Tutte le gaffe del presidente: Biden, i capi di Stato confusi e le frasi sui matrimoni gay

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Venerdì 9 febbraio 2024
La memoria di Biden (e le sue gaffe)
editorialista di Andrea Marinelli

Diciassetti blocchetti e un taccuino: tanto serve, oggi, per raccontarvi le novità di questo mondo. Le notizie sono tante, e si intrecciano: c’è un rapporto del procuratore speciale che indagava su Biden che scagiona il presidente degli Stati Uniti ma tira in causa la sua memoria, proprio mentre lui infila un’ultima serie di gaffe e confonde i leader stranieri. C’è la Corte Suprema che ascolta il caso Trump e c’è il cancelliere tedesco Scholz a Washington per parlare di Ucraina e forse, chissà, anche del giornalista Evan Gershkovich in carcere in Russia.

Del resto lo stesso Putin — nell’intervista al trumpiano Tucker Carlson — ha detto che la trattativa per lo scambio di prigionieri va avanti, e coinvolge anche un Paese alleato che potrebbe essere proprio la Germania. Mentre in Ucraina si avvicendano i generali, in Israele c’è un’altra trattativa che, forse, non è morta.

Non ci dilunghiamo oltre, buona lettura!

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1. Il report che imbarazza Biden: «Non ha più memoria»
editorialista
di Viviana Mazza
corrispondente da New York

C’è una buona notizia per Biden e ce n’è un’altra terribile, nel rapporto di 345 pagine del procuratore speciale Robert Hur, reso pubblico ieri. Hur ha investigato sui documenti classificati che Joe Biden da vicepresidente non riconsegnò agli Archivi Nazionali. Il procuratore speciale ha annunciato che non ci sono le basi per incriminarlo (aggiungendo che non lo farebbe neanche se un memorandum del dipartimento di Giustizia non lo vietasse nel caso di presidenti in carica). Ma la notizia terribile per un presidente ottantunenne che vuole farsi rieleggere a novembre per altri quattro anni è che il rapporto lo descrive come «un anziano con buone intenzioni e scarsa memoria».

Il presidente ha risposto poche ore dopo, convocando una conferenza stampa alla Casa Bianca, e dichiarandosi soddisfatto che il procuratore speciale «abbia chiarito la differenza con Trump e che la questione sia chiusa» ma dispiaciuto per come la notizia del rapporto era stata recepita. Ha spiegato di aver concesso volontariamente al procuratore un colloquio di cinque ore in due giorni, che riguardava «i passati quarant’anni»; e questo nei giorni immediatamente successivi all’attacco del 7 ottobre di Hamas in Israele.

«La mia memoria è a posto», ha detto, mostrandosi particolarmente ferito del fatto che il procuratore speciale abbia scritto che non ricordava nemmeno quando fosse morto suo figlio Beau. «Come diavolo osa parlare di questo? Francamente, quando me l’ha chiesto ho pensato che non fossero affari suoi. Non ho bisogno che nessuno mi ricordi quando è morto mio figlio». Poi, parlando degli sforzi per un cessate il fuoco a Gaza e dicendo che la risposta di Israele è stata «esagerata» (una delle critiche più dure fatte finora al governo di Netanyahu), però, il presidente è caduto in un lapsus, definendo Al Sisi il presidente del Messico anziché dell’Egitto.

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2. Tutte le gaffe del presidente

imageil presidente degli Stati Uniti Joe Biden, 81 anni, in conferenza stampa (foto Ap/Evan Vucci)

(Andrea Marinelli) (...) Nel giro di 48 ore, i dubbi sulla lucidità del presidente degli Stati Uniti — che lo perseguitano dalla scorsa campagna elettorale — hanno ricominciato a circolare insistentemente, aiutati da una buona dose di propaganda che trasporta le sue gaffe negli angoli più remoti del web. Biden è un uomo di 81 anni provato da una storia personale tragica e con alle spalle una lunga battaglia contro la balbuzie con cui è sceso a patti a vent’anni, che nel febbraio 1988 — durante la sua prima campagna elettorale — è sopravvissuto alla rottura di due aneurismi, con un recupero che l’istituto di neuroriabilitazione Moody ha definito «incredibile».

Di certo ha seminato gaffe per tutta la sua carriera politica, al punto che lui stesso nel 2018 si definì con un po’ di orgoglio una «macchina da gaffe». L’anno successivo il commentatore politico del Washington Post Dana Milibank rilanciò: «Non è solo una macchina, è una Lamborghini delle gaffe». L’allora candidato democratico non era riuscito a ricordare lo Stato in cui aveva appena tenuto un comizio. «Cosa può non piacere del Vermont?», aveva chiesto al pubblico del New Hampshire. Nel 2006, del resto, aveva chiarito una cosa sulle sue aspirazioni presidenziali: «Preferisco stare a casa a fare l’amore con mia moglie, mentre i nostri figli dormono».

