Regno Unito: il trionfo di Keir Starmer, l'uomo che non fa promesse e vuole cambiare il Paese
Il leader laburista si trasferirà al numero 10 di Downing Street. Ora inizia la sfida più difficile: risollevare il Paese
DAL NOSTRO INVIATO
LONDRA — Alle nove della sera, Juliet sta ancora distribuendo adesivi con la scritta «Change». Manca un’ora alla chiusura dei seggi. L’anziana signora dai capelli bianchi e la coccarda rossa del Labour appuntata sulla camicia è qui dal mattino presto. Davanti a una profumeria diventata seggio elettorale per un sol giorno. «Pensavo che non avrei mai più vissuto un giorno così. Quattordici anni sono tanti, non solo per una persona della mia età».
Marchmont Street è una strada alberata nel quartiere di Camden, al centro del collegio di Lord Keir Starmer, il nuovo primo ministro del Regno Unito. «Certo che lo conosco bene. La sua qualità migliore? A differenza di chi l’ha preceduto, da Ed Miliband a Jeremy Corbyn, non fa promesse che sa di non poter mantenere. Anzi, a essere sinceri, non ne fa proprio». Juliet ci rivolge uno sguardo eloquente. E rivolge lo sguardo all’interno del piccolo locale, al centro del quale campeggiano tre cabine. Sarà la particolarità del luogo, un negozio che vende essenze naturali e confeziona piatti biologici, ma per definire l’uomo che ha riportato la sinistra al potere, le viene in mente una immagine non troppo lusinghiera. «Insomma, il nostro Lord Keir non è molto più saporito di un brodo vegetale».
Le celebrazioni laburiste cominciano poco dopo la diffusione di exit poll mai così definitivi nello scarto numerico. In una Trafalgar Square ancora piena di turisti, qualche auto comincia a suonare il clacson. Un gruppo di giovani universitari posa sulla testa di un leone bronzeo uno striscione bianco con la scritta «Change», lo slogan diventato il più forte messaggio del Labour. Cambiare, quasi non importa come, ma cambiare. Chiudendo così «gli anni spezzati» dell’epoca Tory, il periodo 2010-2024, cominciato con la suggestione della «Big society» da sovrapporre all’immagine della «Cool Britannia» di Tony Blair, e finito con una dissoluzione dei Conservatori che sfiora l’eutanasia.
«Prima il Paese, poi il partito». Anche in una sera del genere, un anticipo di festa perché solo oggi pomeriggio ci sarà l’ufficialità del cambio di stagione, Keir Starmer non esce da una rigidità che sembra diventata il suo canone abituale. «Siamo pronti per governare», ha detto finalmente agli sgoccioli di una campagna elettorale senza storia, come un allenatore di calcio che non nomina la parola scudetto solo dopo la certezza matematica di averlo vinto.
«Non sarà facile, perché il Regno Unito è davvero in cattivo stato. Ma dopo tutti questi anni, non farsi trovare preparati sarebbe imperdonabile».
Davanti alla Royal Albert Hall, che fu teatro della grande festa del 1997, risuona il tormentone di Things can only get better. La canzone che divenne simbolo del blairismo, scritta nel lontano 1993, è tornata d’attualità in queste sei settimane di comizi e di incontri in giro per il Paese. Keir Starmer non ha un «suo» inno. In una recente intervista, ha dichiarato di non avere neppure un libro o una poesia preferita, e di non aver mai sognato in vita sua. La maggiore qualità che gli viene riconosciuta è una forte etica del lavoro. Quand’era un giovane avvocato, una volta si immerse così tanto nello studio di una pratica da non accorgersi dei ladri che intanto gli stavano svaligiando la casa dove si trovava.
«Anche se dopo quel che hanno combinato i Tories si trattava di una vittoria inevitabile, è bello lo stesso». I volontari in maglietta rossa che risalgono Oxford Street non fanno proseliti tra i passanti. Intorno a loro, è business as usual. L’eccitazione generale del 1997 sembra appartenere a un altro pianeta. Forse Keir Starmer è il leader giusto per un Paese che si sente tradito dalla politica e da tempo non ripone più aspettative su sé stesso. Un Paese dove in dieci anni il numero di persone costrette ad affidarsi alle cosiddette Banche del cibo è salito da 40 mila a 3 milioni. La sua cautela, la sua refrattarietà agli slogan, esemplificata dallo scarno «Change» che si è scelto di persona, cassando le idee più creative dei suoi consiglieri, fanno parte di un atteggiamento volutamente minimalista. Come fosse l’unica cura possibile. La stampa vicina ai Tories lo chiama «Keir il molle». Ma quand’era Procuratore generale per l’Inghilterra e per il Galles, si fece notare per la durezza con la quale trattava i casi di rivolta nelle strade. Il famoso «legge e ordine» di Blair come antidoto agli anni sregolati di Jeremy Corbyn. E una volta segretario, non ha fatto sconti alla sinistra radicale del partito e agli elementi in odore di antisemitismo, compreso il suo predecessore.
Se fosse italiano, lo definiremmo un riformista, un esponente della sinistra di governo. È arrivato tardi alla politica e non lo ha fatto certo per stare all’opposizione.
Nel 2021, dopo l’ennesimo rovescio, la sconfitta nell’elezione suppletiva nel collegio operaio di Hartpool, stava per tornare agli amati codici. «Non capisco cosa ci sto a fare qui. Odio fare questo lavoro». Fu la moglie Vittoria, l’anima di sinistra della coppia, a impedirgli di scrivere la lettera di dimissioni. Negli ultimi giorni, consapevole del fatto che i toni bassi possono risultare soporiferi e allontanare dalle urne, Starmer ha cercato di darsi un profilo più fascinoso, da vero uomo di potere, cedendo a scelte di immagine come quella di abbandonare l’auto per i viaggi al nord, e di utilizzare lo stesso jet privato che ha portato in Germania la nazionale di calcio inglese. Sempre all’insegna del «Change». Ma adesso che il Regno Unito ha cambiato per davvero, comincia la parte difficile.