Un weekend di attentati (a Mosca) e missili (sull’Ucraina e nel cielo della Polonia)

America-Cina Il Punto | La newsletter del Corriere della Sera
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Lunedì 25 marzo 2024
Un weekend di attentati e missili
editorialista di Andrea Marinelli

Quando abbiamo vi abbiamo inviato l’ultima newsletter della scorsa settimana, venerdì, il mondo era diverso. Almeno in parte. Poi alle 19 è successo che la principessa Kate ha svelato con un video a cosa era dovuta l’operazione all’addome a cui si era sottoposta a gennaio, un misterioso problema di salute che aveva generato un eccesso di morbosa curiosità globale e che nascondeva invece il dramma di una donna costretta a dare ai suoi tre bimbi una notizia dolorosa.

Più o meno nello stesso momento un commando di terroristi è entrato in una sala concerti alla periferia di Mosca (sopra) e ha ucciso circa 140 persone — il bilancio oscilla — che stavano per assistere all’esibizione di uno storico gruppo russo che si era formato a Leningrado nel 1978, ai tempi di Brezhnev e dell’Unione Sovietica. Si trattava di quattro tagiki apparentemente affiliati all’Isis, che ha rivendicato l’attentato, ma questo non è bastato a Putin che sta addossando la responsabilità dell’attentato agli ucraini. E ha ripreso a martellare il Paese con bombe e missili.

Oggi AmericaCina riparte da questo (affatto) tranquillo weekend di attentati, missili e propaganda, cercando di tirare una linea e fare chiarezza su cosa sta succedendo al confine dell’Europa, dove aumenta l’allerta terrorismo insieme alla paura della guerra: ieri, vicino al confine ucraino, un missile russo ha sorvolato lo spazio aereo polacco per 39 secondi. Altri 5 e avrebbe potuto innescare una reazione militare.

Vi raccontiamo poi delle delegazioni israeliane arrivate a Washington con piani di guerra e flebili tentativi di pace, dell’errore degli Houthi nel Mar Rosso, della scadenza odierna di Trump e vi lasciamo sognando Salome, in Arizona, «where she danced».

Buona lettura.

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1. I quattro tagiki arrestati a Mosca
editorialista
di Marta Serafini

imageI quattro tagiki arrestati a Mosca

In quattro, tutti con segni di torture, uno di loro addirittura non cosciente. Sono arrivati così ieri sera al tribunale di Basmanny a Mosca i sospettati dell’attentato al Crocus, in cui sono morte 137 persone. Tutti e quattro sono di origine tagika. Tre di loro si sono dichiarati colpevoli, per tutti è stato disposto il carcere preventivo fino al 22 maggio. Rischiano la pena massima dell’ergastolo. Nella mattinata di lunedì il Cremlino ha commentato di non star discutendo per loro la pena di morte. E non ha rilasciato commenti sugli evidenti segni di tortura.

«Lascerò questa domanda senza risposta», ha detto il portavoce Dmitry Peskov. No comment anche sulle rivendicazioni dell’Isis. «State ponendo una domanda relativa all’andamento delle indagini. Noi non commentiamo ciò in alcun modo, non abbiamo il diritto di farlo. Qui, ovviamente, vi esortiamo a fare affidamento sulle informazioni che provengono dalle nostre forze dell’ordine». Peskov ha aggiunto che il presidente Vladimir Putin non ha intenzione di visitare il luogo dell’attacco.

I quattro sono stati trattenuti in una cabina con pannelli di vetro e sorvegliati da poliziotti con il volto coperto durante la loro permanenza in tribunale.

Muhammadsobir Z. Fayzov, barbiere di 19 anni e il più giovane degli accusati, è stato portato in aula dal pronto soccorso dell’ospedale su un’alta sedia a rotelle arancione, assistito da un operatore sanitario. Aveva un catetere e un camice ospedaliero aperto con il petto parzialmente scoperto. Dalle immagini non appare in grado di rispondere ma secondo il New York Times ha risposto alle domande alla presenza di un traduttore tagiko.

Saidakrami M. Rachalbalizoda, 30 anni, aveva una grossa benda che gli pendeva dal lato destro della testa, dove gli è stato tagliato una parte dell’orecchio poi ficcato in bocca durante gli interrogatori. Sposato con un figlio, ha detto di essere legalmente registrato in Russia ma di non ricordare dove.

Dalerjon B. Mirzoyev, 32 anni, ha quattro figli e aveva un permesso di soggiorno temporaneo nella città di Novosibirsk, nel sud della Siberia, ma era scaduto. Quando si è presentato in aula aveva un occhio nero e tagli e contusioni su tutto il viso, si è appoggiato per sostenersi contro la parete di vetro della gabbia del tribunale mentre veniva letta l’accusa contro di lui. Attorno al collo, un sacchetto di plastica strappato.

