L'America tenta un divorzio «storico» da Israele. Ci riuscirà?

L’America ci riprova: a “sganciarsi” da Israele. L’evidente divergenza tra l’Amministrazione Biden e il governo Netanyahu – in particolare sulla necessit� di creare uno Stato palestinese – pu� preludere a un cambiamento sostanziale nella politica estera americana: l’allentamento di un rapporto unico nella storia, un’alleanza cos� stretta da superare perfino il rapporto con gli alleati atlantici della Nato, Regno Unito incluso.

L’asse fra Stati Uniti e Israele oggi viene contestato pi� che mai, da diverse constituency americane: nei campus universitari, nella comunit� black, tra gli immigrati arabi, e da parte di tanti funzionari federali di ogni livello che hanno aderito alle recenti petizioni su Gaza.

Un parziale “decoupling” fra l’America e Israele non significa certo una rottura totale (impensabile), per molti aspetti l’alleanza resterebbe in piedi, diventerebbe per� un rapporto pi� normale, pi� simile a quello che Washington ha con altre nazioni amiche e alleate. Sarebbe una novit� gigantesca e al tempo stesso un ritorno alle origini.

I primi presidenti a governare gli Stati Uniti dopo la nascita dello Stato d’Israele, il democratico Harry Truman e il repubblicano Dwight Eisenhower, mantennero una certa equidistanza fra la difesa della nuova nazione e gli interessi del mondo arabo (vedi l’intervento “a gamba tesa” di Eisenhower nel 1956 per stoppare l’offensiva anglo-franco-israeliana contro l’Egitto di Nasser). Le cose cominciarono a cambiare sotto John Kennedy, ma fu con Lyndon Johnson che l’allineamento divenne la regola, durante e dopo la “guerra dei sei giorni” (1967). Dei tentativi di rendere la politica estera americana pi� autonoma da Israele ci furono sotto Jimmy Carter e Bill Clinton; ma l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 e la “guerra al terrore” dichiarata da George W. Bush portarono nuovamente a rinsaldare quell’alleanza.

Dal punto di vista dei suoi fondamenti teorici, il tentativo pi� sistematico di contestare l’asse America-Israele risale a un grande esponente della “scuola realista” in geopolitica, John Mearsheimer. Lo definirei, per semplificare, un allievo di Henry Kissinger spostato pi� a destra. Mearsheimer non � una “colomba”, non contesta il legame con Israele su basi pacifiste. � un realista estremo, favorevole a una politica estera che corrisponda ai veri interessi vitali degli Stati Uniti: la sicurezza, la libert� e la prosperit� della nazione americana. Non � per forza un isolazionista, anche se le sue analisi possono portare a ridimensionare drasticamente gli impegni internazionali degli Stati Uniti. � dagli anni Ottanta che lui sviluppa il suo pensiero realista e conservatore, per lo pi� controcorrente, autorevole ma inascoltato; oggi sta tornando di moda con il vento isolazionista che soffia sull’America.

Un classico molto controverso di Mearsheimer, scritto a due mani con Stephen Walt, fu “La lobby israeliana e la politica estera degli Usa”. Un primo articolo su quel tema gli fu commissionato pochi anni dopo l’11 settembre dalla rivista progressista The Atlantic, che poi si rifiut� di pubblicarlo. Usc� in seguito sulla London Review of Books nel 2006. Immediatamente fu subissato di critiche, e accusato di antisemitismo. Anche per rispondere a quelle critiche, Mearsheimer e Waltz lo svilupparono in un libro, pubblicato nel 2007. � una lettura interessante ancora oggi, malgrado tutto quel che � cambiato sia in America che in Medio Oriente.

Nel caso di quell’opera classica di Mearsheimer e Walt, per�, l’accusa di antisemitismo � infondata. Tanto per cominciare, la loro definizione della “lobby ebraica” non ha nulla di etnico. Non descrive una lobby di ebrei, bens� una serie di gruppi e organizzazioni americane dove figurano anche tanti non ebrei, uniti da una certa visione del ruolo d’Israele e quindi della necessit� di sostenere questo Stato in maniera pressoch� incondizionata. Della “lobby ebraica” di Mearsheimer-Walt fanno parte, per esempio, molti cristiani evangelici, che hanno una loro motivazione biblica per sostenere il sionismo. Viceversa una parte cospicua della comunit� di ebrei americani � su posizione critiche sia verso Israele sia verso l’appoggio incondizionato che riceve da Washington. In questo senso la “lobby ebraica” nell’accezione di Mearsheimer-Walt � una classica lobby, non dissimile da quella delle armi, o da quella dell’anti-razzismo, o di quella Lgbtq; anzi perfino pi� diversificata e composita al suo interno. La sua natura, la sua organizzazione e il suo modo di agire sono per lo pi� trasparenti, alla luce del sole, come per la maggior parte delle lobby nel sistema politico americano: nessuna congiura, nessun complotto segreto.

