L'imam del Michigan che condanna lo slogan «Morte all'America» nei cortei per Gaza
Un imam del Michigan condanna dei manifestanti della sua comunità di fedeli che gridano «morte all’America» nei cortei filo-palestinesi. Precisa che solo una minoranza ha lanciato quello slogan. E a quella frangia estremista lui oppone un argomento ineccepibile: «L’America siamo anche noi, immigrati da paesi islamici, cittadini degli Stati Uniti e musulmani. Quello slogan di odio è sbagliato e non ha senso».
L’incidente coglie una delle contraddizioni nel cuore delle proteste che agitano l’America. La simpatia per la causa palestinese, l’indignazione per le sofferenze della popolazione civile a Gaza, sono sentimenti sinceri. Si mescolano però con sistematiche aggressioni e minacce contro gli ebrei, bersagli ideali perché considerati «bianchi colonizzatori».
L’antiamericanismo, l’odio per l’Occidente, è la cultura dominante da anni nei campus universitari. Si ricongiunge con un sentimento latente nelle comunità di immigrati arabi: quelli a cui parla l’imam del Michigan. La sua condanna è giusta, ineccepibile, ma non risponde a un interrogativo: perché «morte all’America» è uno slogan gridato da alcuni estremisti musulmani, mentre non è mai stato usato da immigrati italiani, irlandesi, polacchi, cinesi, indiani, vietnamiti?
Quello slogan nasce dalla confluenza di due fenomeni: da una parte l’odio per l’Occidente che è una componente della storia dell’Islam (ma l’intolleranza verso civiltà e sistemi di valori alternativi non è a senso unico: Russia India Cina non sono immuni da tensioni con le loro minoranze musulmane); dall’altra un disprezzo di sé che le élite americane coltivano da tempo, così incoraggiando certe categorie di immigrati a osteggiare il paese che li ha accolti.
L’imam in questione si chiama Mohammad Ali Elahi, il suo intervento è accessibile su YouTube e su FoxNews.
È stato intervistato a proposito di una recente manifestazione pro-Palestina avvenuta a Dearbourne, una cittadina vicina a Detroit che ne condivide la vocazione operaia. Quindi nel cuore della storica capitale dell’industria automobilistica americana. Lo Stato del Michigan e la sua classe operaia sono al centro dell’attenzione in questa campagna elettorale. Oscillando a favore di Joe Biden oppure di Donald Trump il Michigan può essere uno di quei collegi elettorali decisivi nell’assegnare la Casa Bianca il 5 novembre. È anche uno Stato che ospita una grossa comunità di origini arabe e musulmane. Ha visto di recente alcune delle più vaste manifestazioni di solidarietà con i palestinesi di Gaza. Quei cortei si sono rapidamente trasformati in proteste contro Israele e contro l’America che fornisce aiuti militari al governo di Benjamin Netanyahu.
Un autorevole opinionista del New York Times, Nicholas Kristof, ha osservato che «Gaza ormai è diventata la guerra di Biden, il bilancio della sua presidenza e le sue chance di rielezione sono indissolubilmente legate a questo conflitto». Kristof è molto severo, pensa che Biden stia commettendo un errore grave sotto il profilo morale e politico, nel fornire armi che Israele usa contro i civili. Secondo lui Gaza rischia di essere il Vietnam di Biden, una guerra persa nei confronti dell’opinione pubblica interna. Kristof interpreta bene ciò che pensa l’ala sinistra del partito democratico, il mondo dei campus universitari, l’intellighenzia di sinistra (anche se con l’esclusione dell’élite progressista ebraica, sconvolta dall’antisemitismo dilagante).
Il fenomeno di cui si è occupato l’imam Mohammad Ali Elahi è parallelo ma distinto. Parlando ai suoi fedeli che hanno gridato «Death to America» dentro un corteo, l’imam ha detto due cose. La prima: «Io non predico una religione di morte e di odio, io esorto all’amore e alla pace». La seconda: non ha senso invocare la morte dell’America visto che «l’America siamo anche noi, qui vivono ben sette milioni di musulmani». Avrebbe potuto – e dovuto – aggiungere: visto che l’America ci ha accolto nel momento del bisogno, mentre emigravamo da paesi islamici dove regnano povertà corruzione violenza despotismo; l’America ci ha offerto opportunità inesistenti nelle nostre terre di origine; l’America ci ha garantito libertà e diritti calpestati nella maggioranza del mondo islamico.
