Netanyahu vara il cambio di fronte: «La fase più intensa della guerra a Gaza sta finendo. Poi sposteremo le truppe verso il Libano»
Il premier parla a una testata israeliana per la prima volta in otto mesi: «Possiamo combattere su due fronti». E Washington teme un conflitto allargato al Libano
DAL NOSTRO INVIATO
TEL AVIV — La guerra sta finendo, anzi no. A casa gli ostaggi, ma solo alcuni. Nella sua prima intervista in otto mesi e mezzo a una testata israeliana — Canale 14, tv amica —, compare il solito Bibi Netanyahu. Pronto a rispondere ai militari, che solo due giorni fa gli hanno spiegato come Hamas sia un’ideologia, non solo un gruppo di terroristi, e come distruggerla sia impossibile. Deciso ad andare per una strada sola: «Il nostro obiettivo — dice il premier israeliano — è distruggere Hamas: non sono disposto a lasciarla al suo posto e non sono disposto a rinunciare a questo». Un cessate il fuoco si può negoziare, «un accordo parziale» per portare a casa almeno una parte degli ostaggi ancora vivi (questa è una piccola novità, nella posizione governativa). Ed è chiaro che l’offensiva di Rafah, quando finirà, sancirà anche la fine dei combattimenti a Gaza: «La fase più intensa sta per terminare».
Ma scordatevi una vera pace: bisogna spostare le forze verso il Libano, «principalmente per scopi difensivi», e forse un’altra guerra si può ancora evitare se Hezbollah smobilita dal confine e se gli israeliani possono tornare a vivere nelle cittadine del nord. Ma in caso contrario? «Possiamo lottare su più fronti: siamo preparati a questo».
Guerra e ancora guerra. Un pacifico dopo non esiste, nelle esternazioni di Bibi. Se non per chiarire che:
1) Israele manterrà il «controllo militare» della Striscia e un’amministrazione civile, «se possibile coi palestinesi locali», gestirà gli aiuti umanitari;
2) i coloni non torneranno mai a Gaza, come chiedono gli alleati di governo più estremisti — «non è realistico» — ma nemmeno vi rientrerà l’Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen;
3) non è il momento dei mea culpa per il disastro del 7 Ottobre, «ci sarà tempo per discuterne una volta finito questo intenso conflitto».
Le reazioni sono naturalmente negative. Hamas — che finora ha detto no a qualsiasi ipotesi di rilascio dei rapiti, se non in cambio del ritiro delle truppe — dice che queste parole sono «il rifiuto della risoluzione Onu e della proposta americana». Per il Forum delle famiglie degli ostaggi, Netanyahu esprime solo una cosa: l’«abbandono» dei 120 israeliani in mano a Hamas. Per giovedì, le famiglie chiamano a uno sciopero generale contro un governo che «non sa chiudere il fronte di guerra, non riporta a casa nessun ostaggio, fa morire centinaia di soldati e sta per entrare in un nuovo conflitto col Libano».
Nella Striscia, la catastrofe umanitaria è a livelli «impensabili» (termine usato dalla Croce Rossa), ma a questo Netanyahu non s’è troppo dedicato nella sua intervista. Ieri è stato ucciso anche un ufficiale medico che coordinava i soccorsi delle ambulanze. «La consegna degli aiuti a Gaza è impossibile — dice Josep Borrell, ministro degli Esteri europeo — nulla entra e una parte degli aiuti marcirà presto, sarà persa. E anche quel poco che entra non può essere distribuito, perché la società civile è stata distrutta. Il piano Biden non viene attuato, per mancanza di sostegno da entrambe le parti. E il rischio d’un contagio del conflitto nel sud del Libano è ogni giorno sempre più grande».
È per questo che Yoav Gallant, il ministro della Difesa israeliano, è a Washington a chiedere nuove armi.
Ed è per questo, per paura che vengano usate con Hezbollah — ora che a Gaza si sta chiudendo la partita —, che Washington non le vuole più dare.