Shamsidin Fariduni, 25 anni, sposato con un bambino di 8 mesi, lavorava in una fabbrica di parquet nella città russa di Podolsk, appena a sud-ovest di Mosca. Aveva anche lavorato come tuttofare a Krasnogorsk, il sobborgo di Mosca dove è avvenuto l’attacco.

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2. Putin accusa Kiev dell’attentato (e la bombarda)
editorialista
di Fabrizio Dragosei

imageVladimir Putin, 71 anni, accende una candela in chiesa per commemorare le vittime (foto Afp/Mikhail Metzel)

Attentatori che parlano tagiko e arabo, scandendo in un filmato girato da loro stessi «Allah akbar» mentre sparano e tagliano con un coltello la gola a uno spettatore; rivendicazioni a dozzine su tutti i siti legati in qualche modo all’Isis. I filmati diffusi in rete ieri , due giorni dopo l’attentato al Crocus, sono immagini che servono all’Isis a rivendicare con più forza l’assalto: postato su Amaq, l’agenzia media di Isis, un filmato di un minuto e mezzo mostra ciò che si vede dalle videocamere indossate dagli attentatori. Raffiche di fucili automatici, cadaveri, incendi. Video che servono anche come propaganda.

Eppure il Cremlino, che pure li ha acquisiti, è cauto ad attribuire la responsabilità all’islamismo radicale. E non muove accuse: in Russia la pista alla quale si continua a dare maggior credito è quella dell’Ucraina. Gli immigrati sarebbero stati agenti prezzolati, assoldati con pochi rubli dai servizi segreti di Kiev per colpire al cuore l’odiato nemico con determinazione nazista. Ne parlano esplicitamente i più sfegatati sostenitori dello scontro all’ultimo sangue con l’Occidente, come i canali internet ultranazionalisti, tra i quali Tsargrad.

È stata una domenica di lutto nazionale per le vittime dell’orrendo massacro di venerdì sera che ha provocato almeno 137 morti, con bandiere a mezz’asta su tutti gli edifici pubblici e su molte ambasciate, comprese quelle di Italia, Stati Uniti e Regno Unito. Ma è stata anche una domenica di pesanti bombardamenti su Kiev e altre città ucraine, tanto per chiarire dove, secondo Putin, stanno i colpevoli della strage al teatro. I bombardamenti su Kiev e Leopoli sono stati tra i più feroci da molto tempo, col sindaco della capitale, Vitaly Klitschko, che intimava via Telegram ai suoi cittadini di «non lasciare i rifugi».

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3. La sfida per controllare la narrativa sui colpevoli dell’attentato
editorialista
di Marco Imarisio

imageLo zar al telefono (foto Afp/Mikhail Metzel)

«Rimaniamo in contatto». E riattacca. Suona ancora il telefono. «Ci sono novità?». Un’altra chiamata. «Undici persone fermate?». Le riprese non sono frontali, come quelle del messaggio alla nazione letto sabato pomeriggio. Vladimir Putin appare sempre più corrucciato. Si sposta di continuo dal centro della sua scrivania per rispondere al capo dei Servizi segreti Aleksandr Bortnikov, al ministro degli Interni Vladimir Kolokoltsev, a poi al governatore della regione di Mosca. Filo diretto con tutti, insomma.

«Il nostro presidente è stato informato fin dal primo momento, ricevendo rapporti immediati dalle nostre autorità» informa la voce fuori campo di Pavel Zarubin, volto emergente dei media vicini al Cremlino, che ha fondato insieme al più noto Vladimir Solovyov la storica striscia della domenica sera, il cosiddetto «telegiornale d’autore» Mosca. Cremlino. Putin, la cui ragione sociale appare evidente fin dal nome. Il video, presentato come una grande esclusiva, è stato inviato in anticipo alle agenzie di stampa statali come la Tass, e poi ripreso con grande evidenza per tutta la giornata dai telegiornali di ogni ordine e genere.

Come quasi tutti, Putin gestisce bene le vittorie, ma ha qualche problema con le battute d’arresto. Gli strateghi del Cremlino conoscono a memoria le critiche che subì nel 2000 per la risposta ritardata dopo la tragedia del sottomarino Kursk, e quanto gli bruciarono all’epoca. Il silenzio prolungato durante i momenti di incertezza è una caratteristica che gli viene attribuita in ogni biografia. Nel giugno scorso, tacque a lungo prima di prendere la parola per fermare la marcia su Mosca di Evgenij Prigozhin. L’esclusiva di Mosca. Cremlino. Putin ha il chiaro obiettivo di mostrare un Comandante in capo sulla tolda del vascello Russia alle prese con l’inattesa tempesta di una strage avvenuta nel cuore di Mosca.

