Alzheimer, i cambiamenti silenziosi nel cervello che precedono la malattia (fino a 18 anni prima)

diCristina Marrone

Un'ampia ricerca durata venti anni ha scoperto la cronologia dell'accumulo di proteine tossiche nel cervello. I cambiamenti cerebrali avvengono anni prima della manifestazione dei sintomi.

L'Alzheimer devasta in modo silenzioso il cervello molto prima che compaiano i sintomi. Quando i pazienti vengono sottoposti a test cognitivi per arrivare a una diagnosi, molto spesso la malattia ha già eroso la memoria e il pensiero. Gli scienziati non sanno esattamente come si forma l'Alzheimer, ma uno dei segni distintivi è l'accumulo di proteina beta-amiloide nel cervello. Tuttavia l'amiloide, da sola, non è sempre sufficiente a danneggiare la memoria: molti pazienti, pur con placche di amiloide nel cervello, non presentano problemi nei ricordi. Altre proteine, come la tau, concorrono nel danneggiare i neuroni ed ora uno studio appena pubblicato sul New England Journal of Medicine offre una cronologia su come si susseguono nel tempo i cambiamenti cerebrali.

I marcatori dell'Alzheimer con anni di anticipo

Un ampio studio condotto in Cina ha monitorato per venti anni adulti di mezza età e anziani con scansioni cerebrali, prelievi spinali e test cognitivi. Rispetto a coloro che sono rimasti cognitivamente sani le persone che alla fine hanno sviluppato la malattia avevano livelli più alti di diverse proteine caratteristiche della malattia di Alzheimer. I ricercatori del Centro di innovazione per i disturbi neurologici di Pechino hanno confrontato 648 persone con diagnosi di Alzheimer con un numero uguale di persone rimaste sane. Nei futuri pazienti di Alzheimer sono stati trovati livelli di tossici di beta amiloide nel liquido cerebrospinale, (che determina le alterazioni neuropatologiche) addirittura tra i 18 e i 14 anni prima della diagnosi. Successivamente, con 11 anni di anticipo, sono stati rilevati livelli anomali di proteina tau fosfolidata; nove anni prima della diagnosi è comparso il danno neuronale aspecifico (neurofilamento). Pochi anni dopo sono diventati evidenti nei due gruppi le differenze nella dimensione del cervello e nei punteggi dei test cognitivi. Man mano che il deterioramento cognitivo progrediva i cambiamenti dei livelli di biomarcatori nel liquido cerebrospinale nel gruppo con malattia di Alzheimer inizialmente acceleravano, per poi rallentare.

La comparsa dei biomarcatori nel tempo

Monitorare i cambiamenti silenziosi del cervello è fondamentale per la ricerca. Era già noto che nelle forme rare ed ereditarie di Alzheimer che colpiscono i giovani, una forma tossica di amiloide inizia ad accumularsi due decenni prima della manifestazione dei sintomi e in un secondo momento entra in azione la proteina tau. Il nuovo lavoro, con il pregio di aver seguito i partecipanti per due decenni, mostra che l'ordine temporale dei cambiamenti di questi particolari biomarcatori riguarda anche la forma più comune del morbo di Alzheimer. «Lo studio è interessante perché segue per venti anni una coorte di persone decisamente ampia, sebbene esclusivamente di etnia cinese» commenta Alessandro Padovani, presidente della Società Italiana di Neurologia (Sin) e direttore della Clinica neurologica agli Spedali Civili di Brescia. «Il dato forte del lavoro - dice Padovani, che è anche docente di Neurologia all'Università degli Studi di Brescia -  è il mettere in fila quei marcatori oggi ritenuti chiaramente correlati al decorso della malattia: prima l'accumulo della beta amiloide, che è il primo step verso la malattia; dopo vediamo la progressiva alterazione della proteina tau e poi la degenerazione misurata con neurofilamenti. E tutte queste alterazioni, a livello liquorale, si identificano molto prima della comparsa dei sintomi clinici».

Un legame con i farmaci anti Alzheimer

Secondo il parere di molti scienziati i risultati di questo studio, unito ad altri lavori, potrebbero giustificare il fatto che i  farmaci monoclonali anti Alzheimer (per ora utilizzati solo negli Stati Uniti) non siano così efficaci a livello clinico come ci si potrebbe aspettare. I pazienti spesso non si rendono conto dei benefici, nonostante a livello biologico si registrino miglioramenti (gli accumuli di beta amiloide nel cervello calano). Questi farmaci sono offerti a chi manifesta sintomi iniziali della malattia, ma se si considera il punto di vista biologico (ovvero l'inizio di accumulo di proteina tossiche), è ipotizzabile che la terapia inizi probabilmente in «ritardo», in una fase in cui la malattia ha già accumulato molto danno neuropatologico, e questo renderebbe difficile una reversibilità tangibile.

Il ruolo dei biomarcatori plasmatici 

Lo studio cinese è particolarmente eccezionale (il prelievo sistematico del liquor cerebrospinale è un esame invasivo) e difficilmente potrà essere replicato sul nostro territorio per motivi etici. «Oggi abbiamo biomarcatori a livello plasmatico (in fase di validazione a livello clinico) - sottolinea Alessandro Padovani - che performano in modo simile al livello liquorale con costi più contenuti e decisamente meno invasivi. Non è impossibile allora cominciare a studiare coorti per un certo numero di anni per capire  come evolvono non solo i marcatori, ma anche il rischio di andare incontro a una demenza. Non diagnostichiamo in modo pecoce la malattia di Alzheimer con un dosaggio plasmatico, ma stiamo procedendo rapidamente per utilizzare i biomarcatori plasmatici con lo scopo di identificare le persone a rischio di demenza». In questo modo sarà più semplice individuare pazienti candidati ai farmaci anti Alzheimer prima della manifestazione dei sintomi.

Identificare i profili di rischio

«Il biomarcatore, che sia liquorale o plasmatico, permette comunque di  costruire un quadro neuropatologico, identificando pazienti con alterazioni dell'amiloide, o della proteina tau o entrambe, un po' come se fosse una biopsia liquida che viene eseguita per altre condizioni» chiarisce Padovani. Tutto questo permetterebbe di cofigurare un profilo di rischio e di selezionare i pazienti anche per  verificare se i farmaci funzionano e in quali categorie di pazienti funzionano meglio.  «Tuttavia ci interessano anche altri elementi - conclude il presidente della Sin - come  vedere qual è il rapporto tra altre malattie e il morbo Alzheimer.  Questi marcatori potrebbero identificare tra i pazienti con diabete o resistenza all'insulina quelli a maggior rischio; potremmo chiarire meglio se alcuni farmaci utilizzati per l'ipertensione possono essere utili, come alcuni ritengono, a rallentare la malattia di Alzheimer; possono contribuire a chiarire se effettivamente una terapia probiotica ritarda l'esordio della malattia. Nel frattempo possiamo lavorare sui fattori di rischio, ad esempio offrendo suggerimenti a chi ha un profilo di rischio alto per rallentare la malattia». La pressione arteriosa alta, ad esempio, è un co-fattore sotto diagnosticato nel 60% della popolazione. Con la giusta prevenzione potrebbero essere evitate 4 diagnosi di Alzheimer su 10. Sapere che si è positivi a un biomarcatore non può che essere uno stimolo a lavorare con impegno e costanza sulla prevenzione con l'obiettivo di cambiare la storia naturale della malattia».

24 febbraio 2024

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