Sempre durante la campagna elettorale del 2020 disse che Bobby Kennedy e il Dr. King erano stati assassinati negli anni Settanta, «alla fine degli anni Settanta», precisò, «quando mi sono fidanzato». Aveva sbagliato di un decennio, e forse anche fidanzamento: alla fine degli anni Settanta ha sposato la first lady Jill Biden; alla fine degli anni Sessanta — Kennedy e Martin Luther King Jr. sono stati uccisi nel 1968 — aveva sposato la prima moglie Neilia, morta tragicamente in un incidente d’auto insieme alla figlia di un anno Naomi una settimana prima di Natale, nel 1972.

Negli anni ha confuso Margaret Thatcher sia con Angela Merkel che con Theresa May; ha invertito il primo e il secondo emendamento della costituzione americana; ha annunciato che «100 americani sono morti per Covid»; ha sostenuto che «i ragazzini poveri sono brillanti e talentuosi come quelli bianchi»; ha invitato un senatore statale del Missouri in sedia a rotelle ad alzarsi per ricevere l’applauso del pubblico durante un comizio nel 2008, ai tempi della sua seconda campagna presidenziale; ha affermato di aver conosciuto «otto presidenti americani di cui tre intimamente»; ha morso il dito alla moglie Jill che si sbracciava davanti a lui durante un comizio.

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3. Chi è il procuratore speciale Robert Hur
editorialista
di Alessandra muglia

imageIl procuratore speciale Robert Hur, 51 anni

È un ex funzionario repubblicano di alto livello con esperienza decennale al dipartimento di Giustizia nel perseguire indagini su fughe di notizie sensibili l’uomo che ha guidato l’inchiesta sulla presunta cattiva gestione di materiale riservato da parte di Joe Biden: Robert Hur, asiatico-americano di New York, 51 anni, studi a Harvard e alla Stanford Law School, sposato dal 2004 con la procuratrice Cara Brewer, tre figli, è l’autore del rapporto di 388 pagine pubblicato ieri, dove si spiega perché il Dipartimento di Giustizia americano non sporgerà denuncia contro il presidente per aver gestito in modo improprio documenti riservati della sua vicepresidenza.

L’anno scorso Hur era stato nominato consulente speciale per questa indagine dal procuratore generale Usa Merrick Garland, ed era così tornato al lavoro nel settore pubblico, al ministero di Giustizia, lasciato nel 2021, in concomitanza con la fine della presidenza Trump. Dal 2018 al 2021 Hur ha diretto il distretto del Maryland, uno degli uffici della procura degli Stati Uniti più grandi e attivi. In quel ruolo ha supervisionato i procedimenti giudiziari di successo contro suprematisti bianchi, truffatori di fondi Covid-19, autori di crimini d’odio contro gli asiatici americani e boss dei cartelli della droga. Il suo ufficio ha anche lavorato alle indagini e al processo contro l’ex appaltatore della National Security Agency Harold Martin, accusato di aver preso enormi quantità di materiale riservato e di averlo conservato nella sua casa di Glen Burnie, nel Maryland.

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4. La Corte Suprema fa sperare Trump

imageL’avvocato di Trump, Jonathan Mitchell, davanti ai nove giudici supremi (foto Ap/Dana Verkouteren)

(Viviana Mazza) È un momento eccezionale nella Storia americana: il caso Trump v. Anderson sulla squalifica dell’ex presidente dalle primarie del Colorado, ascoltato ieri dalla Corte suprema degli Stati Uniti, è stato paragonato per il potenziale intervento della magistratura nelle elezioni presidenziali al controverso verdetto Bush v. Gore del 2000, quando i giudici fermarono il riconteggio dei voti in Florida, cementando la vittoria di George W. Bush. I nove giudici non hanno ancora emanato il verdetto in Trump v. Anderson ma in tre ore di domande rivolte agli avvocati sono emersi chiari dubbi sulla decisione presa a dicembre dalla più alta Corte del Colorado di squalificare l’ex presidente in base alla sezione 3 del 14° emendamento della Costituzione.

La Corte del Colorado ha deciso che quella norma risalente alla Guerra civile, che vieta di candidarsi a funzionari degli Stati Uniti che siano stati coinvolti in un’insurrezione, si applica a Trump in quanto coinvolto nell’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021. La questione va ben oltre il Colorado: ci sono altri 35 Stati con casi simili (respinti, aperti o in sospeso). Mentre in Bush v. Gore i giudici affermarono che il loro verdetto era unico e non poteva costituire un precedente giuridico, ieri hanno valutato attentamente il peso della loro decisione sulle elezioni di novembre che vedono Trump ormai vicino alla nomination che lo confermerà il rivale del presidente Biden.

