Scandalo a Tokyo, inchiesta su Joe Biden a Washington AmericaCina del 14 dicembre

America-Cina Il Punto | La newsletter del Corriere della Sera
testata
Giovedì 14 dicembre 2023
Scandali, inchieste, accordi e condanne
editorialista di Andrea Marinelli

Buongiorno,

bentornati a bordo di questa newsletter che batte bandiera sino-americana: oggi seguiamo le nostre abituali rotte, modificate dagli eventi degli ultimi due anni.

Si parte da Washington per l’inchiesta parlamentare sull’impeachment a Joe Biden, si prosegue verso Tokyo per il più grande scandalo politico degli ultimi 30 anni (sopra, nella foto Epa di Franck Robichon, il primo ministro Fumio Kishida), ci si ferma a Kiev, Mosca (dove Putin ha tenuto il tradizionale discorso di fine anno), Gerusalemme, Gaza per capire gli sviluppi delle guerre in corso, si passa a Dubai per valutare i risultati della Cop28, si osservano da lontano Pyongyang e le lacrime del Maresciallo Kim, si ascolta la condanna del banchiere volpe a Pechino, si arriva a Cancun per una faida della mafia canadese, ci si saluta alle isole Spratly, arcipelago conteso da Filippine e Cina dove è sbarcato un Babbo Natale di Manila.

In questa edizione infine vengono citate due volte — in due blocchetti diversi — sia Oslo che Baku: tappe inconsuete, ma obbligate.

Buona lettura.

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1. La Camera apre un’inchiesta parlamentare per l’impeachment a Joe Biden
editorialista
di Massimo Gaggi
da New York

imageLa conferenza stampa di Hunter Biden davanti alla cupola del Congresso americano (foto Ap/Jose Luis Magana)

Passo importante del Congresso Usa verso il tentativo dei repubblicani di arrivare a un impeachment nei confronti di Joe Biden. Nel giorno in cui il figlio del presidente, Hunter, ha accusato i trumpiani di stravolgere dati e testimonianze sui suoi reati finanziari per cercare di colpire il padre e si è rifiutato di testimoniare in Parlamento a porte chiuse dicendosi pronto a rispondere a tutto ma solo in un seduta pubblica, la Camera ha votato una mozione con la quale viene aperta ufficialmente un’inchiesta parlamentare per la raccolta di prove contro Joe Biden.

Tutti i democratici si sono opposti e hanno parlato di una vendetta per i due impeachment subiti da Trump, portata avanti senza prove, solo con teorie cospirative. Ma lo speaker, il repubblicano Mike Johnson, ha sottolineato che questa è solo una mossa preliminare per dare più poteri di indagine ai parlamentari. Parole che hanno convinto anche i moderati di destra, scettici sull’opportunità di un attacco parlamentare dopo che per un anno sono state cercate senza successo prove contro il presidente, a votare, compatti, con gli altri repubblicani, la mozione che è passata con 221 sì e 212 no.

Questo voto ha concluso una giornata tesissima apertasi di prima mattina con l’apparizione di Hunter Biden che, davanti alle telecamere delle tv americane e con alle spalle la cupola bianca del Campidoglio di Washington, ha spiegato il suo rifiuto della citazione con la quale la maggioranza repubblicana della Camera gli ha ordinato di presentarsi per una testimonianza da rendere a porte chiuse.

«Nelle profondità della mia dipendenza dalle droghe», ha detto il figlio del presidente, «ho fatto cose finanziariamente irresponsabili e ne sto rispondendo. Ma pensare che questo possa essere terreno d’indagine per un impeachment di mio padre va otre l’assurdo: è vergognoso. Sono pronto a testimoniare alla Camera in pubblico, non a porte chiuse. Da sei anni sono nel mirino della macchina degli attacchi di Trump: non accetto che le mie parole siano usate — come i repubblicani stanno facendo da anni — per disinformare facendo trapelare pezzetti delle deposizioni selezionati in modo da accreditare ricostruzioni fuorvianti, false».

