Gaza, tre sorelle e il racconto della diaspora (con un granello di pace via Zoom)

di Paolo Giordano

Il corpo nero è una scatola che assorbe tutta la luce che la colpisce, senza rifletterla. Affrontare Gaza mi sembrava così: impossibile. Allora ho cominciato dalle persone che da lì sono fuggite: Haneen è in Portogallo, ha lasciato la Striscia nel 2019. Shereen e Fatima sono da poco in Egitto. Con noi su Zoom c’è anche Liel, israeliano che sta in Italia e ha reso possibile questo incontro

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Una donna tra le macerie della sua casa dopo un bombardamento su Gaza City (Afp)

Sullo schermo Haneen compare in vestiti sportivi, mentre Shereen e Fatima indossano abiti tradizionali. Non ho idea se sia per sensibilità diverse, o perché Haneen si trova in Portogallo e le sorelle in Egitto, o ancora se riguarda il loro occupare punti diversi sulla linea temporale della diaspora. Non glielo chiedo neppure. Chiedo invece a Haneen se dopo il 7 ottobre ha avuto contatti con le persone in Israele che nel 2019, quando aveva venticinque anni, l’aiutarono a uscire da Gaza e lei risponde di sì, ma d’un tratto è reticente. «Si sono distanziate, dice. E mi sono distanziata anch’io. Soprattutto dal giorno in cui mio cugino Kayed e la sua famiglia sono stati uccisi. Era dicembre. Stavo facendo la spesa al supermercato. La sera avrei partecipato a una cerimonia collettiva di guarigione dal trauma e mi ero offerta di cucinare per il gruppo. Mi trovavo davanti a uno scaffale quando ho ricevuto da mia sorella la notizia che Kayed e la sua famiglia, compresa la moglie e sette dei loro nove figli, erano stati uccisi da una bomba israeliana. C’era anche un video. Sono rimasta davanti allo scaffale a lungo, forse un’ora, senza reagire, finché una commessa mi ha chiesto se avevo bisogno di qualcosa e io ho risposto: il riso. Poi ho pagato e sono uscita. La sera ho deciso di partecipare lo stesso alla cerimonia, perché non sapevo cosa fare del mio corpo. In una visione, quella notte, Kayed è venuto a cercarmi». 

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Una bambina piange sotto choc dopo l'attacco israeliano del 3 agosto a nord di Gaza City (Afp)

Gaza è come un «corpo nero»

Nei mesi scorsi ho ripensato spesso a un’espressione della fisica: «corpo nero». Il corpo nero è una scatola che assorbe tutta la luce che la colpisce, senza rifletterla nemmeno in parte. Affrontare Gaza mi sembrava così: impossibile quanto indagare un corpo nero. Anche solo iniziare un ragionamento era al di sopra delle mie forze. Ho aspettato, ma l’attesa è diventata molto lunga. Da un certo punto in avanti la difficoltà di districarmi nel dibattito ha iniziato a sembrarmi una cautela eccessiva. Poi la cautela ha iniziato a sembrarmi reticenza. Infine la reticenza è diventata sempre più simile a una mancata responsabilità, se non addirittura a una colpa. Allora ho pensato di iniziare dalle persone che sono sfuggite alla scatola che trattiene tutto, come Haneen prima, come Shereen e Fatima di recente. È in corso una diaspora di gazawi, di sopravvissuti e sopravvissute, e forse sono loro il nostro segnale più diretto dal corpo nero.

