidente che a Oriente
Oggi a che punto è il rapporto fra i due paesi? Kotkin ricorda che la Russia resta un paese che guarda a Occidente, molto più che a Oriente. Per quanto possa aver sviluppato rancore e risentimento nei nostri confronti si sente europea, non asiatica. Pochi russi parlano mandarino, sono molto più numerosi gli anglofoni. Da parte loro molti cinesi hanno un complesso di superiorità; e la loro nomenclatura non ha mai perdonato ai russi lo smantellamento del comunismo.
I rapporti economici bilaterali invece sono in pieno boom, in larga parte per effetto delle sanzioni occidentali. Rispetto a dieci anni fa l’interscambio commerciale è più che triplicato balzando da 70 a 230 miliardi di dollari. È un rapporto molto squilibrato. La Cina continua a comprare alcuni armamenti (jet militari) dalla Russia, e materie prime; tuttavia sta attenta a non finire in una situazione di dipendenza come quella che segnò i rapporti tra Europa e Russia fino all’invasione dell’Ucraina. La costruzione di un nuovo gasdotto dalla Siberia alla Cina (attraverso la Mongolia) resta un progetto fermo da decenni. Nel frattempo la Repubblica Popolare con il suo monopolio mondiale su pannelli solari, pale eoliche e batterie elettriche, e con una crescente quota di mercato nella costruzione di centrali nucleari, lavora a indebolire nel lungo termine la rendita energetica russa. Putin pur di vendere gas e petrolio alla Cina è stato costretto ad accettare pagamenti in renminbi, una valuta che può usare solo per comprare prodotti «made in China». È una dipendenza a senso unico.
La «finta neutralità» di Xi
Kotkin osserva che «la Russia non è mai riuscita ad essere una superpotenza se non quando ha avuto forti legami con l’Europa; il suo futuro è a un bivio, da una parte uno spostamento rischioso in un abbraccio cinese più stretto, dall’altra un improbabile ritorno verso l’Europa». Non è una prospettiva favorevole, tanto più che ormai «la sola cosa Russia riesce a esportare oltre a materie prime e violenza, sono i cervelli». Qualcuno a Mosca sogna che scoppi una guerra tra l’America e la Cina, dalla quale finalmente sarebbe la Russia a ricavare benefici geopolitici. Per adesso è solo una speranza, mentre è Xi a trovarsi in quella posizione invidiabile di finta neutralità, in cui lucra molti vantaggi da ambo le parti mentre Occidente e Russia si indeboliscono a vicenda.
Gli scenari di Kotkin (e perché sono importanti)
Kotkin appartiene alla scuola realista. Tra i cinque scenari sul futuro russo che elabora su Foreign Affairs, considera improbabile quello più roseo: una Russia che fa il percorso compiuto da potenze europee ex-imperiali come Francia Inghilterra Germania. Cioè che riesca a «sublimare» l’orgoglio imperiale dentro una vocazione europea cioè multilateralista, come Parigi ha fatto dopo la seconda guerra mondiale e la perdita di Indocina e Algeria. Oppure che riesca a guarire del nazionalismo aggressivo, vittimista e rancoroso com’è riuscito a fare il popolo tedesco. Lo studioso americano consiglia di rassegnarsi allo scenario più verosimile: che anche dopo Putin la Russia abbia una leadership nazionalista. L’importante è convincere questa futura leadership che può arroccarsi a difesa dei suoi interessi senza pagare i prezzi di una lunga ostilità all’Occidente.
La biografia personale di Kotkin è interessante, è tipica di una élite intellettuale americana dove si condensano le memorie storiche di altre parti del mondo. Suo padre era di famiglia ebrea bielorussa, sua madre polacca, quindi tutte le radici dei genitori affondano nell’impero russo. Non ha dubbi nel bocciare la teoria di Putin sull’accerchiamento della Nato come causa scatenante delle aggressioni russe. La liquida con ironia: «Come se un regime autoritario e repressivo che invade i vicini in nome della propria sicurezza fosse una novità inaspettata nella storia russa…». È pertanto sicuro le invasioni «sarebbero avvenute comunque, anche se la Nato non si fosse allargata». L’unica differenza, osserva, è che «senza allargamento sarebbero ancora più numerose le nazioni vulnerabili». Perciò non vede altra strada se non quella di mantenere una pressione coordinata sulla Russia, al tempo stesso offrendo ai suoi leader futuri degli «incentivi ad arroccarsi». Cioè lasciando la Russia in quel limbo in cui esiste da molti secoli: in ammirazione del progresso e benessere occidentali, attratta e invidiosa dell’America e dell’Europa per certi aspetti, ma incapace di diventare una di noi.
I suggerimenti di Kotkin sono intrisi di cautela e scetticismo. Per quanto l’Occidente possa tentare di orientare il futuro di Mosca, lui stesso ammette che la nostra influenza sugli eventi sarà sempre molto limitata. In genere la nostra speranza di indirizzare in questa o quella direzione delle superpotenze autoritaria come Russia e Cina si è rivelata un’illusione. Inoltre non siamo gli unici a giocare in questo gioco. Pechino a sua volta metterà in campo degli incentivi perché la Russia continui a guardare a Est, in condizioni di permanente e strutturale inferiorità. In quanto alle sanzioni che l’America sta minacciando di infliggere contro banche cinesi che aiutano la Russia, non avrei aspettative eccessive sulla loro efficacia. Sappiamo che il sistema di sanzioni contro Putin è un colabrodo. Non riusciamo a garantirne un’applicazione a tenuta stagna neppure da parte dei paesi occidentali.
26 aprile 2024
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