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2. Ora cosa succederà?
editorialista
di Viviana mazza
corrispondente da New York

imageJoe Biden, 81 anni compiuti il 20 novembre (foto Afp/Jim Watson)

I repubblicani vorrebbero provare che, prima di arrivare alla Casa Bianca, Joe Biden abbia usato la sua carica di vice di Barack Obama per facilitare gli affari della sua famiglia. Il voto di ieri sera in sé cambia poco, ma avvicina i repubblicani ad un possibile voto per l’impeachment di Biden l’anno prossimo, a pochi mesi dalle elezioni del novembre 2024, e garantisce che questo sarà un tema di discussione mentre i repubblicani scelgono il loro candidato nelle primarie che cominciano in Iowa il 15 gennaio.

Biden verrà messo sotto impeachment?
I repubblicani che hanno votato per l’inchiesta per impeachment non dovranno per forza votare per l’impeachment. Ma c’è chi pensa che il voto di mercoledì sera possa costituire una spinta decisiva, perché se alla fine non lo fanno sembrerà che lo hanno assolto. Il deputato democratico del Maryland Jamie Raskin ha detto a Cbs News: «È come uno stallone in fuga, sarà impossibile da fermare».

Quanto durerà l’inchiesta?
Non è chiaro. Marjorie Taylor Greene, deputata repubblicana della Georgia, vicina a Trump, ha suggerito che potrebbe essere lunga. «Quello che voglio vedere è che si scavi davvero in profondità, con una inchiesta dettagliata, non importa quanto lunga, e potrebbero volerci mesi e mesi», ha detto ai giornalisti. «Potrebbe continuare fino alle elezioni di novembre».

Che differenza c’è tra «inchiesta per impeachment» e impeachment?
Lo speaker Mike Johnson, per raggiungere i consensi necessari all’approvazione (soprattutto da parte di deputati repubblicani vulnerabili nei distretti vinti nel 2020 da Biden) ha sottolineato la differenza tra votare per l’inchiesta e votare per l’impeachment. Alcuni repubblicani non sono convinti che ci siano prove che Joe Biden abbia commesso «tradimento, corruzione, altri gravi crimini o misfatti», ovvero le condizioni che rendono possibile al Congresso di rimuovere un presidente in carica. Il repubblicano Don Bacon del Nebraska, per esempio, ha detto ai giornalisti martedì scorso che «probabilmente non ci sono prove» che Joe Biden sia colpevole, ma ha ugualmente votato per l’inchiesta per impeachment, affermando che questo porterà la Casa Bianca a fornire documenti che è restia a consegnare (la Casa Bianca nega). Alcuni esperti sostengono che formalizzare l’inchiesta con un voto dia maggiori poteri al Congresso e che è più certo che i dipartimenti governativi cooperino; altri accademici controbattono che è solo una formalità. Secondo il Washington Post, diversi deputati repubblicani si sono convinti a votare mercoledì sera dopo una lettera di un avvocato della Casa Bianca che metteva in dubbio la legittimità della loro inchiesta.

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3. Il grande scandalo della politica giapponese
editorialista
di Costanza rizzacasa d’orsogna

imageIl primo ministro giapponese Fumio Kishida in conferenza stampa (foto Afp/Franck Robichon)

È il più grave scandalo della politica giapponese in oltre trent’anni. Decine tra ministri, viceministri e dirigenti della corrente Seiwaken del partito conservatore al potere Ldp sono sospettati di aver nascosto, attraverso l’uso illecito di un sistema di finanziamento ai partiti, una cifra che potrebbe superare i cinque miliardi di yen (32 milioni di euro). E quattro ministri sono stati costretti alle dimissioni: tra loro il braccio destro del premier Fumio Kishida.

