L’avvocato di Trump, Jonathan Mitchell, davanti ai nove giudici supremi (foto Ap/Dana Verkouteren) (Viviana Mazza) È un momento eccezionale nella Storia americana: il caso Trump v. Anderson sulla squalifica dell’ex presidente dalle primarie del Colorado, ascoltato ieri dalla Corte suprema degli Stati Uniti, è stato paragonato per il potenziale intervento della magistratura nelle elezioni presidenziali al controverso verdetto Bush v. Gore del 2000, quando i giudici fermarono il riconteggio dei voti in Florida, cementando la vittoria di George W. Bush. I nove giudici non hanno ancora emanato il verdetto in Trump v. Anderson ma in tre ore di domande rivolte agli avvocati sono emersi chiari dubbi sulla decisione presa a dicembre dalla più alta Corte del Colorado di squalificare l’ex presidente in base alla sezione 3 del 14° emendamento della Costituzione. La Corte del Colorado ha deciso che quella norma risalente alla Guerra civile, che vieta di candidarsi a funzionari degli Stati Uniti che siano stati coinvolti in un’insurrezione, si applica a Trump in quanto coinvolto nell’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021. La questione va ben oltre il Colorado: ci sono altri 35 Stati con casi simili (respinti, aperti o in sospeso). Mentre in Bush v. Gore i giudici affermarono che il loro verdetto era unico e non poteva costituire un precedente giuridico, ieri hanno valutato attentamente il peso della loro decisione sulle elezioni di novembre che vedono Trump ormai vicino alla nomination che lo confermerà il rivale del presidente Biden. Diversi dei giudici — sia conservatori che progressisti — hanno sollevato il problema di dare ad un singolo Stato, il Colorado, il potere di squalificare un candidato ad una carica nazionale. Elena Kagan, nominata da Obama, ha ipotizzato che se il Wisconsin o il Michigan o un altro Stato in bilico lo facesse, potrebbe decidere la vittoria del «candidato A o B» per l’intera nazione. Brett Kavanaugh, nominato da Trump, ha suggerito che la squalifica sarebbe un danno alla democrazia, privando gli elettori del diritto di scegliere (l’avvocato Jason Murray gli ha risposto che nel 2020 Trump ha cercato di «privare 80 milioni di elettori che votarono contro di lui dei loro diritti»). Anche il giudice capo John Roberts ha osservato che altri Stati potrebbero reagire rimuovendo per «insurrezione» altri candidati (non ha nominato esplicitamente Biden). Solo alla fine la giudice Ketanji Brown Jackson, la più progressista, nominata da Biden e che ha giudicato alcuni rivoltosi del 6 gennaio chiarendo di considerarli una minaccia alla democrazia, ha posto la domanda se l’assalto al Congresso sia un’insurrezione. Ma la discussione si è incentrata su domande procedurali: il presidente può essere considerato un «funzionario degli Stati Uniti», visto che non viene esplicitamente menzionato nella sezione 3? E chi ha il potere di squalificarlo: gli Stati o il Congresso? I giudici sembravano orientati a questa seconda opzione. Secondo alcuni osservatori, potrebbero arrivare all’unanimità nel respingere la squalifica del Colorado. Trump ha definito l’udienza «una bellissima cosa». Ma alcuni esperti fanno notare che se la Corte prenderà una decisione basata su temi procedurali e non dirà se a Trump sia permesso dalla Costituzione di tornare presidente, in caso di una sua vittoria potrebbe esserci una crisi costituzionale quando il Congresso dovrà certificarla. Non finisce qui comunque per la Corte, che deve decidere se accettare di esprimersi sull’immunità di Trump e che ha già accettato di valutare se l’accusa di «ostruzione di procedimento ufficiale» si applichi o meno al 6 gennaio. |