La critica di Mearsheimer � molto articolata, ne ricordo un solo aspetto. � l’aggettivo “incondizionale” che ricorre nel caratterizzare l’appoggio americano a Israele. Nessun altro paese al mondo riceve da Washington una quantit� di aiuti lontanamente paragonabile. E si tratta di aiuti che gli Stati Uniti non sottopongono a condizioni nel vero senso di questa parola. Dagli anni Settanta in poi, non c’� mai stata un’Amministrazione Usa che abbia saputo o voluto utilizzare quegli aiuti come una leva, per piegare i governi israeliani alla propria volont�. Anche quando dei governi israeliani hanno fatto il contrario di quel che voleva Washington (per esempio sugli insediamenti illegali di coloni), gli aiuti hanno continuato ad arrivare. In questo senso l’appoggio a Israele non obbedisce a una regola fondamentale del realismo politico: una nazione deve condurre la politica estera in modo tale da difendere e promuovere i propri interessi. L’America secondo Mearsheimer ha sacrificato molti dei suoi interessi in Medio Oriente, si � alienata molte simpatie nel mondo arabo e anche in altre parti del Sud globale, senza ottenere in cambio dei benefici adeguati.

Sorvolo per brevit� sugli altri argomenti usati in quel classico saggio del 2007: la contestazione dell’asse privilegiato Usa-Israele in base a motivi morali, alla comunanza di valori democratici, o alla necessit� di lottare insieme contro il terrorismo. In tutti questi casi Mearsheimer riconosce al tempo stesso una validit� agli argomenti, ma li contesta in quanto parziali oppure superati. Per esempio non contesta certo il peso enorme e incancellabile dell’Olocausto, n� mette in discussione il diritto all’esistenza dello Stato d’Israele; per� sostiene che rispetto alle origini nel 1948 oggi Israele � una ricca potenza in grado di difendersi, non ha bisogno del sostegno illimitato e incondizionato dell’America.

Sulla credibilit� dell’America come “superpotenza etica”, portatrice di valori democratici, o sulla lotta al terrorismo, ritiene che l’aver dato spesso carta bianca ai governi di Tel Aviv non abbia giovato agli interessi degli Stati Uniti. Peraltro in quell’analisi del 2007 gi� abbondavano esempi in cui Israele si comportava in modo ben pi� disinvolto e spregiudicato nell’utilizzo della relazione speciale con gli Stati Uniti (vedi i casi-limite di spionaggio e cessione di tecnologie militari Usa alla Cina). Negli ultimi anni i flirt diplomatici tra Benjamin Netanyahu e Vladimir Putin o Xi Jinping hanno accentuato questa asimmetria: il suo governo si sente molto meno vincolato dall’alleanza con l’America, di quanto l’America lo sia a lui.

Non abbraccio tutte le tesi di Mearsheimer-Walt: 14 anni dopo certi loro giudizi appaiono troppo indulgenti verso la leadership palestinese, verso Hamas e Hezbollah, verso l’Iran. Quel saggio serve per� a ricordare che esiste da tempo una corrente di pensiero critica, revisionista, alla ricerca di un profondo riesame nei rapporti tra America e Israele. Con Netanyahu abbiamo avuto pi� volte la sensazione che la corda sia stata tirata troppo, fino a rischiare di spezzarsi. Quando Netanyahu venne negli Stati Uniti a fomentare il Congresso a maggioranza repubblicana contro Barack Obama, i rapporti con la Casa Bianca precipitarono molto in basso. Ma poi la presidenza Obama fu accusata – a ragione – di avere collezionato errori disastrosi in Medio Oriente. Con Donald Trump alla Casa Bianca, Netanyahu ritrov� un alleato di ferro.

Adesso siamo in una congiuntura nuova. Il livello di insoddisfazione verso l’asse America-Israele � ai massimi e attraversa delle constituency molto diverse – l’elettorato giovanile, quello afroamericano, l’immigrazione araba, pi� un pezzo di establishment e di corpo diplomatico – e forse Biden rischia perfino di giocarsi le elezioni su Gaza. Perci� le grandi manovre del suo segretario di Stato Antony Blinken in Medio Oriente, l’emergere di un asse Washington-Riad, stanno a significare che l’aggettivo “incondizionato” potrebbe cessare di applicarsi alla relazione speciale con Israele.

7 febbraio 2024, 17:16 - modifica il 7 febbraio 2024 | 17:16

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