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di Redazione Economia
Uber entra nell’Olimpo di Wall Street. A partire dal 18 dicembre il colosso dell’«economia dei lavoretti» entrerà a far parte dell’indice S&P 500. L’ammissione è frutto del rispetto di alcuni parametri, fra cui quello della redditività. Benché non abbia mai chiuso un bilancio annuale in utile, la società ha registrato un miliardo di profitti negli ultimi quattro trimestri. Probabilmente, quindi, il 2023 potrebbe diventare il primo anno in positivo per Uber e l’inclusione nello S&P 500 è un buon modo di festeggiare il traguardo.
di Redazione Economia
La promozione borsistica dovrebbe infatti dare un’ulteriore spinta al titolo che ha già guadagnato il 128% dall’inizio dell’anno a Wall Street, portando la capitalizzazione di Uber al di sopra dei 118 miliardi di dollari. L’ingresso nello S&P 500 garantisce infatti l’acquisto delle azioni da parte di quei fondi — e sono migliaia — che copiano l’indice principale di Wall Street (cosiddetti passivi) o che comunque lo prendono a riferimento nelle scelte di portafoglio (attivi con benchmark). Una buona notizia per i soci di Uber che sinora hanno dovuto mettere più volte mano al portafoglio per ripianare le perdite.
di Leonard Berberi
Dal 2014, anno in cui ha pubblicato per la prima volta i conti annuali, Uber ha accumulato perdite per 31,5 miliardi di dollari. Il gruppo ha potuto continuare a operare e a espandersi grazie alla fiducia dei suoi azionisti e, soprattutto, alla grande disponibilità di liquidità a costo zero (o quasi) consentita dalle politiche accomodanti delle banche centrali. L’aumento dei tassi d’interesse negli ultimi due anni ha costretto Uber e altre aziende simili a rivedere i piani di investimento, avviando un’aggressiva politica di taglio dei costi. L’elevata domanda di servizi di ride-hailing e di consegna a domicilio ha fatto il resto, consentendo a Uber di chiudere il terzo trimestre con 9,3 miliardi di ricavi e 221 milioni di utile netto.
Sulle buone performance finanziarie ed economiche di Uber pesa qualche incognita. Nel food delivery la società ha incontrato non poche difficoltà, legate all’elevata concorrenza e ad alcuni procedimenti giudiziari. In Italia la filiale Uber Eats è stata commissariata dal Tribunale di Milano con l’accusa di caporalato, ossia di aver sfruttato i fattorini addetti alle consegne. Tre anni più tardi, la società ha deciso di chiudere le attività in Italia, a causa della crescita deludente. Nel Paese resta ancora attivo il servizio di noleggio con conducente da cui è nata Uber. Difficile stimare quale sia il giro d’affari poiché le attività europee fanno capo a una capogruppo olandese, mentre la filiale italiana svolge soltanto attività di marketing e supporto ai servizi, con un fatturato che nel 2022 si attestava intorno ai cinque milioni.
di Redazione Economia
Il contesto normativo in Europa rischia di diventare ancor più complicato in Ue per Uber e le altre aziende della «gig economy». A giugno, infatti, i governi Ue hanno raggiunto un accordo su una bozza di direttiva . La regolamentazione prevede che in presenza di almeno tre dei sette criteri individuati i lavoratori delle piattaforme siano da considerare dipendenti e non più autonomi, con l’applicazione di tutte le relative tutele legali, previdenziali e retributive. L’occupazione nella gig economy è aumentata di pari passo con la crescita di società come Deliveroo, Uber, Glovo e JustEat che nel giro di cinque anni hanno quasi quintuplicato il loro giro d’affari da 3 a 14 miliardi. Oggi le piattaforme digitali impiegano 28,3 milioni di persone in Europa e l’Ue stima che il totale salirà a 43 milioni entro il 2025. Al momento, però, il 90% dell’organico delle piattaforme europee è composta da autonomi che guadagnano in un caso su due meno del salario minimo e che non sono retribuiti per le ore passate in attesa di un incarico (il 41% delle ore totali).
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04 dic 2023
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