Secondo la procura distrettuale di Tokyo, la potentissima corrente Seiwa Seisaku Kenkyukai del Partito Liberal Democratico (quella dell’ex primo ministro Shinzo Abe, ucciso in un attentato nel 2022, anche detta «corrente Abe») non avrebbe dichiarato il numero effettivo di biglietti venduti per le cene di finanziamento nel quinquennio 2018-22, pagando poi un premio in nero ai propri membri che avevano venduto un numero di biglietti superiore a quello assegnato. Le prime indiscrezioni risalgono ad agosto, ma la reazione dei media giapponesi era stata piuttosto trattenuta.

Mentre il governo crolla nei sondaggi (al 17%, il peggior risultato dal 2009), il primo ministro, Fumio Kishida, corre ai ripari, e annuncia l’ennesimo rimpasto (il terzo da quando si è insediato, due anni fa; l’ultimo era stato a settembre). I ministri costretti a dimettersi, tutti della corrente Abe, sono il portavoce di governo Hirokazu Matsuno, braccio destro di Kishida; il titolare dell’Economia Nishimura; il ministro degli Interni Suzuki e quello dell’agricoltura Miyashita.

imageKishida, al centro, con i quattro nuovi ministri del suo governo (foto Epa)

In particolare, Nishimura, figura chiave nelle ambizioni del Giappone per tornare leader mondiale nella produzione di chip, e che a giugno aveva dichiarato di voler sostituire lo stesso Kishida, avrebbe organizzato cene di fundraising «immaginarie». Altri nomi arriveranno nei prossimi giorni, mentre hanno già dato le dimissioni il responsabile delle proposte sul budget dell’Ldp, Koichi Hagiuda e altri sei viceministri. L’Ldp si trova così senza più rappresentanti nel Gabinetto, l’organo che esercita il potere esecutivo. E mentre la procura promette arresti, Kishida starebbe anche valutando se rimandare la visita di Stato in Brasile e in Cile, in programma a gennaio.

Intanto, il gradimento dell’Ldp è crollato sotto il 30% per la prima volta dal 2012. Tra gli implicati anche Seiko Hashimoto, l’ex potentissima ministra delle Olimpiadi, già coinvolta nello scandalo delle Olimpiadi di Tokyo 2020, che avrebbe intascato oltre 20 milioni di yen. Già nei guai nel 2014 per presunte molestie sessuali ai danni del pattinatore Daisuke Takahashi, Hashimoto, la cui famiglia è legata a uno dei quotidiani più importanti del Giappone, il Manichi, era diventata presidente del Comitato organizzativo di Tokyo 2020 rimpiazzando l’ex primo ministro Yoshiro Mori.

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4. Zelensky e il sequel amaro a Washington

imageJoe Biden e Volodymyr Zelensky alla Casa Bianca (foto Ap/Evan Vucci)

(Viviana Mazza) La barba da combattente, i pantaloni cargo verde-oliva e il maglione scuro erano quelli di sempre, ma tutto il resto è cambiato. A Washington, nella sua terza visita dall’inizio della guerra, Zelensky non è più il leader straniero che diventa simbolo della democrazia, l’uomo che ha vinto la battaglia mediatica contro Putin, il tribuno che riceve standing ovation e restituisce una dose di realtà, facendoci ricordare quando le nostre città erano bombardate come quelle ucraine.

Come nei discorsi ormai celebri in cui citava il Muro al Bundestag, la Shoah alla Knesset, Pearl Harbour e l’11 settembre al Congresso e Churchill a Westminster, ancora ieri Zelensky è tornato su Churchill al parlamento di Oslo, dove si trovava per il vertice con i Paesi nordici: «Churchill è stato qui, questo significa che vinceremo». Ma il leader ucraino si ritrova a discutere il futuro di Kiev in Europa senza promesse dal suo alleato più importante, gli Stati Uniti, congedato con una pacca sulle spalle e un augurio di buona fortuna.