Diversi dei giudici — sia conservatori che progressisti — hanno sollevato il problema di dare ad un singolo Stato, il Colorado, il potere di squalificare un candidato ad una carica nazionale. Elena Kagan, nominata da Obama, ha ipotizzato che se il Wisconsin o il Michigan o un altro Stato in bilico lo facesse, potrebbe decidere la vittoria del «candidato A o B» per l’intera nazione. Brett Kavanaugh, nominato da Trump, ha suggerito che la squalifica sarebbe un danno alla democrazia, privando gli elettori del diritto di scegliere (l’avvocato Jason Murray gli ha risposto che nel 2020 Trump ha cercato di «privare 80 milioni di elettori che votarono contro di lui dei loro diritti»).

Anche il giudice capo John Roberts ha osservato che altri Stati potrebbero reagire rimuovendo per «insurrezione» altri candidati (non ha nominato esplicitamente Biden). Solo alla fine la giudice Ketanji Brown Jackson, la più progressista, nominata da Biden e che ha giudicato alcuni rivoltosi del 6 gennaio chiarendo di considerarli una minaccia alla democrazia, ha posto la domanda se l’assalto al Congresso sia un’insurrezione. Ma la discussione si è incentrata su domande procedurali: il presidente può essere considerato un «funzionario degli Stati Uniti», visto che non viene esplicitamente menzionato nella sezione 3? E chi ha il potere di squalificarlo: gli Stati o il Congresso?

I giudici sembravano orientati a questa seconda opzione. Secondo alcuni osservatori, potrebbero arrivare all’unanimità nel respingere la squalifica del Colorado. Trump ha definito l’udienza «una bellissima cosa». Ma alcuni esperti fanno notare che se la Corte prenderà una decisione basata su temi procedurali e non dirà se a Trump sia permesso dalla Costituzione di tornare presidente, in caso di una sua vittoria potrebbe esserci una crisi costituzionale quando il Congresso dovrà certificarla.

Non finisce qui comunque per la Corte, che deve decidere se accettare di esprimersi sull’immunità di Trump e che ha già accettato di valutare se l’accusa di «ostruzione di procedimento ufficiale» si applichi o meno al 6 gennaio.

5. Scholz a Washington per sostenere l’Ucraina
editorialista
di Mara Gergolet
corrispondente da Berlino

imageIl cancelliere tedesco Olaf Scholz, a destra, e il senatore del Delaware Chris Coons, a sinistra. O è l’opposto?

Il cancelliere Scholz è a Washington, dove tra poche ore vedrà il presidente Biden. E per quando non sia prevista nessuna conferenza stampa, proprio questo dettaglio spiega quanto sia delicata la visita. Scholz si è fatto precedere da un editoriale sul Wall Street Journal, dove chiede agli alleati di non far mancare gli aiuti all’Ucraina. È un appello rivolto agli Usa (e sembra un rovesciamento o uno scherzo dover richiamare al rispetto dei patti gli americani, tanto che la Welt oggi titola «Ronald Reagan si sta rivoltando nella tomba»). Ma è anche un messaggio agli europei.

I tedeschi, che si sono ritrovati ad essere di gran lunga i principali finanziatori della guerra in Ucraina dopo gli Usa, guardano con orrore al fronte scoperto dell’Ucraina e all’abisso del contenimento della Russia, che sarà necessario affrontare se l’America (eventualmente trumpiana?) si ritirerà dall’Europa. Berlino sa che sarà chiamata a un ruolo che per tutto il dopoguerra ha rifiutato. Ma a differenza di altri Paesi almeno sta affrontando l’esigenza del riarmo: ha portato le spese militari al 2% del Pil. E Scholz si può presentare da Biden in modo credibile, con i compiti a casa fatti.

Di cos’altro parleranno? Due i dossier più delicati. Se i tedeschi sbloccheranno l’invio dei missili a lungo raggio, i Taurus: un passo verso l’integrazione della difesa aerea ucraina nell’apparato Nato. Rispetto al quale — per le conseguenze quasi irreversibili che comporta — Berlino è molto cauta.

Infine si affronterà il tema dei negoziati. Si sta muovendo qualcosa? Forse non è un caso che a Berlino si torni a parlare, in modo positivo, dei famigerati accordi di Minsk, che «congelarono» la guerra ucraina nel 2014. Qualsiasi cosa si diranno Scholz e Biden, poco probabilmente trapelerà oggi. Saranno gli annunci tedeschi delle prossime settimane a spiegare come è andata veramente la visita.

P.S. Ogni tanto il cancelliere «buca» Twitter, o meglio X. Succede con i selfie, come quando si era fotografato con la benda nera all’occhio dopo un incidente di jogging. Ieri l’ha rifatto incontrando il suo sosia, il senatore bideniano Chris Coons. «Great to see my Doppelgäanger again», ha scritto, dimostrando un certo, ben nascosto, senso dell’umorismo.