Questo tipo di gratitudine era normale sentirla espressa nelle comunità degli italo-americani, degli irlandesi-americani, degli ebrei-americani: indico di proposito tre importanti flussi migratori appartenenti a religioni diverse rispetto al ceppo dominante anglo-protestante; tre comunità etniche che all’origine subirono anche razzismo e discriminazioni. Nessuno ricorda però dei cortei dove gli italiani o gli irlandesi o gli ebrei gridassero «Morte all’America».
L’11 settembre 2001 ci furono in alcune parti del mondo islamico delle folle che scesero in piazza per festeggiare il massacro di tremila civili americani innocenti; si distinsero in modo particolare le manifestazioni di gioia tra i palestinesi. In quella fase l’America non stava opprimendo i palestinesi, anzi sotto la presidenza di Bill Clinton si era attivata per dare loro uno Stato; l’America aveva anche mobilitato le sue forze armate per difendere la minoranza musulmana in Bosnia.
L’imam del Michigan dunque ha detto cose giuste ma è rimasto in superficie, non è andato al cuore del problema: perché l’Islam in alcune delle sue versioni storiche (inclusi certi fondamentalismi contemporanei) è stato trasformato in una religione di odio, non di amore e tolleranza; perché quell’odio è pronto a fare proseliti perfino in comunità d’immigrati che hanno realizzato il loro Sogno Americano.
D’altronde i cittadini americani di origine araba e di religione musulmana oggi sono immersi in una cultura locale – laica e secolarizzata – che li incoraggia a odiare l’America. Sul clima ideologico che regna nei campus universitari cedo la parola a un grande intellettuale Black, un accademico afroamericano che può permettersi di affrontare dei tabù. È il noto linguista John McWhorter, docente proprio alla Columbia University di New York, l’epicentro delle proteste pro-Hamas da molti giorni. Secondo McWorther gli scontri in corso tra studenti e polizia sono da inserire in una cultura di «estrema sinistra che sento da decenni nei campus», in lotta «contro quello che chiamano colonialismo e genocidio», cioè in modo generalizzato «contro tutto ciò che appartiene al mondo dei bianchi».
Questa ideologia impone che gli ebrei nelle università debbano sopportare minacce e slogan «che verrebbero immediatamente condannati» in quanto incivili e razzisti se fossero rivolti ai neri. Gli ebrei invece devono subire «perché sono bianchi». «Ciò che era cominciato come una protesta intelligente – conclude McWorther – è diventato furia e aggressione».
Ricordo un dettaglio: questa «furia e aggressione» contro l’America, contro l’Occidente, ha tra i suoi protagonisti di punta dei giovani bianchi, anglo-protestanti, figli di famiglie molto agiate, che in questi riti cercano di «espiare» le colpe vere o presunte delle propria nazione e della propria civiltà. Questa è l’altra spiegazione del fenomeno «Morte all’America».
Gli italiani emigrati negli Stati Uniti ai tempi del fascismo talvolta erano dei simpatizzanti di Mussolini. Se lo erano ancora quando l’America entrò in guerra contro i nazifascismi nel 1941, si guardavano bene dall’esternare ostilità al paese in cui vivevano. Alcuni di loro peraltro furono internati in appositi campi di detenzione (come i giapponesi-americani) perché sospettati a priori d’intesa col nemico. Subirono abusi e ingiustizie durante la guerra. In seguito l’Ameria riconobbe i propri torti per quegli episodi di indegna discriminazione. Nondimeno nella comunità italo-americana o irlandese-americana si è consolidato un patriottismo e un amore per gli Stati Uniti, dimostrati nei fatti dai tanti militari caduti al fronte.
Oggi siamo in un’epoca rovesciata: «Morte all’America» è uno slogan condannato in modo netto dall’imam del Michigan, ma incoraggiato da una parte della società statunitense, convinta che gli immigrati abbiano il diritto-dovere di odiare il paese che li ha accolti.
25 aprile 2024, 19:01 - modifica il 25 aprile 2024 | 19:02
© RIPRODUZIONE RISERVATA