«Combatteremo fino alla fine, in mare e nei cieli», diceva Churchill? «Sono certo che combatteranno fino all’ultimo uomo — ha detto il senatore repubblicano della South Carolina Lindsey Graham — ma gli ho detto che devo mettere al primo posto il mio Paese». Suona diverso anche quel «vinceremo», ripetuto da Zelensky negli incontri privati al Congresso (niente più Aula in seduta comune) e nel bilaterale senza fanfara alla Casa Bianca: lo dice in risposta ai dubbi sulla corruzione nel suo governo e sul fallimento della controffensiva. E deve chiedere la traduzione di una parola inglese che non capisce: stalemate, stallo.

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5. Netanyahu e la strategia di Oslo
editorialista
di Davide Frattini
corrispondente da Gerusalemme

image Benjamin Netanyahu, 74 anni, primo ministro di Israele (foto Afp/Ronen Zvulun)

Oslo. Lo slogan che Benjamin Netanyahu ha scelto per la campagna elettorale ufficiosa — è stato lui ad aprirla di fatto martedì pomeriggio — sembra una contraddizione per il politico che sull’opposizione all’intesa con i palestinesi ha costruito la carriera.

Il martellamento è cominciato il giorno prima durante l’informativa con una commissione parlamentare, avrebbe dovuto essere a porte chiuse eppure le parole del primo ministro sono arrivate ai giornali: dell’Autorità palestinese non si fida — ribadisce — «è come Hamas, ma tenta di distruggerci per fasi, non in un colpo solo». Arriva a dire che «il numero delle vittime israeliane causato dagli accordi è lo stesso degli assalti del 7 ottobre, l’intesa ha rafforzato i terroristi».

Questo passaggio rivela — secondo i commentatori locali — la strategia in vista del voto inevitabile, anche se una data non è stata fissata mentre i soldati combattono a Gaza, anche se è lo stesso Bibi a ripetere: adesso è tempo di guerra, non di macchinazioni. Che invece lui ha messo in moto per allontanare nel tempo il disastro di 10 settimane fa o almeno le sue cause: dal 7 ottobre 2023 al 13 settembre 1993, dalle sue responsabilità a quelle — secondo il suo schema — di Yitzhak Rabin e Shimon Peres, i firmatari del patto con Yasser Arafat.

Così i discorsi citano sempre Oslo come nel 1996, quando aveva ribaltato i sondaggi e battuto Peres prendendosi il primo dei sei mandati totali, questa volta senza bisogno di urlare il no alla pace con gli arabi a ogni apparizione, perché tanto l’intesa è stata sepolta in questi trent’anni e l’Autorità che ne era nata è moribonda.

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6. Fronte di Gaza | Bombe imprecise
editorialista
di Guido Olimpio

imageSoldati israeliani pronti a varcare il confine con Gaza (foto Afp/Jack Guez)

Negli ultimi giorni è cresciuto il numero di soldati israeliani uccisi nelle operazioni belliche. Le unità muovono in zone anguste, strette tra case, teatro che può favorire le incursioni dei guerriglieri. Non servono armi troppo sofisticate per fare danni, bastano lanciagranate e cariche esplosive. Inoltre, in alcune località le fazioni palestinesi hanno organizzato difese efficaci, sfruttano al meglio la conoscenza del territorio.

Fonti di intelligence Usa — ha rivelato la Cnn — sostengono che oltre il 40 per cento delle bombe usate dall’aviazione israeliana sono modelli «non guidati», quindi meno precisi, con conseguenze sui civili. La fuga di notizie non è casuale: è un ulteriore segnale di come gli Stati Uniti siano contrariati dai bombardamenti massicci da parte di Israele. Washington, dopo il 7 ottobre, ha fornito all’alleato grandi quantità di ordigni «guidati» per gli aerei, munizionamento per l’artiglieria e sistemi antimissile Patriot.

L’idea americana di creare una nuova coalizione per garantire la sicurezza alla navigazione in Mar Rosso è naturalmente osteggiata dall’Iran. Da Teheran avvertono che vi saranno conseguenze se il progetto andrà avanti. Gli iraniani sono i protettori e gli armieri dei guerriglieri yemeniti Houthi, la milizia protagonista degli attacchi contro il traffico marittimo lungo la via d’acqua.

