La country music spiega l'America trumpiana: diario da Nashville

Mancano poche ore al primo duello televisivo tra Joe Biden e Donald Trump. So di dover affrontare un sentimento di “disbelief” – sconcerto, stupefazione, incredulità, sgomento? – tra molti europei. Com’è possibile che siamo ancora a questo punto, a un remake del 2020, tra due vegliardi ampiamenti sfiduciati e screditati? Uno dei quali è ormai a tutti gli effetti un pregiudicato, condannato da un tribunale del suo paese per un reato? La costernazione degli europei, condivisa peraltro da molti americani, si concentra in prevalenza sull’elettorato di destra. Come può la metà (circa) degli americani apprestarsi a votare per un figuro come Trump?

Per sforzarsi di capire quella metà (o quasi) di America, un esercizio che consiglio è a base di country music. Ho fatto di recente una immersione istruttiva in quella musica e nel suo pubblico, andando a Nashville nel Tennessee, per il festival annuo più importante di quel genere: il Country Music Award Fest o Cma. Premetto che non sono un esperto di country music, la mia “colonna sonora americana” da ragazzo seguì percorsi diversi e prevedibili: Pete Seeger, Bob Dylan e Joan Baez, i Beach Boys, il canadese Leonard Cohen, Simon & Garfunkel, più tantissima musica black da Louis Armstrong a Ella Fitzgerald, Harry Belafonte, Aretha Franklin, Mahalia Jackson.

Sulla country music ebbi solo una iniziazione particolare: il cult-movie Nashville di Robert Altman (1975) per lo più la sfotteva. Girato proprio durante il festival nel Tennessee, Nashville usava il raduno dei fan del genere country per mettere in scena una parodia grottesca e caricaturale dell’America. Un affresco distopico: una nazione di squilibrati ossessionati dalla ricerca della celebrità. È un film che ho voluto rivedere. È invecchiato male, con l’eccezione delle splendide canzoni di Keith Carradine (I’m easy).

In seguito sulla country music avevo assorbito alcuni stereotipi, semplici e categorici: è un genere rozzo e ingenuo, piace a un’America bianca, rurale, conservatrice, religiosa, e razzista. È la musica tipica degli elettori di Trump, insomma (anche se lui personalmente, newyorchese “esploso” negli anni Settanta e Ottanta, è figlio di tutt’altro ambiente).

Gli stessi stereotipi si applicano del resto allo Stato del Tennessee, epicentro di quel genere musicale: arrivandoci da New York (due ore di volo) è uno dei primi Stati che per noi nordici segnano l’ingresso nel Sud: evoca il passato schiavista, poi segregazionista, le leggi razziali contro cui si batté il movimento per i diritti civili guidato negli anni Sessanta dal reverendo Martin Luther King. Un epicentro di quelle battaglie fu Memphis, anch’essa nel Tennessee: la città di Elvis Presley.

Arrivare a Nashville nel giugno del 2024 in occasione del Cma Fest, come primo impatto sembra confermarti uno degli stereotipi. La country music è “bianca”, effettivamente, se guardi alla composizione etnica del pubblico. Lo stadio Nissan (tornerò su questo nome) dove si esibiscono le maggiori star del festival, è invaso da un pubblico abbastanza diverso dalla varietà multietnica che mi circonda tutti i giorni a New York. Non mancano neri, latinos, asiatici, però sono molto minoritari rispetto alla marea bianca. Questo però è un utile pretesto per ricordare un dettaglio non irrilevante ai fini politico-elettorali. Pur dopo decenni di grandi flussi migratori in entrata, tuttora oltre il 60% degli americani è bianco. La percentuale può sembrare alta o bassa a seconda dei punti di vista e delle prospettive storiche, ma rappresenta pur sempre una solida maggioranza. Lo ricordo perché il fenomeno Trump è anche figlio di un’epoca in cui dottrine come la Critical Race Theory hanno egemonizzato scuole pubbliche, grandi università, il cinema di Hollywood, il mondo dell’arte e dei media. Se l’establishment progressista stabilisce che solo i bianchi sono portatori di peccati incancellabili, che solo i bianchi devono passare il resto della loro esistenza a chiedere scusa per tutte le loro colpe, non dobbiamo stupirci che la destra abbia ancora delle chance in questo paese.