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4. Raid sull’Ucraina, missili sopra la Polonia, navi affondate
editorialista
di Lorenzo Cremonesi
inviato a Mirnograd (Donbass)

imageSoccorritori ucraini sul luogo di un attacco russo a Kiev (foto Afp/Sergei Supinsky)

Escalation della sfida militare combattuta a distanza con missili e droni: questo il senso degli ultimi giorni di combattimenti tra Russia e Ucraina. «Chi non si adatta all’evoluzione della tecnologia bellica è perduto. Stiamo conducendo una guerra con tattiche e utilizzo delle armi che sono molto diversi da quelli di due anni fa. Non bastano più i vecchi droni commerciali modificati artigianalmente per lanciare granate, servono quelli militari con i sistemi anti-jamming aggiornati, più leggeri, robusti e con più autonomia di volo», raccontano i soldati ucraini che incontriamo sulla nuova linea del fronte nel Donbass e specificamente nel settore della cittadina di Avdiivka catturata dai russi a metà febbraio.

Ieri il rombo dei cannoni si è un poco affievolito da queste parti. Ma nessuno si fa illusioni: è solo una breve parentesi, le fanterie russe stanno riorganizzando i prossimi attacchi nell’Est del Paese, gli ucraini ne approfittano per scavare trincee e portare rinforzi. Intanto, si attende entro due o tre settimane l’arrivo di circa un milione di colpi d’artiglieria da 155 mm, che il governo ceco sta comprando sul libero mercato con il sostegno di alcuni partner europei e non solo.

Per contro, prevale la sfida dall’aria sulle lunghe distanze. Per il quarto giorno consecutivo le bombe russe si sono concentrate contro il sistema energetico avversario. Dopo i missili su Kiev venerdì e i gravissimi attacchi a tappeto di sabato, che hanno messo fuori uso più del cinquanta per cento della rete elettrica ucraina, ieri altre tre regioni sono state ridotte quasi al blackout. La Dtek, che è la più grande compagnia energetica privata, conferma di avere perso oltre il 50% della sua capacità produttiva .

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5. Anatomia di un commando
editorialista
di Guido Olimpio

imageGli attentatori all’interno del Crocus di Mosca (foto Ansa)

Dalla campagna dei mille tagli, con una serie di attacchi minori, alla stagione dei grandi attentati. Questo segnala la strage di Mosca, preceduta da quella di Kherman, in Iran. Entrambe condotte da mujaheddin dello Stato islamico nati nelle ex repubbliche sovietiche, in particolare il Tagikistan.

Gli attentati sono gravi non solo per l’alto numero di vittime ma per il pericolo, come avverte l’esperto Riccardo Valle, che siano ripetuti su altri fronti, Europa occidentale compresa: «È solo questione di tempo». E non possiamo neppure escludere un impatto su formazioni concorrenti, a partire da al Qaeda. Con l’emulazione a fare da spinta per gesti «spettacolari» identici al raid del concerto moscovita.

Il commando aveva due Kalashnikov, una pistola Makarov, un pugnale per sgozzare, i corpetti pieni di caricatori, gli zaini e il materiale incendiario. Un video ha mostrato i terroristi sicuri, spietati nell’inseguire i bersagli inermi, facilitati da una ricognizione nei giorni precedenti. Dopo la cattura sono apparsi confusi e tremanti, ma il loro compito lo hanno svolto attuando una minaccia di lungo termine. A prescindere dalla sigla di appartenenza.

Lo Stato islamico-Khorasan — sottolinea Valle — ha dichiarato le proprie ambizioni fin dal 2020 con azioni locali e regionali per poi pensare ad un’azione globale. Per questo bisogna sempre leggere la propaganda perché è funzionale all’attività. Esempio: un’operazione contro un obiettivo cinese a Kabul è stata preceduta da oltre un anno di testi duri nei confronti di Pechino. E lo stesso vale per la Russia o i Paesi dell’Occidente ormai messi nella linea di tiro attraverso la presenza di simpatizzanti e membri, magari entrati fingendosi rifugiati.

Con un punto di contatto cruciale rappresentato dalla Turchia, ospitale con tanti musulmani in arrivo dal Caucaso, dalla Cina e dall’Asia centrale e di fatto piattaforma per numerosi movimenti.

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6. La Germania alza l’allerta in vista degli Europei
editorialista
di Mara Gergolet
corrispondente da Berlino

imageIl gol di Havertz in Francia-Germania di due giorni fa (foto Afp/Olivier Chassignole)

Anche la Germania alza il livello di allerta dopo l’attacco islamista di Mosca. Lo fa senza creare allarmismi, però facendo trapelare alcune informazioni sulla stampa. Preoccupa soprattutto la matrice dell’attentato, Isis della Provincia Korashan (Ispk), il ramo più forte dello Stato islamico, perché ha ramificazioni nell’Europa del Nord e in Germania. E poi c’è un secondo elemento a cui le forze di sicurezza non possono non destare l’attenzione, anche se sono molto attente a non creare allarmismi. La Germania avrà, così come la Francia con le Olimpiadi, un grosso evento sportivo, gli Europei di calcio che si giocheranno tra il 14 giugno e il 14 luglio: e proprio il calcio, come i grossi eventi collettivi, è stato già al centro di sanguinosi attentati, l’obiettivo da puntare nella perversa e terribile logica rovesciata dei terroristi.