7. Azerbaigian e Armenia verso la pace?
editorialista
di Marta serafini

imageLo scambio di prigionieri avvenuto ieri al confine fra Armenia e Azerbaigian (foto Afp)

L’Azerbaigian e l’Armenia hanno effettuato uno scambio di prigionieri, frutto dell’accordo raggiunto negli scorsi giorni, tra militari arrestati e detenuti nei due Paesi. A darne notizia è stata ieri la Tass. Lo scambio è stato poi confermato su Facebook dal premier armeno, Nikol Pashinyan: «Trentadue militari catturati nel Nagorno-Karabakh nel 2020-2023 hanno attraversato il confine azerbaigiano-armeno e si trovano nella Repubblica di Armenia. Saranno sottoposti a una visita medica preliminare e torneranno dai loro parenti».

Si tratta — secondo molti analisti — di un passo verso un nuovo accordo di pace tra Baku e Erevan dopo la guerra lampo di ottobre che ha visto di fatto gli azeri prendere il controllo totale della regione del Nagorno Karabakh. Una mossa che arriva dopo le forti tensioni tra Erevan e Mosca, storici alleati, e dopo un avvicinamento sostanziale sia militare che diplomatico degli armeni a Washington e a Bruxelles.

Nelle scorse settimane la tensione era salita, tanto che da Washington il segretario di Stato Antony Blinken aveva avvisato della possibilità che Baku potesse invadere tutto il territorio armeno per occuparlo. Una mossa che ora gli armeni sembrano voler scongiurare. Mosca, d’altro canto, non può permettersi di perdere l’Armenia come alleato soprattutto per ragioni economiche: dal suo territorio passano la maggior parte delle merci di contrabbando sottoposte a sanzioni. Un interesse che però potrebbe non coincidere con quello degli azeri, storici alleati di Ankara e dunque del governo Erdogan.

8. Cosa resta fuori dall’accordo raggiunto alla Cop28
editorialista
di Sara Gandolfi

imageL’abbraccio fra il presidente della Cop28 Sultan al Jaber e il responsabile climatico dell’Onu Simon Stiell (foto Epa/Martin Divisek)

Per ora sono solo promesse ed impegni quelli della Cop28, il testo come al solito non è vincolante e ancora una volta si basa sulla «volontarietà» di ciascun Paese, che da solo dovrà fissare date e modalità del percorso, ma la strada per l’uscita dai combustibili fossili è tracciata, anche se per mettere d’accordo tutti è venuto fuori l’ennesimo acrobatismo linguistico con il termine «transitioning away». Si può tradurre in molti modi — abbandonare, lasciare, allontanarsi, transitare — ma alla fine, come ha detto il portavoce della Commissione europea per l’energia Tim McPhie, il significato è lo stesso: petrolio, gas e carbone sono sulla via del tramonto. La prima campata del ponte che ci porterà verso un altro sistema energetico è progettata. Ora bisogna solo costruirla.

Cosa resta fuori? Ancora tantissimo. Soprattutto l’impegno finanziario. Le cifre sono tutte nel testo della Dichiarazione finale sul cosiddetto Global Stocktake, che è di fatto un inventario di quello che è stato finora (non abbastanza) e di quello che bisogna fare da oggi in poi per accelerare l’azione globale contro il cambiamento climatico. «Il fabbisogno finanziario per l’adattamento dei Paesi in via di sviluppo è stimato in 215-387 miliardi di dollari all’anno fino al 2030», dice il testo. «E circa 4.300 miliardi di dollari all’anno dovranno essere investiti nell’energia pulita fino al 2030, per poi aumentare fino a 5 mila miliardi di dollari l’anno fino al 2050, per poter raggiungere le emissioni nette pari a zero entro il 2050».