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In esilio 

Nella riunione Zoom, insieme a noi, c’è una quinta persona. Liel è israeliano, con padre libico e madre italiana. Forse farà arrabbiare qualcuno, ma questo incontro è possibile grazie alla sua intercessione. Dopo anni di lavoro nella cooperazione tra Israele e Palestina, Liel si trova in Italia, anche lui in una specie di esilio di cui non intravede la fine. Pochi giorni fa è stato pubblicato uno studio di Airways, secondo cui i numeri delle vittime palestinesi nei primi giorni di guerra — forniti dal ministero della Sanità di Gaza presieduto da Hamas, e quindi considerati sospetti — sarebbero invece attendibili. Circa settemila vittime in diciassette giorni. Oltre quattrocento al giorno. Fra cui la prima vittima nella famiglia delle sorelle. La mattina del 7 ottobre Shereen, a Gaza, stava facendo la raccolta delle olive insieme a zii e cugini. Casa sua è molto vicino al confine con Israele, quindi hanno visto i razzi in cielo. È stato chiaro subito che era diverso dalle altre volte. Le zie sono partite verso Deir al Balah, mentre Shereen ha resistito fino a quando è stata bombardata la casa accanto. Le hanno detto che era questione di minuti. Lavorava da remoto come traduttrice, dall’arabo all’inglese e viceversa, perciò quando si è trovata a scegliere in pochi minuti cosa prendere con sé, ha afferrato i documenti e il laptop: «Ci avevo messo due anni a pagarlo». Sono partiti in nove, i combattenti hanno raccomandato di camminare a coppie, non in gruppo, altrimenti sarebbero diventati un target. «C’erano molti ulivi nella nostra zona, tutti piantati prima del 1948, spesso i nostri militari si nascondevano lì. Ora non c’è più nemmeno un albero». 
La maggior parte delle persone erano già fuggite perciò il luogo appariva spettrale. Shereen ha visto molte bombe cadere. Ahmed, il marito di Fatima, li ha raggiunti in macchina e caricati tutti. «Non so come ci siamo stati, in dieci». Una settimana dopo hanno raggiunto Deir al Balah. La casa della zia era esposta al cielo nella parte centrale, mentre le stanze attorno avevano una copertura di lamiera. Quando un bombardamento ha distrutto le stanze, gli uomini ne hanno rimessa in sesto solo una. Shereen, le altre donne e i bambini dormivano in un edificio un po’ distante. Ci andavano la sera e all’alba tornavano dagli uomini, per passare la giornata nella zona scoperta, anche se era inverno, pioveva molto e faceva freddo. 

Una mela per sei
Durante uno di quei tragitti esposti all’artiglieria una zia di Shereen è stata colpita da una scheggia. Rischiava la paralisi. La madre di Shereen l’ha portata prima all’ospedale di Deir al Balah, dove non sono riusciti a curarla, poi a quello di Khan Younis. Sono state via più di due settimane. Shereen e le altre, intanto, passavano quasi tutto il loro tempo a trasportare acqua. «Non abbiamo visto frutta per cinque mesi. Quando hanno aperto il valico di Rafah e sono arrivati i primi aiuti, abbiamo diviso una mela in sei». Si lavavano in un secchio una volta alla settimana. «I primi giorni in Egitto, mi dice, ero scioccata dall’acqua corrente». 

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Ancora missili

Alla fine della conversazione scopriremo che nel frattempo dei missili israeliani hanno colpito una scuola proprio a Deir al Balah: almeno trenta vittime, fra cui un bambino. L’Idf ha rivendicato l’attacco con la motivazione usuale: la scuola dove i palestinesi erano rifugiati nascondeva un deposito di armi. Qualche ora più tardi, lo stesso giorno, sabato 27 luglio, un missile lanciato da Hezbollah colpirà un campo da calcio sulle alture del Golan, uccidendo dodici bambini drusi (La settimana successiva sarà incalzante: le torture nella prigione di Sde Teiman e gli scontri in Israele, l’uccisione di Haniyeh, l’attesa della rappresaglia iraniana). Ma noi non lo sappiamo ancora mentre ci congediamo, mentre lasciamo questo punto virtuale, sospeso fra Portogallo ed Egitto, fra Italia e Palestina, con la sensazione effimera di aver trovato un granello minuscolo, anzi microscopico, di processo di pace.

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5 agosto 2024 2024 ( modifica il 7 agosto 2024 2024 | 16:20)

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