6. Zelensky licenzia Zaluzhny: «È il momento di cambiare»
editorialista
di Lorenzo Cremonesi
inviato a Kharkiv

imageL’ex capo di stato maggiore ucraino Valery Zaluzhny, 50 anni (foto Ansa)

Volodymyr Zelensky compie uno dei passi più difficili in questi due anni di guerra: licenzia il comandante in capo delle sue forze armate, il generale cinquantenne Valery Zaluzhny. Al suo posto nomina Oleksandr Syrskyi, capo dell’esercito, un generale che comunque si distinse nelle prime vitali battaglie per la protezione di Kiev e più tardi partecipò alle offensive per la liberazione delle regioni attorno a Kharkiv e la difesa del Donbass.

Una scelta sofferta, maturata col crescere degli scontri e delle frizioni tra il presidente e il suo generale più importante. La fallita controffensiva dell’estate scorsa, lo spreco delle armi inviate dagli alleati e le critiche espresse allora dal Pentagono contro Zaluzhny avevano convinto Zelensky che fosse necessario un rinnovamento. Già due settimane fa la rottura sembrava consumata, ma poi la rapidità delle indiscrezioni apparse sulla stampa (e ampliate dalla propaganda di Mosca) aveva indotto Zelensky a rimandare.

Addirittura, c’era chi aveva ipotizzato ci fosse un ripensamento. Poi, ieri alle sei locali del pomeriggio, l’annuncio. «Abbiamo discusso del rinnovamento delle forze armate e anche di chi debba esserne alla guida. Il tempo del rinnovamento è adesso», ha annunciato il presidente. «Gli obiettivi del 2024 sono diversi da quelli del 2022. Tutti dobbiamo accettare i cambiamenti e adattarci alla nuova realtà. Vinceremo assieme», ha replicato il generale.

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Qui il retroscena sul licenziamento del generale Zaluzhny.

7. Syrsky, il generale «sovietico» che riorganizzerà le linee ucraine
editorialista
di Marta serafini

imageIl nuovo capo di stato maggiore ucraino Oleksandr Syrsky, 58 anni (foto Afp)

Un generale amato dai suoi uomini, in cambio di uno meno amato, un «leopardo delle nevi», come venne soprannominato nel 2014. «Pedante e puntiglioso, il colonnello generale Oleksandr Syrsky è uno di quegli ufficiali esperti che si preparano a tutte le circostanze impreviste». Lo ha descritto così il Washington Post l’agosto scorso. E in effetti, Syrsky, che ieri Zelensky ha nominato capo di stato maggiore, di colpi ne ha piazzati.

Nel settembre 2022, mentre avanzava a Est per piantare la bandiera ucraina su Izyum, il generale, capo delle forze di terra, viene glorificato in patria insieme al suo capo, Valery Zaluzhny. Secondo lo Spiegel, è sua l’idea di distrarre i russi a Est per prendere Kherson a Sud e sarebbe stato sempre lui a individuare nel villaggio di Balakliya, il punto debole su cui spezzare le linee russe. Ma l’attribuzione di questo merito resta nella leggenda.

Due facce della stessa medaglia. Al generale Syrsky è attribuita la mossa di non ritirarsi da Bakhmut alla fine del 2022, lasciando che migliaia di giovani ucraini muoiano al fronte. Ed è allora che il comandante delle forze di terra, si sarebbe definitivamente conquistato il soprannome di «macellaio», che manda a morte i suoi uomini senza troppi scrupoli.

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8. La versione di Putin
editorialista
di massimo Gaggi
da New York

imageVladimir Putin e Tucker Carlson: la prima intervista del nuovo zar a un media occidentale dopo l’invasione dell’Ucraina (foto Afp/Gavriil Grigorov)

«Prima o poi Russia e Ucraina arriveranno a un accordo. Sarebbe stato possibile già quando ci siamo ritirati da Kiev. Nel negoziato di Istanbul si era arrivati a una bozza di accordo. La guerra poteva finire un anno e mezzo fa. Ma poi i Paesi occidentali, soprattutto su pressione dell’allora premier britannico Boris Johnson, chiesero all’Ucraina di andare fino in fondo nel conflitto con la Russia». Isolato da quando, due anni fa, invase l’Ucraina, Vladimir Putin rialza ora la testa grazie al megafono offertogli da Tucker Carlson, il giornalista grande sostenitore di Donald Trump che ha pubblicato ieri sul suo sito (Tucker Carlson Network) l’intervista-fiume (2 ore e 7 minuti) che il presidente russo gli ha concesso il 6 febbraio al Cremlino.

Putin ha mandato qualche messaggio rassicurante dicendo che «non abbiamo nessun interesse ad attaccare Polonia, Lituania o altri Stati», ma è tornato ad accusare gli Stati Uniti e la Nato di essere i veri responsabili dell’invasione di un Paese sovrano: l’attacco che è stato lui a ordinare, due anni fa. Ha accusato di nuovo la Cia di aver fomentato nel 2014 un colpo di stato antirusso a Kiev e ha denunciato l’allargamento della Nato nell’Est europeo, passando per una ricostruzione storica dell’evoluzione della Grande Russia che lo porta a parlare dell’Ucraina come di uno «Stato artificiale».