«La finanza climatica è alla base della giustizia climatica e di una maggiore ambizione in tutto il resto dell’agenda clima: mitigazione e piani nazionali climatici, eliminazione graduale dei combustibili fossili, transizione giusta e accesso all’energia, un ambizioso obiettivo globale sull’adattamento e sostegno ai paesi e alle comunità colpiti da perdite e danni», come scrive il think tank Climate Action Network. Ma i Paesi sviluppati finora non sono riusciti a mantenere neppure l’impegno di mobilitare 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020 e fino al 2025 per la mitigazione e l’adattamento. Il Global Stocktake li esorta ancora una volta, con urgenza, a raggiungere l’obiettivo promesso.

Per i soldi che si dovranno raccogliere dopo il 2025 non c’è stata neppure una reale discussione: tutto è rinviato alla Cop29 che si terrà a Baku, in Azerbaigian. Perfino il Fondo Perdite e Danni, su cui si è firmato l’accordo il primo giorno della Cop28, rischia di essere una scatola semi-vuota: i contributi promessi finora dai Paesi sviluppati ai Paesi danneggiati dalle catastrofi climatiche — un applauso ai 100 milioni messi sul piatto dall’Italia — rimangono una goccia nell’oceano e sono stati in gran parte prelevati dai finanziamenti esistenti per il clima e dai bilanci per lo sviluppo che dovrebbero servire alla mitigazione, all’adattamento e allo sviluppo umano.

Questo articolo fa parte della newsletter MondoCapovolto a cura di Sara Gandolfi: esce tutti i giovedì, ci si può iscrivere a questo link.

9. Perché Kim Jong-un continua a piangere in pubblico
editorialista
di Guido Santevecchi

imageTre pianti in pubblico di Kim Jong-un: a sinistra nel 2011 (dietro di lui la sorella); al centro nel 2020; a destra nei giorni scorsi dopo aver parlato alle Madri

Perché Kim Jong-un piange in pubblico? La propaganda nordcoreana che sotto la guida della sorella del Maresciallo seleziona attentamente le immagini del leader, lo ha mostrato in lacrime la settimana scorsa durante un’Assemblea delle Madri convocata a Pyongyang. Kim ha tenuto il suo discorso, incitando le donne della Repubblica popolare democratica di Corea a dare più figli alla patria, poi si è messo ad ascoltare gli interventi dei dignitari. Improvvisamente, la tv statale lo ha inquadrato con gli occhi rossi, mentre respirava profondamente come per reprimere il pianto. Ma le lacrime sono scese e gli hanno rigato il volto: Kim ha tirato fuori un fazzoletto bianco e si è asciugato i goccioloni. La scena è andata in onda al tg.

Quindi il capo del regime voleva che tutto il popolo lo vedesse commosso. Perché? Il leader supremo apparentemente non ha motivo di essere addolorato: i suoi scienziati spaziali pochi giorni fa hanno spedito in orbita il primo satellite spia nordcoreano, che ha inviato a terra immagini di basi americane, della Casa Bianca e addirittura dei tetti di Roma, riempiendo di orgoglio e felicità il Maresciallo, che è stato visto felice ed esultante (per inciso: gli analisti occidentali pensano che quelle foto siano praticamente inutili, perché se ne possono acquistare tranquillamente di migliori, messe a disposizione a pochi soldi da agenzie spaziali private). Il pianto pubblico di Kim è argomento di dibattito nella comunità dell’intelligence. In archivio ci sono altre immagini che lo ritraggono in lacrime in almeno cinque occasioni.

La prima volta fu nel dicembre del 2011, ai funerali del padre Kim Jong-il, deceduto per un ictus lasciandogli in eredità un potere da consolidare. Il giovane era semplicemente e naturalmente affranto per la perdita del genitore? O temeva per un futuro incerto? In quella mattinata gelida, Kim Jong-un camminò per chilometri sotto la neve nel centro di Pyongyang, scortando a piedi la limousine con il feretro del Caro Leader deceduto: ai lati della strada una folla immensa di cittadini anche loro singhiozzanti. Le lacrime di Kim Jong-un erano probabilmente anche «politiche»: voleva mostrare di condividere il dolore del popolo per la grave perdita. Nel dicembre 2014 il tg mandò in onda un servizio in cui Kim ispezionava un impianto per il surgelamento del pesce: gli operai gli dissero che la pesca quella stagione era stata particolarmente buona e lui si commosse.

