Auto elettrica, chip, energia: tre focolai di crisi future
Auto elettrica già al tramonto. Un eccesso di produzione di semiconduttori. Uno shock energetico collegato (un po’ anche) all’intelligenza artificiale. Scrutando l’orizzonte questi sono tre focolai di crisi potenziali. Tutti attinenti a geo-economia e tecnologia, quindi ben distinti dalle guerre che occupano la nostra attenzione.
L’auto a batteria, il suo avvenire radioso sembra averlo dietro le spalle. La crisi della Tesla fa scalpore perché tutto ciò che riguarda Elon Musk eccita il pubblico. Ma dietro la Tesla sta preparandosi un’ecatombe di marche meno note, più piccole, che fino a poco tempo fa erano coccolate dagli investitori e dalla Borsa. Le ragioni per cui i consumatori tradizionali, il ceto medio-basso, e perfino gli ambientalisti si rivoltano contro l’auto elettrica sono note. Dall’inefficienza ai costi, all’impatto ambientale vero.
Quindi questo business per espandersi e guadagnare quote di mercato avrà bisogno di un fiume di aiuti governativi, e di tanta innovazione. Per adesso queste due condizioni sembrano garantite pienamente solo in Cina. In quanto a innovazione, vedi per esempio il sistema di sostituzione di batterie nelle stazioni di servizio, invece della lunga attesa per la ricarica alle colonnine. Può permetterselo un paese che si è conquistato il monopolio delle batterie, con l’azienda Catl. Pechino ha una strategia di dominio planetario del settore e quindi può darsi che continuerà a pompare sussidi di Stato all’infinito. Il resto del mondo? È improbabile che voglia o possa inseguire la Cina su questa strada. Elezioni aiutando, l’obbligo di abbandonare i motori a combustione entro il 2035 sarà soggetto a revisioni sulle due sponde dell’Atlantico (o su quella del Pacifico, visto che negli Usa è la California ad avere il piano più drastico).

Auto Tesla (Afp)
Quali scenari realistici per Europa e America, se il sogno di «elettrificazione totale» si dimostra irrealizzabile in tempi brevi? La finanza di Wall Street si pente di avere abbracciato l’ambientalismo radicale con la moda degli investimenti Esg (Environmental, social, governance). La più grande banca americana, JPMorgan, nel suo ultimo rapporto sulle energie rinnovabili invita a fare «un confronto con la realtà». La sua conclusione è dura: «Ci vorranno decenni, o intere generazioni», per arrivare a una sostituzione totale delle energie fossili, ammesso che questo sia possibile.
Poiché non vogliamo e non dobbiamo rinunciare a mitigare gli effetti del cambiamento climatico, le alternative realistiche sono un mix di queste opzioni. Primo, più auto ibride (riducono comunque le emissioni, non hanno inconvenienti e limitazioni delle elettriche), infatti il mercato sta già tornando a preferire questi modelli. Secondo: riabilitazione e rilancio del nucleare, cosa che diversi paesi stanno già facendo, perché azzerra le emissioni ed è molto meno pericoloso di quanto si creda, soprattutto le nuove generazioni di reattori. Terzo: investire nell’idrogeno verde e sperare che un giorno sia praticabile su vasta scala come carburante per auto e camion.
Quarto: sperimentare le tecnologie di «cattura del carbone» e geo-ingegneria, riscattandole dall’ostilità degli ambientalisti radicali (le odiano perché loro sono pregiudizialmente contrari a tutto ciò che può salvare lo sviluppo economico). Queste ultime continuano a fare progressi, ivi compreso nelle soluzioni per la «schermatura» dell’atmosfera contro i raggi solari, ma tutto avviene quasi nella clandestinità per non urtare la suscettibilità dei Verdi. In conclusione, la corsa verso un’economia de-carbonizzata continua, però sarà meno veloce e imboccherà strade diverse.