Meglio Trump di Biden? È questione di mentalità. Il Cremlino vorrebbe di nuovo Trump alla Casa Bianca? Putin risponde che non è questione di personalità del leader ma di mentalità: la sua e quella del gruppo dirigente che lo circonda. E aggiunge: «Con George Bush ho avuto un ottimo rapporto umano, ma ha fatto errori politici enormi che hanno contribuito alla situazione attuale». Poi ironizza sullo scontro con Biden: «Non ricordo l’ultima volta che ci siamo parlati: non posso ricordare tutto. Certo, per dialogare bisogna parlarsi».

E subito un’altra accusa alla Cia: «È responsabile del sabotaggio del gasdotto NordStream». Sicuro? Ha le prove? Putin, che più volte durante l’intervista rifiuta di entrare in questioni di intelligence e di riferire i contenuti di colloqui riservati coi leader occidentali, sostiene che il combinato disposto di due fattori essenziali — chi aveva interesse al sabotaggio e chi era tecnicamente in grado di farlo nelle acque profonde del Baltico — porta verso i servizi segreti Usa. Poi un altro piccolo segnale distensivo: possibile un accordo per la liberazione del giornalista del Wall Street Journal detenuto in Russia. Ne stanno discutendo gli uomini dell’intelligence dei due Paesi. E da una considerazione sui futuri destini dell’umanità: «Quando capiremo che intelligenza artificiale e genetica sono fuori controllo raggiungeremo un accordo internazionale per regolamentare».

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9. Gershkovich per l’assassino del Tiergarten?

imageEvan Gershkovich, 33 anni, durante un’udienza in tribunale a Mosca (foto Ap/Alexander Zemlianichenko)

(Mara Gergolet) Tra le tante domande che l’intervista di Tucker Carlson sollevava nella piccola comunità globale dei giornalisti, ce n’era una particolarmente sentita: avrebbe chiesto, e come, di Evan Gershkovich, il giornalista del Wall Street Journal in carcere in Russia, semplicemente perché faceva il suo mestiere? Carlson l’ha fatto, chiamando Gershkovich «kid», ragazzo, e non «spia». Putin ha obiettato che era stato «colto in flagrante» con informazioni riservate.

Poi però Putin ha dato delle notizie importanti. Che i servizi russi e americani ne stanno parlando, che «non è un tabù risolvere questa questione». E ha menzionato «una persona che sta scontando una condanna in un Paese alleato degli Stati Uniti. Quella persona, per motivi patriotici, ha eliminato un bandito in una delle capitali europee». Anche se Putin non ne ha fatto il nome, si tratta di Vadim Krasikov. È un agente dell’Fsb condannato all’ergastolo in Germania per l’assassinio di un dissidente ceceno a Berlino, a due passi dal Tiergarten, nel 2019. Insomma Putin ha dato una notizia: stiamo trattando. E anche questo è un punto di cui Biden e Scholz questo pomeriggio parleranno.

10. Blinken: «La tregua non è morta»
editorialista
di Davide frattini
inviato a Tel Aviv

imageIl segretario di Stato americano Antony Blinken, a sinistra, con l’ex ministro della Difesa Benny Gantz (foto Afp/Mark Schiefelbein)

Due ore, due giorni, due settimane. «E due mesi se dovessero servire». L’offensiva dentro Khan Younis va avanti massiccia, «stiamo distruggendo l’infrastruttura di Hamas e ci prenderemo tutto il tempo necessario», spiega una fonte militare all’agenzia Reuters. L’intelligence resta convinta che Yahya Sinwar, il capo di Hamas, sia nascosto nelle gallerie scavate sotto la cittadina dov’è nato e cresciuto. Il pianificatore della mattanza di oltre quattro mesi fa nel sud di Israele avrebbe però «perso i contatti — rivela il telegiornale del canale pubblico — con gli altri leader» e non sarebbe stato coinvolto nella risposta presentata dai fondamentalisti sulla bozza d’intesa per la liberazione degli ultimi ostaggi e per una tregua nei combattimenti.

Così gli israeliani mandano messaggi attraverso la televisione che nei tunnel attrezzati e sofisticati dovrebbe ancora funzionare: «Se libera i rapiti e lascia la Striscia, per noi non è un problema», commenta all’emittente americana Nbc un consigliere del premier Benjamin Netanyahu. Che però ha ribadito: «Elimineremo tutti i capi terroristi». La fuga in esilio sarebbe l’ipotesi Yasser Arafat 1982, quando il raìs palestinese — dopo messi di assedio israeliano — se ne andò con le sue milizie da Beirut a Tunisi, dove il Mossad tentò peraltro di ammazzarlo.