Ancora pianto in pubblico nel dicembre 2015, a un’altra cerimonia funebre. Si chinò sul feretro del gerarca Kim Yang-gon, morto in incidente stradale, sfiorò con la mano il suo volto e gli occhi gli si riempirono di lacrime. Scena documentata dai fotografi dell’agenzia di stampa statale Kcna. La fine prematura del compagno Kim Yang-gon destò comunque qualche dubbio: in un Paese come la Nord Corea dove le automobili sono pochissime e riservate al regime, un incidente stradale sembrò sospetto. Terzo scoppio di pianto registrato ufficialmente nell’ottobre 2020, durante la celebrazione del 75° anniversario del Partito dei lavoratori. Il Rispettato Maresciallo tenne un discorso nel quale ringraziò il popolo per «essere rimasto in salute in questi tempi difficili»: si riferiva al Covid-19 che infuriava nel mondo.

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10. Ergastolo in Cina al banchiere «volpe» nascosto negli Usa per vent’anni

(Guido Santevecchi) Ha ascoltato la sentenza di condanna all’ergastolo a testa bassa, in tuta da carcerato tra due poliziotti in guanti bianchi, un banchiere cinese che per vent’anni si era nascosto negli Stati Uniti con un bottino di 483 milioni di dollari sottratto dalla cassa della Bank of China. Xu Guojun è stato condannato al carcere a vita da un tribunale del Guangdong, la provincia dove fino al 2001 era stato capo della filiale della grande Bank of China.

A partire dal 1993, con alcuni complici dell’ufficio cambi, aveva fatto sparire dollari americani, dollari hongkonghesi e marchi tedeschi per un valore di 126 milioni di dollari; con due colleghi funzionari dell’ufficio prestiti e mutui aveva sottratto altri due miliardi e mezzo di yuan. Quando si era sentito il fiato dei revisori suo collo, il direttore Xu era fuggito prima a Hong Kong, poi in Canada e infine negli Stati Uniti. Lo avevano seguito i complici: Yu Zhendong e Xu Chaofan.

I fuggiaschi erano stati segnalati all’Interpol e inseriti nella lista rossa dei «most wanted». Pechino ha lanciato anni fa una grande operazione per la ricerca dei corrotti all’estero: si chiama «Lie Hu Xing Dong» (Caccia alla volpe) e si vanta di aver rintracciato e «convinto a rientrare in patria» migliaia di individui che avevano conti da saldare con la giustizia.

Washington è estremamente cauta e sospettosa quando da Pechino arriva una richiesta di estradizione, temendo che il ricercato possa essere un dissidente politico. Ma nel caso del banchiere del Guangdong le prove fornite dalla polizia cinese non lasciavano dubbi. I suoi complici sono stati rimpatriati nel 2004 e nel 2018 e condannati a una dozzina di anni di carcere. Xu Guojin ha resistito fino al 2021, ma poi è stato messo su un aereo e rispedito in Cina.

Il processo si è appena concluso e l’ex capo della Bank of China nel Guangdong è stato condannato al carcere a vita «per aver causato particolare danno agli interessi dello Stato e del popolo». Il procedimento è stato piuttosto lungo, più di due anni, probabilmente perché la polizia ha esercitato pressioni per convincere l’imputato a restituire il denaro. Xu ha rinunciato a presentare appello e probabilmente gli è convenuto: in casi del genere il rischio è la condanna a morte in Cina.

Appena arrivato al vertice del potere, nel 2012, Xi Jinping giurò di «cacciare le tigri e schiacciare le mosche», riferendosi ai pezzi grossi del Partito-Stato e ai piccoli travet della pubblica amministrazione corrotta. Ha mantenuto la parola: nel 2012 i casi di corruzione scoperti e puniti tra i membri del Partito comunista furono 156.144, secondo i dati ufficiali della Commissione di Disciplina. Il picco nel 2018, con 638 mila casi. Ma neanche la paura ha estinto la ragnatela di malversazioni: ancora nel 2022 sono stati censiti 596 mila casi. La massa di denaro sottratta è enorme: è stato calcolato che tra il 2005 e il 2011, i capitali usciti illegalmente dalla Cina siano ammontati a 2,8 trilioni di dollari.