Le autorità tedesche forniscono alcuni dettagli. Sebbene il Tagikistan disti oltre 5mila chilometri dall Germania, c’è invece una importante componente tajika sul suolo tedesco. Si stima che dei circa cento simpatizzanti/fiancheggiatori dell’Isis Korashan in Europa, circa 50 vivano in Germania, e più precisamente nella Renania, o meglio nel Nord Reno-Vestfalia. Gran parte di loro, dice un investigatore alla Bild, vivono in «isolamento estremo». Sono queste, in genere, anche le regioni con la maggiore presenza musulmana.

A dicembre c’è stata l’allerta per un attentato contro alla cattedrale di Colonia, e due minorenni «tajiki» sono stati arrestati mentre già lo preparavano. A Colonia è arrivato addirittura un alto esponente talebano a predicare in una moschea. Nella regione poi c’è qualche migliaio di schedati a rischio radicalizzazione. E come scrive Guido Olimpio, in Europa ci sono state negli ultimi mesi, dopo l’inizio della guerra di Gaza, delle retate che hanno coinvolto anche la Germania e l’Olanda. Perfino l’ordine iniziale per l’azione di Mosca, potrebbe essere stato trasmesso con una telefonata localizzata in Germania nell’estate 2023.

È inevitabile che la Germania dovrà alzare la rete di controlli per gli Europei, e attivare tutte le risorse della sua intelligence. La nostra nazionale, tra l’altro, giocherà proprio in Renania, tornando nelle terre che le hanno portato fortuna nel 2006, aprendo il torneo tra Dortmund (contro l’Albania) e Gelsenkirchen (contro la Spagna). Ma non ci sono allerte o segnali specifici, solo considerazioni che le autorità rendono pubbliche. E così anche la situazione nel lontano Afghanistan diventa un problema. Il capo del servizio di sicurezza interna tedesca, Thomas Haldenwang, aveva avvertito all’inizio dell’anno: «Il rafforzamento di questo gruppo, l’Isis Khorashan in Afghanistan, aumenta il rischio per la sicurezza in Germania».

Taccuino terrorismo | La lista degli obiettivi

I terroristi, nei loro messaggi propagandistici, indicano i possibili bersagli. A volte restano solo minacce ma spesso alle parole seguono attacchi. L’esperto Aaron Zelin ha compilato una lista dei paesi indicati come nemici dallo Stato Islamico nei suoi comunicati: Afghanistan, Algeria, Australia, Austria, Bangladesh, Belgio, Benin, Burkina Faso, Camerun, Canada, Caucaso (Cecenia, Inguscezia), Ciad, Cina (all’estero), Rep del Congo, Danimarca, Egitto, Filippine, Francia, Gran Bretagna, Germania, Giordania, India, Indonesia, Iran, Iraq, Israele, Kenya, Kirghizistan, Libano, Libia, Mali, Mozambico, Niger, Nigeria, Pakistan, Russia, Arabia Saudita, Somalia, Spagna, Sri Lanka, Siria, Tagikistan, Tanzania, Tunisia, Uganda, Usa, Uzbekistan, Yemen.

Quattro punti.

  1. In alcuni di queste regioni ci sono stati attentati pesanti.
  2. In apparenza manca l’Italia; tuttavia, è stata attaccata la chiesa italiana a Istanbul.
  3. Neppure la Svezia è citata, però stavano progettando di colpirla per le copie del Corano profanate.
  4. Le operazioni sono affidate alle diverse «province» o a elementi solo ispirati.
7. Le delegazioni degli israeliani a Washington
editorialista
di Viviana Mazza
corrispondente da New York

imageYoav Gallant e Lloyd Austin a dicembre, a Tel Aviv (foto Ap/Maya Alleruzzo)

Il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant è arrivato a Washington per incontrare il capo del Pentagono Lloyd Austin (su invito di quest’ultimo), come pure il segretario di Stato Usa Antony Blinken e il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca Jake Sullivan. La scorsa settimana, nel suo ennesimo tour nella regione, Blinken ha chiesto a Netanyahu di non invadere Rafah, avvertendo che «il rischio è di isolare ulteriormente Israele nel mondo e mettere a rischio la sua sicurezza nel lungo periodo».