L’esercito ha intensificato i bombardamenti su Rafah, al confine con l’Egitto: Netanyahu ha dichiarato di aver dato ordine di attaccare l’area, dove sono ammassati gli sfollati e le tendopoli tirate sono schiacciate attorno alle case della città. «Condurre un’operazione in un territorio che dà rifugio a quasi 2 milioni di persone senza averci prima pensato a lungo sarebbe un disastro. Siamo contrari», commenta il portavoce del consigliere per la Sicurezza nazionale alla Casa Bianca. Anche se per ora gli americani non vedono «segnali che l’incursione sia imminente».

Antony Blinken, il capo della diplomazia, è tornato a Washington con la speranza che «ci sia ancora spazio» per i negoziati «pur con molto lavoro da fare». La delegazione di Hamas è arrivata ieri al Cairo per continuare le trattative: «Ci aspettiamo negoziati molto complessi», ma «i fondamentalisti sono aperti alle discussioni», spiega una fonte egiziana all’agenzia France Press. Nonostante Netanyahu abbia definito le richieste dell’organizzazione «deliranti», il consiglio di guerra ristretto si è riunito ieri sera a Tel Aviv per discutere la replica dei jihadisti al documento delineato quasi due settimane fa dagli americani assieme al Qatar e agli egiziani.

Il presidente Joe Biden lunedì riceve re Abdallah di Giordania e vuole confrontarsi con lui sulla possibilità della nascita di uno Stato palestinese e «di una pace durevole», mentre il conflitto rischia di diventare totale anche sul fronte nord: il missile sparato da un drone ha ucciso nel sud del Libano un comandante di Hezbollah, il gruppo sciita sostenuto dall’Iran che continua a bersagliare il nord di Israele

11. A Rafah senza via d’uscita: «Davanti un muro, dietro i tank»
editorialista
di Greta Privitera

Hanno bombardato? «Riuscite a farci uscire? Siamo in sei: io, mia moglie e i miei quattro figli». Di dove siete? «Potete parlare con il vostro ministro degli Esteri e dirgli di portarci fuori?».

Abed Zagout, 38 anni, fotografo di Gaz a, prima di raccontare, chiede aiuto. Benjamin Netanyahu ha rifiutato l’accordo di tregua con Hamas e ha dichiarato di voler avanzare proprio su Rafah, l’ultima città a Sud, a ridosso del muro che divide la Striscia dall’Egitto. «Siamo di Khan Younis, da due mesi viviamo in un una tenda. Ci avevano detto di fuggire qui perché era un posto sicuro, l’unico luogo che non avrebbero bombardato». E invece no. Anche l’ultimo «recinto di pace» rimasto a Gaza potrebbe diventare terreno di scontri delle truppe di Netanyahu impegnate a stanare i miliziani di Hamas. Ieri, in un bombardamento sono stati uccisi sedici palestinesi. «Potete fare qualcosa per noi?», continua Zagout.

Lasciare Gaza è quasi impossibile senza doppio passaporto, l’unico altro modo per farlo è quello di pagare tangenti — spesso in contanti — ai cosiddetti «intermediari» che gestiscono il proficuo traffico delle uscite: il prezzo medio va dai cinque ai dieci mila dollari a persona.

Rafah è una distesa sterminata di tende, diventata casa per oltre un milione e mezzo di gazawi in cerca di rifugio. Ci sono quelle bianche delle Ong, e poi ci sono quelle colorate, sgangherate, che stanno in piedi grazie a dei bastoni ricavati dai rami degli alberi e dei cartoni malridotti. Zagout vive in una tenda colorata, costruita da lui. «Volete sapere che cosa succede a Rafah?». Fa partire una videochiamata. La connessione va e viene ma quando riusciamo a collegarci veniamo catapultati su un altro pianeta.

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TACCUINO MILITARE | La prevenzione degli Stati Uniti
editorialista
di Guido Olimpio

Gli Usa in Mar Rosso puntano sulla «prevenzione», raid per impedire agli Houthi di portare attacchi. È un modo di avere l’iniziativa: nelle ultime ore sono stati distrutti 4 droni esplosivi marittimi e sette missili da crociera antinave pronti al lancio. Questo tipo di operazione richiede una sorveglianza costante delle zone sotto il controllo dei militanti filoiraniani, infatti è stata segnalata spesso l’attività dei ricognitori statunitensi.

Il premier israeliano Netanyahu continua a sostenere che l’offensiva proseguirà fino alla neutralizzazione della minaccia di Hamas a Gaza. E, allora, secondo le valutazioni dell’intelligence statunitense l’obiettivo non sarebbe così vicino: l’Idf — sostengono fonti citate dal New York Times — ha eliminato solo un terzo dei guerriglieri ed è un errore misurare il successo con il numero di nemici eliminati.