Il pubblico che accorre in massa – da tutto il paese ma in particolare dal profondo Sud – al festival di Nashville, ha anche un codice di abbigliamento ben distinto da noi newyorchesi o californiani. Le ragazze, soprattutto: gonne cortissime, stivaletti da cowboy, cappelli texani, a volte ti sembrano delle “pin-up” copiate dai manifesti pubblicitari degli anni Cinquanta e Sessanta. Chi gira vestito in quel modo a New York o a San Francisco si fa subito notare come un “forestiero” venuto da un altro mondo. Attenzione, però: è un mondo contiguo a quello di Taylor Swift, ragazza bianca di provincia, molto vicina alla sensibilità della country music, eppure capace di riempire stadi ovunque vada: sulle due coste progressiste, in Europa. Taylor Swift viene da “questa” America in cui mi sono immerso a Nashville, e tuttavia non è né razzista né di destra. Anzi negli ultimi anni si è sbilanciata in favore del partito democratico, di Joe Biden, e ha lanciato una campagna per far salire la partecipazione al voto dei giovani, tradizionalmente bassa. 

Il caso di Taylor Swift – che non viene catalogata nella country music (gli esperti la definiscono una “pop-country-crossover”) però viene da un ambiente etnico e sociale identico – offre l’opportunità per liberarsi di pregiudizi e stereotipi. Il genere country non è intrinsecamente di destra: tra i suoi esponenti più illustri figurano artisti del calibro di Johnny Cash, Willie Nelson, Dolly Parton, che non erano e non sono di destra. Ai suoi esordi Bob Dylan “frequentò” il mondo country, ci restano dei memorabili duetti con Cash. Incollare all’America bianca che ho visto a Nashville l’etichetta di reazionaria e razzista, è una grossolana semplificazione e un errore.

Nashville ha un magnifico museo dedicato alla storia della country music: lì sono ampiamente documentate le contaminazioni che alle origini ci furono anche con la musica nera, in particolare attraverso la tradizione del banjo. Il genere country nasce nel mondo dell’immigrazione bianca, inglese, scozzese, irlandese, ma assorbe influenze dal Gospel, dagli spiritual. Benché del tutto minoritari, ci sono stati artisti black nella country music. Proprio di recente Beyoncé ha voluto “appropriarsi” di questo genere e ci è riuscita – a mio modesto avviso – molto bene, con un LP di grande successo. (L’America woke, l’establishment progressista che comanda sulle due coste, ha accolto benissimo questa “invasione di campo” di Beyoncé nel genere country-bianco, mentre avrebbe denunciato un’operazione inversa come “colonizzazione”…)

Altra cosa è osservare che i testi tipici delle canzoni country rappresentano spesso valori tradizionali. Molti sono intrisi di religione cristiana. Quando parlano di matrimonio e di coppia, sono all’interno di un universo eterosessuale. Il ruolo della donna è – spesso, non sempre – abbastanza tradizionale, ancorché molto vigoroso come nei canoni del Far West. Tutto questo contribuisce a fare della country music un’espressione di quell’America “rurale” che le élite delle coste non vogliono capire, e per lo più disprezzano con snobistica alterigia. Va sottolineato che “rurale” non significa affatto contadino o agricolo. L’agricoltura americana, modernissima e altamente automatizzata, ormai occupa meno del 2% della popolazione. Rurale è l’America della provincia profonda, delle piccole città, degli insediamenti urbani diffusi e sparpagliati. A maggioranza va a messa la domenica, partecipa ad attività comunitarie di volontariato all’interno di qualche congregazione religiosa. È rimasta legata a valori tradizionali e la country music glieli canta, anziché essere dominata dalle minoranze etniche, dall’agenda Lgtbq+, dal cambiamento climatico come accade per i generi artistici prevalenti a New York o in California. Sia chiaro però che questi valori tradizionali non sono per forza “in ritirata”, “al tramonto”, o appannaggio esclusivo dei bianchi. La religiosità ha intriso due secoli di musica black, senza che nessuno se ne scandalizzasse. L’attaccamento a valori tradizionali contribuisce a spiegare perché Trump dal 2016 in poi ha visto aumentare i suoi consensi tra gli afroamericani e i latinos.

Concludo sulla Nissan. Lo stadio di Nashville si chiama così perché lo sponsor è la casa automobilistica giapponese, uno dei maggiori investitori industriali nel Tennessee. Molte multinazionali straniere hanno creato fabbriche in questo Stato. Memphis è anche la sede di FedEx, gigante della logistica globale. Nashville e Memphis sono tra le città d’America che hanno conosciuto il maggiore sviluppo demografico e la maggiore crescita economica. Per capire l’esito che avrà il duello tv di stasera, al di là delle nostre preferenze personali, è utile liberarsi dei paraocchi e dei luoghi comuni.   

27 giugno 2024, 11:20 - modifica il 27 giugno 2024 | 11:24

- Leggi e commenta