Parallelamente a Gallant, una delegazione israeliana che include il ministro per gli Affari strategici Dermer e il capo del consiglio di sicurezza nazionale Tzachi Hanegbi è partita ieri alla volta di Washington, una visita richiesta dal presidente Biden in modo che possano «ascoltare le preoccupazioni americane per l’attuale pianificazione a Rafah e possano sviluppare un approccio alternativo», come aveva anticipato Sullivan in una conferenza stampa con i giornalisti la scorsa settimana. Ieri Kamala Harris ha dichiarato in una intervista con il network Abc che qualsiasi operazione militare a Rafah sarebbe «un grosso errore», aggiungendo che l’amministrazione Biden lo ha reso chiaro in «molteplici conversazioni e in ogni modo».

Israele ha proposto di spostare le famiglie degli sfollati a Rafah in «isole umanitarie» in altre parti della Striscia. Harris ha detto di aver studiato le mappe, ma «non c’è alcun luogo dove queste persone possano andare». A una domanda sulle eventuali conseguenze di una operazione a Gaza, la vicepresidente degli Stati Uniti ha replicato: «Non escludo niente». Netanyahu, tuttavia, ha ribadito ieri che entrerà a Rafah perché, altrimenti, è impossibile sconfiggere «la pura malvagità».

8. L’arroganza di Sinwar, che gestisce i negoziati dai tunnel

(Andrea Nicastro) Le ultime tracce (note) dell’uomo più ricercato del mondo sono in una telecamera di sicurezza che i soldati israeliani hanno trovato a metà febbraio a Khan Younis, nel centro della Striscia di Gaza. Nel solito bianco e nero di queste registrazioni, un miliziano illumina con una torcia elettrica una galleria alta quanto serve per non battere la testa. Lo seguono una donna con il velo e tre bambini tra i 5 e i 10 anni, alcuni usano la luce del cellulare per farsi strada. Chiude la fila Yahya Sinwar, il capo di Hamas a Gaza, l’ideatore del blitz divenuto massacro il 7 ottobre. La donna e i bambini sono la sua famiglia.

Sinwar porta una valigetta da medico gonfia, pantaloni larghi, maglietta e ciabatte di plastica. Da sei mesi, ormai, i tunnel sono il suo (e il loro) unico orizzonte. Secondo le Forze di Difesa Israeliane è probabile che Sinwar non solo continui anche oggi a nascondersi con la famiglia, ma sia anche molto vicino alla prigione di alcuni ostaggi israeliani che usa come scudi umani. Attorno ha una cerchia di miliziani che dovrebbero dargli il tempo di scappare in caso di blitz. Saddam Hussein sfuggì agli americani per 8 mesi. Poi a tradirlo fu un corriere che, torturato, rivelò la fattoria dove si nascondeva il presidente iracheno. Anche lui sottoterra. Sinwar è già in fuga da 6 mesi.

Si dice che abbia abolito le comunicazioni elettroniche, che usi solo «pizzini» come Messina Denaro, latitante per 30 anni. Si dice che si sposti spesso, che solo una persona conosca l’ultimo rifugio, forse il fratello Mohammed. A inseguire i Sinwar ci sono le spie israeliane (Mossad e Shin Bet), ma anche Washington che fa volare sopra la Striscia ogni «orecchio» e «occhio» possibile. I telefonini in mano ai figli potrebbero essere una falla nel sistema di sicurezza così come qualunque «postino». Ora Yahya Sinwar ha imposto che un eventuale accordo di cessate il fuoco e liberazione degli ostaggi debba avere il suo ok. Le trattative però avvengono a Doha, capitale del Qatar, dove, vista la sfiducia reciproca, i capi di Hamas in esilio stanno in un palazzo, i delegati israeliani in uno vicino e i mediatori vanno avanti e indietro con le carte.

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Cartolina da Tel Aviv | La festa di Purim, nonostante tutto
editorialista
di Andrea Nicastro
inviato a Tel Aviv

imageLa festa di Purim nelle strade di Gerusalemme (foto Afp/Ronaldo Schemidt)

Qualcuno ha cominciato a mascherarsi per la festa ebraica del Purim già giovedì, poi è stato un crescendo tutto il fine settimana. Tel Aviv si è riempita di cow boy, cat woman, spettri e persino guerriglieri Houthi con tanto di pugnale ritorto. Dagli 0 ai 70 anni gli israeliani si sono travestiti, i negozi hanno venduto migliaia di tutine di nailon made in China per impersonare Spiderman, Alì Baba e compagnia. Sabato sera il culmine con feste negli attici, nei bar sui marciapiedi, nelle discoteche.

Bizzarro per un Paese in guerra che sa e soffre ad esserlo. Sulle vetrine c’è sempre l’adesivo che chiede la liberazione degli ostaggi in mano ad Hamas. «Bring them home», dice. All’aeroporto e nelle piazze ci sono file di foto dei rapiti con l’età e il mantra «riportateli a casa». Pupazzetti, fiori, bigliettini accanto alle foto non mancano mai. I soldati tornano in licenza dalla Striscia di Gaza e parlano, piangono, imprecano. I coloni girano per strada con i calzoncini corti e i fucili d’assalto in spalla.