Vengo ai semiconduttori, ormai più ubiqui ed essenziali di petrolio e gas. È un mercato che ha raggiunto i 500 miliardi di dollari di vendite all’anno, benché siano oggetti quasi invisibili all’occhio nudo, sia perché minuscoli, sia perché nascosti e contenuti dentro altri oggetti (cioè tutti gli apparecchi e macchine che funzionano solo grazie alla loro memoria, intelligenza, connettività). Anche qui è in atto una corsa, di tipo diverso: verso l’infinitamente piccolo. La nuova frontiera dell’innovazione è la miniaturizzazione che consente di aumentare la potenza. Siamo scesi fino ai «2 nano-metri», i campioni mondiali si cimentano con questa dimensione microscopica che consente di impacchettare il massimo di potenza in oggetti ultra-piccoli, ultra-leggeri. Un’altra strada percorsa dai giganti del settore consiste nell’accatastare (perdonate il linguaggio da non esperto) strati sottilissimi di «memorie», fogli quasi trasparenti talmente sono esili, eppure pieni di chips, che tra loro sono collegati da fili: qualcuno li paragona ad acsensori che trasportano libri da un piano all’altro di una maxi-biblioteca. Con la differenza che in questa biblioteca digitale tutto è in miniatura e in leggerezza.
Dopo le paure create dalla pandemia, dalla guerra in Ucraina, dalle prepotenze cinesi contro Taiwan, tutti cercano di prodursi in casa propria i microchip. Costa caro. L’America ha già staccato così tanti assegni per aiuti di Stato ai big del settore – la taiwanese Tsmc, la coreana Samsung, la californiana Intel – che i fondi pubblici della legge Chips Act (50 miliardi) saranno presto esauriti. Poi è possibile che quella legge venga rifinanziata, o sostituita da un’altra ugualmente generosa: democratici e repubblicani concordano che bisogna battere la Cina, e non dipendere troppo da Taiwan o dalla Corea. Un margine d’incertezza sui finanziamenti futuri rimarrà. È stato stimato che per diventare veramente autosufficienti nei semiconduttori gli Stati Uniti dovrebbero investire un trilione, mille miliardi. Le decine di miliardi finora versate come aiuti di Stato sono l’oliva nell’aperitivo, il grosso del pasto deve ancora arrivare, il conto pure.
Peggio sta l’Europa, le cui risorse finanziarie non possono competere con quelle americane. E ancora non abbiamo sbattuto contro la crisi di sovrapproduzione, pressoché inevitabile. Il settore dei semiconduttori – come tanti altri in un’economia capitalistica – è abbonato a queste crisi cicliche. Quando c’è penuria di microchip e la domanda sale, le imprese investono in nuove fabbriche. A un certo punto producono troppo, i prezzi scendono, i bilanci aziendali soffrono, qualcuno fallisce. Gli aiuti di Stato diventano ancora più essenziali alla sopravvivenza, quando arriva quel tipo di crisi. Che arrivi è assai probabile, visto che tutti stanno sovvenzionando la costruzione di nuove fabbriche: America, Cina, Giappone, Europa.
Torno sulla questione energetica perché una delle ragioni dietro l’escalation nella costruzione di nuove fabbriche per microchip, è la previsione di una domanda crescente di questi semiconduttori legata all’intelligenza artificiale (A.I., uso l’acronimo inglese). Se continua il boom dell’A.I., non è destinato a crescere solo il consumo di componenti come i microchip. Anche i consumi energetici saliranno. I chatbot, l’intelligenza «generativa» di OpenAI (l’azienda dietro ChatGPT) e dei concorrenti, hanno bisogno di elettricità. Nell’ultimo decennio i centri dati del cloud-computing che fanno capo a giganti come Alphabet-Google, Amazon, Microsoft, hanno consumato al massimo il 2% della domanda globale di energia. In futuro? O i loro microchip diventano incredibilmente più efficienti e quindi meno energivori, oppure questa sarà una nuova domanda di energia da soddisfare. Guarda caso, Amazon ha investito in un centro dati alimentato da energia nucleare. E Sam Altman, il giovane fondatore di OpenAI, ha investito in un’azienda (Helion) che si occupa di fusione nucleare.
Concludo come sono partito. Il mondo dell’energia sembra sul punto di imboccare strade molto diverse da quel Paradiso eolico-solare di cui si vagheggiava pochi anni fa. L’auto elettrica è nei guai. Il campo di battaglia dei semi-conduttori si sta affollando troppo.
22 aprile 2024, 08:31 - modifica il 22 aprile 2024 | 09:02
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