I portavoce di Gerusalemme, però, insistono nel descrivere le difficoltà del movimento palestinese ed in particolare del suo leader, Yahya Sinwar. Nascosto nei tunnel a Khan Younis, avrebbe seri problemi nel comunicare con le «brigate» di combattenti.

12. Samantha Power in Michigan per placare gli arabi americani

imageSamantha Power, 53 anni,capo dell’ufficio Usaid per lo sviluppo internazionale

(Viviana Mazza) Samantha Power, capo dell’ufficio Usaid per lo sviluppo internazionale, e altri funzionari della Casa Bianca hanno incontrato ieri a Dearborn, in Michigan, alcuni leader della comunità araba-americana che hanno sollevato forte dissenso per la politica americana in Israele e il suo rifiuto di appoggiare gli appelli ad un cessate il fuoco. La scorsa settimana, era stata inviata la manager della campagna elettorale del presidente, Julie Chávez Rodríguez, ma diversi leader locali tra cui il sindaco di Dearborn Abdullah Hammoud avevano rifiutato di incontrarla, dicendo di voler parlare con lo staff che è direttamente impegnato nelle politiche che riguardano Israele e Gaza.

All’incontro di ieri, oltre a Samantha Power, hanno partecipato Tom Perez, direttore dell’ufficio della Casa Bianca per gli affari intergovernativi, e Jon Finer, viceconsigliere per la sicurezza nazionale. Oltre alla campagna «Abandon Biden», lanciata da alcuni leader arabi-americani in diversi Stati in bilico, alcuni democratici in Michigan hanno lanciato un movimento contro il presidente nelle primarie del 27 febbraio: chiedono agli elettori di scrivere «uncommitted» (non impegnato, indeciso) sulla scheda elettorale. Il presidente democratico non ha sfidanti nelle primarie, ma la sua preoccupazione riguarda una perdita di affluenza alle urne da parte dell’elettorato arabo-americano, dei giovani e dell’elettorato afroamericano in vista delle elezioni generali, in cui il Michigan è uno stato in bilico cruciale.

L’incontro è durato due ore ed è stato «intenso» e «diretto», secondo i partecipanti, che hanno descritto le emozioni della comunità e chiesto passi concreti per un cessate il fuoco permanente, condizioni chiare per gli aiuti militari a Israele, impegno serio per la ricostruzione di Gaza. Il sindaco Hammoud, il deputato statale Abraham Aiyash, il direttore del giornale «Arab American News» Osama Siblani hanno partecipato, ma hanno avvertito che se le politiche su Gaza non cambiano rifiuteranno incontri futuri.

13. Kim dice che il Nord «ha il diritto legale di annientare il Sud»
editorialista
di Guido Santevecchi

La Nord Corea «ha il diritto legale di annientare» la Sud Corea. È il parere espresso da Kim Jong-un mentre, con la figlia al fianco, visitava il palazzone del Ministero della Difesa a Pyongyang. Il Maresciallo ha spiegato che la Repubblica popolare democratica di Corea (nome ufficiale del Nord) «si è assicurata la base legale di un attacco distruttivo in qualsiasi momento dopo aver definito la Sud Corea “Paese ostile e primo nemico” nella recente riforma legislativa».

Da gennaio Kim ha cominciato a propagandare la sua nuova strategia, che si propone di «occupare completamente e sottomettere il Sud, per incorporarlo nel territorio della nostra Repubblica». Sono stati intensificati i preparativi per un’azione militare, con lanci di missili da crociera, di ordigni ipersonici, di droni sottomarini. Alcuni analisti americani hanno tratto la conclusione che «come il nonno Kim Il Sung nel 1950, Kim Jong-un abbia preso la decisione strategica di andare alla guerra».

14. Cronache americane

(Guido Olimpio) California. Luiz Gustavo Aires, 50 anni, originario di Miami, ha rubato un piccolo aereo sulla pista di Palo Alto ed è poi stato protagonista di un atterraggio «rude» sulla spiaggia di Half Moon Bay, a circa 40 chilometri di distanza. L’uomo è scappato ma è stato in seguito arrestato dagli agenti dello Sceriffo. Al momento non sono stati svelati particolari sulle motivazioni del gesto.

15. La faida greca

(Guido Olimpio) Grecia. La faida continua: Christos Gialias, 59 anni, imprenditore di successo, è stato assassinato a Mandra, in Attica. I sicari, come per altri agguati, hanno impiegato un fucile d’assalto Kalashnikov.

La vittima era una figura piuttosto nota, con interessi nel settore alimentare ma anche calcistico. In passato era finito sotto inchiesta e sua moglie era stata uccisa nel 2018, sembra durante un tentativo di rapina. Gialias viveva in una villa fortezza, di solito aveva una scorta e nel suo parco auto c’erano alcune vetture blindate che però il giorno dell’imboscata era ferme in garage.