A chiedere, chiunque conosce qualcuno che conosce una delle 1.200 vittime del 7 ottobre oppure partecipa alle manifestazioni per le trattative o è fratello, amico, cugino, fidanzato di qualcuno che combatte. Eppure, il fine settimana è stato di festa. Perché? La festa del Purim è una delle più strane del calendario ebraico. Sembrerebbe originare dal Libro di Ester in cui si racconta come il perfido Aman, consigliere dell’imperatore persiano Serse, avesse emanato un decreto per sterminare tutti gli ebrei. «Uomini, donne, vecchi e bambini».

Peccato che Ester fosse sposa dell’imperatore. La donna chiese aiuto a Jahvè, digiunò, rivelò al marito di essere ebrea e lo convinse ad annullare il decreto e, già che c’era, anche a giustiziare il consigliere Aman. Seguirono grandi feste. Da qui, l’idea di celebrare ogni anno la salvezza del popolo con dolcetti triangolari (le orecchie di Aman), inviti e cene. La tradizione di mascherarsi sarebbe venuta secoli dopo, dalla voglia degli ebrei del ghetto di Venezia di imitare il carnevale dei concittadini cristiani.

In fondo anche Ester si era finta persiana per sposare l’imperatore. Più che una persiana assimilata era un’ebrea travestita da persiana che al momento del bisogno non ha abbandonato i suoi correligionari. Resta la stranezza di una partecipazione tanto massiccia (e festosa) in giorni tragici come questi. Forse Tel Aviv non ha cercato di dimenticare la guerra. Semmai di esorcizzarla.

Gli Houthi bombardano la città di Eilat? Vestiamoci da Houthi. Hamas ha in ostaggio un centinaio di noi? Il suo leader Sinwar sfugge nei tunnel a ogni ricerca? Quest’anno i dolci di Purim non si chiamano più le «orecchie di Aman», ma le «orecchie di Sinwar». Vogliono ucciderci? Cancellarci tutti dal fiume al mare? Non ci riusciranno, come non ci sono riusciti altri nella Storia, da Serse ad Hitler. Neppure Sinwar ci riuscirà. Siamo vivi e resistiamo. Resilienza, si direbbe oggi, ma un proverbio ebraico esprime questa forza interiore ancora meglio. «Hanno cercato di ucciderci tutti. Non ce l’hanno fatta. Su, mangiamo».

9. Un errore nel Mar Rosso

(Guido Olimpio) Un episodio da seguire in Mar Rosso. Secondo il Comando Centrale Usa gli Houthi hanno lanciato alcuni missili contro la petroliera Huang Pu, con bandiera panamense ma gestita da compagnia cinese. C’è stato un piccolo incendio a bordo ma con danni contenuti. L’evento ha destato attenzione in quanto era stato raccontato che le navi collegate a Pechino o a Mosca erano risparmiate dagli attacchi da parte della fazione filoiraniana. Ma ci sarebbe una spiegazione: l’unità era registrata fino al gennaio 2024 come di proprietà di un gruppo britannico e solo in seguito è passata a una società con sede a Hong Kong. L’intelligence dei combattenti ha compiuto un errore perché si è basata su vecchi dati.

10. Trump deve pagare 464 milioni entro oggi: cosa può succedere?

imageDonald Trump, 77 anni, ieri sera a Mar-a-Lago (foto Afp/Joe Raedle)

(Viviana Mazza) Scavalcato e distanziato da Joe Biden (che ha nelle sue casse elettorali 155 milioni di dollari, mentre gli ultimi dati disponibili danno il leader repubblicano a quota 40), Trump ora deve affrontare prioritariamente le emergenze processuali. Non ha denaro liquido e non è riuscito a trovare fideiussioni per coprire i 464 milioni di dollari che è stato condannato a pagare per i reati finanziari e fiscali commessi dalla sua Trump Organization: deve versarli entro oggi, come cauzione in attesa dell’esito del ricorso in Appello già presentato. Ecco cosa può accadere, a fronte del mancato pagamento.

Che cosa succede se oggi Trump non paga?
Trump è stato condannato a pagare 464 milioni di dollari oppure una cauzione che assicuri il pagamento di questa somma dopo l’appello. La decisione è del giudice Arthur Engoron, nel processo civile dello scorso febbraio in cui Trump e i figli sono stati condannati per aver fornito false informazioni a banche e compagnie di assicurazione al fine di ottenere accordi più vantaggiosi. Sommati ai soldi dovuti dai suoi figli Don jr. e Eric e dalla Trump Organization e agli interessi accumulati dal giorno del verdetto (al ritmo di 100mila dollari al giorno), la cifra arriva a 463,9 milioni di dollari. La scadenza per pagare è oggi, lunedì 25 marzo.