L’omicidio dell’uomo d’affari segue altre esecuzioni, compresa quella di Vangelis Zamboulis, esponente di spicco della mala greca. Anche lui fatto fuori da killer «professionisti» armati di Ak.

16. Fuochi e botti (quasi) liberi in Cina per l’Anno del Drago

(Guido Santevecchi) Non capita spesso che il governo di Pechino ordini ad autorità locali e polizia di prendere in considerazione i sentimenti della gente nell’applicazione dei divieti di legge. È successo in questi giorni per un tema che accende (letteralmente) la psicologia nazionale: si tratta dei fuochi d’artificio del Capodanno lunare. I giochi pirotecnici sono una delle grandi invenzioni cinesi (assieme a polvere da sparo, produzione della carta, stampa e bussola). In origine, una quindicina di secoli fa, servivano ad allietare gli imperatori e a tenere lontano da villaggi e città «Nian», il mostro demoniaco che nella notte del Capodanno lunare attaccava le persone e gli animali domestici.

Le città della Cina somigliavano a zone di guerra per l’intensità dei botti di Capodanno. Alla metà dello scorso decennio però, il governo era intervenuto con restrizioni severe, per evitare incidenti e soprattutto l’inquinamento da polveri sottili che gravava per giorni e giorni sui centri abitati. Nel 2017, le autorità di 444 città della Repubblica popolare avevano vietato completamente i fuochi e altre 764 municipalità li avevano sottoposti a restrizioni rigorose. Anche a Pechino, impegnata a risolvere il suo grave problema di qualità dell’aria, la notte di Capodanno è diventata quasi pacifica.

Ma ci sono state lamentele e proteste, in particolare nel 2023 quando il Capodanno coincise con la fine dei lockdown per il Covid e la gente aveva una gran voglia di sfogarsi e festeggiare. Ora, per l’Anno del Drago che comincia domani 10 febbraio, il governo ha ordinato alle autorità locali di prendere in considerazione i sentimenti della gente e le circostanze di ogni agglomerato urbano nell’applicazione della legge. I giornali statali hanno potuto pubblicare sondaggi d’opinione dai quali è stato confermato che l’80 per cento dei cinesi sono favorevoli ai giochi pirotecnici in questi giorni di festa.

Il dibattito è arrivato anche all’Assemblea del Popolo, dove è stato osservato che «la legge deve essere adattata alle differenti realtà sul territorio». Un rispettato sociologo dell’Università Renmin ha spiegato che impedire totalmente e «acriticamente» i botti è una «soluzione amministrativa pigra» e che serve invece flessibilità. Su Weibo, principale social mandarino, è circolato l’appello: «Abbiamo diritto ai fuochi». Il Ministero per la gestione delle emergenze si è rassegnato a disporre che si vigili per evitare eccessi, ma tutto sommato chiudendo un occhio quando domani milioni di cinesi daranno fuoco alle polveri.

L’ammorbidimento delle restrizioni rende felici i produttori di giochi pirotecnici della provincia di Hunan, specializzata in questo settore industriale: il suo giro d’affari durante il Capodanno lunare è valutato in 4,4 miliardi di yuan, 570 milioni di euro.

17. Una matita a Sanremo per votare alle europee
editorialista
di Matteo Castellucci

imageGazzelle e Rose Villain sul palco di Sanremo con la matita

Il Fantasanremo è un fantacalcio che parla anche alla parte di Paese non invasata di pallone (le due platee sono sovrapponibili, naturalmente, ma questa è pur sempre la «settimana santa» del Festival). Sul palco, ieri sera, potreste aver notato un’aggiunta presa in prestito dalla cancelleria agli outfit degli artisti: una matita, o più di una (Dargen D’Amico sfoggiava quasi un astuccio nel taschino). Tra gli avvistamenti (lista incompleta): Mannino, i Santi francesi, Big Mama, Ricchi e poveri, Il volo, Gazzelle, che se l’è scambiata con Rose Villain. «Te la ridò a giugno», gli ha detto lei. Ecco un indizio.

Perché a giugno? L’8 e 9 giugno 2024 si vota alle elezioni europee e l’iniziativa — con annesso bonus di 20 punti al Fantasanremo — l’hanno pensata gli uffici italiani di Europarlamento e Commissione europea per sensibilizzare sull’«importanza di un diritto che abbiamo tutti e che non dobbiamo sprecare: il diritto di voto». Un diritto accidentato, in Italia, per 5 milioni di cittadini fuorisede che, in quella matita, vedono il simbolo di un’altra battaglia: una legge che consenta loro di esprimersi da remoto o fuori dal Comune di residenza, come avviene in tutti gli altri Paesi dell’Unione (tranne Malta e Cipro, isole con una superficie meno estesa, per dire, della sola Lombardia).

Grazie per averci letto fin qua. Buon fine settimana!

Andrea Marinelli


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