Può Trump uscirne senza pagare?
Trump ha chiesto di poter pagare una cauzione più ridotta (o nulla) in attesa del risultato del suo appello, affermando che i danni per lui sarebbero irreparabili se fosse costretto a svendere le sue proprietà se poi magari in appello vincesse. I suoi avvocati dicono che ha cercato di ottenere una cauzione attraverso trenta diverse compagnie di assicurazione ma nessuna è pronta a offrirla perché non accettano beni immobiliari come collaterali e che dovrebbe fornire loro 550 milioni di dollari in contanti e investimenti liquidi. La corte d’appello non ha ancora deciso in proposito; di solito emette i suoi verdetti martedì o giovedì, ed è improbabile che decida oggi. Dichiarare bancarotta resta un’altra opzione per evitare di pagare per mesi o forse anni (la città di New York dovrebbe mettersi in fila con altri creditori), ma è un’opzione che Trump non sembra voler considerare, perché avrebbe un costo politico per un candidato alla Casa Bianca che ha puntato molto sull’immagine di abile affarista.

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11. La seconda vita del nucleare inizia a Bruxelles
editorialista
di Francesca Basso
corrispondente da Bruxelles

imageUn logo antinucleare a Caen, in Francia (foto Afp/Lou Benoist)

Osteggiata e demonizzata da sempre per i rischi che comporta, l’energia nucleare sta vivendo un’ennesima «seconda giovinezza» per l’apporto che può fornire in chiave «emissioni zero». I Paesi europei rimangono però divisi sulla sua promozione, con due schieramenti netti: uno guidato dalla nuclearissima Francia, che ritiene cruciale continuarne lo sviluppo, e l’altro capitanato da Austria e Germania, che spingono perché l’attenzione rimanga sulle fonti rinnovabili. L’Italia, che il nucleare lo ha affossato con une referendum, con il governo Meloni è invece tornata in lizza, ritagliandosi per ora una posizione di secondo piano come Paese «osservatore» , forte di un ruolo nella ricerca e spinta dall’interesse per i reattori di quarta generazione.

Berlino decise tredici anni fa l’addio all’energia prodotta dall’atomo in seguito all’incidente nucleare di Fukushima in Giappone: nel 2011 chiuse immediatamente sei impianti nucleari ed eliminò gradualmente i gli altri. Gli ultimi tre sono stati fermati nell’aprile 2023. Nemmeno la guerra scatenata da Mosca in Ucraina e la necessità di riconvertire un’economia fondata sul gas russo ha spinto la Germania a riconsiderare le proprie scelte energetiche. Nei mesi scorsi c’è stato un duro braccio di ferro tra Parigi e Berlino per come considerare l’energia nucleare nel più ampio quadro della riforma del mercato elettrico (ammettendo alla fine il sostegno pubblico non solo per i nuovi impianti ma anche per l’estensione della vita delle centrali in uso) e della revisione della direttiva sulle rinnovabili. Due partite vinte da Parigi, con il risultato che ora i sostenitori del nucleare sono in aumento.

Giovedì scorso si è tenuto a Bruxelles il primo vertice internazionale sull’energia nucleare, promosso dal premier belga e presidente di turno dell’Ue, Alexander De Croo, e dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (Aiea). Hanno partecipato i leader dei Paesi pro-nucleare e gli esperti del settore, oltre 30 delegazioni e 300 amministratori delegati. «Senza il sostegno dell’energia nucleare, non abbiamo alcuna possibilità di raggiungere i nostri obiettivi climatici in tempo», ha avvertito Fatih Birol, capo dell’Agenzia internazionale per l’energia (Iea).

Restano critiche, come peraltro ci si poteva ampiamente aspettare, le associazioni ambientaliste come Greenpeace: «L’Europa non deve cedere alle lobby dell’industria nucleare e del governo francese, che cercano fondi per finanziare il “nuovo nucleare”». Nel frattempo si muove anche la Commissione Ue, che di recente ha lanciato l’alleanza industriale sui mini reattori, un’iniziativa che porterà al primo reattore modulare di produzione europea entro il 2030. Oggi come agli albori dell’industria nucleare il problema degli investimenti è reale. E Macron intervenendo al summit ha ribadito quello su cui insiste ormai da mesi: «Le risorse sono cruciali per espandere la diffusione dell’energia nucleare in Europa: dobbiamo mettere in campo la Banca europea per gli investimenti».

12. La Cina «al bivio»: per crescere deve reinventarsi
editorialista
di Guido Santevecchi

imageKristalina Georgieva, 70 anni, direttrice del Fondo monetario internazionale ieri a Pechino (foto Ap/Tatan Syuflana)

Ci si può ancora fidare dell’economia cinese? La direttrice del Fondo monetario internazionale Kristalina Georgieva dice che Pechino ha il potenziale per generare 3.500 miliardi di dollari di nuova ricchezza nei prossimi 15 anni, che significherebbe una crescita del 20% del suo Pil rispetto ai livelli attuali. Il nuovo miracolo però non è semplice: la Cina «deve reinventarsi» con riforme che mettano al centro dello sviluppo i consumatori interni, vale a dire i cittadini cinesi.

L’analisi dell’Fmi dice che Pechino deve risolvere la crisi del mercato immobiliare, paralizzato dall’indebitamento dei suoi costruttori e dalla saturazione del mercato. I prezzi delle case sono caduti del 20% negli ultimi due anni e siccome il mattone rappresenta tra il 60 e l’80 per cento dei risparmi delle famiglie cinesi, lo sprofondo rosso dell’edilizia ha innescato una spirale di depressione che si è abbattuta sulle spese della gente. La direttrice Georgieva, che parlava al China Development Forum di Pechino ha concluso che i pianificatori di Xi Jinping sono «davanti a un bivio»: se sapranno riformare il loro sistema svolteranno verso una crescita di qualità, altrimenti resteranno impantanati.

L’eterno dilemma delle riforme, dunque. Al Forum di Pechino, grande riunione annuale che per un paio di giorni favorisce incontri e consultazioni tra il gotha della tecnocrazia governativa cinese e personalità di spicco dell’industria e dell’analisi economica mondiale, è sceso in campo il premier Li Qiang. Il suo discorso è entrato in competizione con quello di Georgieva, nella ricerca di frasi capaci di catturare i titoli della stampa economica internazionale. Li Qiang ha dato fondo al repertorio mandarino, promettendo la rimozione delle barriere che ostacolano le aziende straniere, assicurando che il governo «sta attentamente studiando alcune delle istanze» sollevate dalla business community internazionale.

Il capo del governo ha rilanciato l’ultimo slogan di Xi, quello sulle «nuove forze produttive di qualità». Ma dietro questa bella frase molti analisti occidentali vedono la solita ambizione della tecnocrazia comunista: massicci investimenti statali nell’industria per sostenere l’export. La grande differenza è che la Cina ora sa di non poter restare la Fabbrica del mondo basata sulla competitività del suo costo del lavoro e della logistica; deve puntare sulla produzione high-tech, sugli investimenti in energia verde (l’ultimo fronte è quello delle auto a batteria elettrica). L’obiettivo resta lo stesso: spedire all’estero l’eccesso di produzione, annientando la concorrenza con la battaglia dei prezzi (e dei sussidi statali).

Segreti del Sud Ovest 56/ Benvenuti a Salome

(Guido Olimpio) Welcome to Salome, where she danced. Così c’è scritto sul cartello all’ingresso di questo villaggio dell’Arizona dove sono arrivato un giorno scegliendo un itinerario meno battuto, magari per scoprire luoghi inusuali. E questo posto lo è. Quando l’hanno creato nel 1904 speravano di trasformarlo in un punto di sosta per viaggiatori. Per un po’ è andata bene, poi le aspirazioni sono volate via quando è stata costruita una nuova strada che li ha tagliati fuori e loro si sono dovuti accontentare di ciò che avevano.

Per quanto remota, però, il passato di Salome racchiude qualche «segreto». Intanto il suo cittadino più illustre nonché fondatore: l’umorista Dick Wick Hall, uomo geniale che divenne noto anche al di fuori dello Stato. Poi quella frase ad accogliere i visitatori: «where she danced», dove lei ha ballato. Spiegazione: quando Salome (o Salomè), la moglie del socio di Hall, è scesa dall’auto rischiava di scottarsi i piedi per la sabbia troppo calda, allora ha piroettato sulla punta dei piedi. Immaginate la scena.

Infine, Gabrielle Wiley. Forse d’origine francese, emigrata in America, cameriera per una famiglia italiana, ha poi lavorato dal 1909 in alcune «case chiuse» di Prescott. Si è sposata cinque volte e i suoi mariti hanno fatto una brutta fine, morti ammazzati. Così come altri amanti. L’hanno processata e assolta per un delitto, hanno sospettato che ci fosse la mano di Gabrielle nel decesso degli altri.

Non sono però riusciti a dimostrare nulla ma c’era abbastanza materiale per girare, a sua insaputa, Kimono rosso, film dedicato alla sua storia. Quando lo scoprirà farà causa vincendo un indennizzo. Dopo mille avventure la «mantide» ha deciso di ritirarsi a Salome dove sarebbe deceduta nel 1962. Il passo finale della sua danza.

La serie continua.

Grazie di averci letto fin qua. Buona settimana,

Andrea Marinelli


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