11. Faide canadesi (a Cancun)

imageIl corpo di Samy Tamouro fra gli attrezzi di una palestra di Cancun

(Guido Olimpio) Ancora un delitto nella guerra di mala in Canada. Samy Tamouro, 37 anni, è stato assassinato mentre era in una palestra di Cancun, località messicana dove si era trasferito da quasi un anno. Una foto mostra il suo corpo riverso vicino ad un attrezzo per i pesi, accanto una donna.

La vittima era molto vicino al killer a pagamento Frederick Silva che dopo una lunga «carriera» ha deciso di collaborare con la magistratura canadese fornendo prove importanti connessioni, contrasti, rivalità. Tamouro, con un passato nelle gang di motociclisti, sarebbe stato parte del network del sicario.

Gli specialisti di mafia ipotizzano che l’uccisione possa essere il tentativo di far sparire testimoni scomodi, elementi che sanno molto della serie di agguati condotti «a contratto» e ora sono esposti dalle confessioni di Silva. Non è neppure escluso che sia questa la ragione per la «fine» di Gregory Woolley freddato nel Quebec il 17 novembre.

Un’annotazione. In passato alcuni esponenti del mondo criminale italo-canadese sono stati assassinati in Messico, Paese diventato rifugio, nascondiglio oppure base per traffici.

12. Un Babbo Natale filippino ha beffato il Dragone cinese

imageIl battello filippino scarica i rifornimenti e i doni di Natale alle Spratly (foto Epa)

(Guido Santevecchi) Un Babbo Natale (filippino) ha beffato il Dragone (cinese). Non è una storiella per bambini ma il riassunto di un episodio piuttosto drammatico nella contesa tra Manila e Pechino per la sovranità sulle isole Spratly. Un battello carico di regali per le feste e provviste essenziali per resistere in un avamposto sperduto ha raggiunto un’isoletta nell’arcipelago delle Spratly, a circa 200 chilometri dalle coste della Filippine e 1.000 da quelle della Cina, ma rivendicato aggressivamente da Pechino, come il 90 per cento del mar cinese meridionale.

La settimana scorsa la guardia costiera cinese aveva respinto a colpi di cannone ad acqua e anche con manovre di speronamento una processione di una quarantina di pescherecci organizzati da Manila per portare generi di conforto, carburante, regali natalizi ai pescatori e ai militari che presidiano le isolette semisommerse di Scarborough e di Second Thomas.

Da anni intorno alla Spratly le marine militari di Filippine e Cina si confrontano e gli incontri ravvicinati ad alta tensione si verificano periodicamente, in particolare quando il comando di Manila cerca di rifornire l’avamposto di Second Thomas Shoal, che sulle mappe filippine è chiamato Ayungin e dove venticinque anni fa è stata fatta arenare una vecchia nave militare arrugginita, la Sierra Madre, con una pattuglia di marinai incaricati di dimostrare la sovranità sulla zona.

Domenica scorsa i cinesi hanno vinto la battaglia navale: i getti dei cannoni ad acqua usati dai pattugliatori d’altura inviati da Pechino non sono uno scherzo leggero, tanto è vero che un paio di battelli filippini colpiti hanno riportato danni così gravi ai motori e alle fiancate da dover essere rimorchiati in porto.

La flottiglia di Natale intercettata è tornata indietro con provviste e regali, comprese le statuette di un presepio. Ma un singolo battello filippino, nella confusione, aveva seguito una rotta diversa, puntando su Lawak, un’isola di circa otto ettari che serve da punto di appoggio per pescatori e uomini della marina militare di Manila che debbono mostrare la bandiera delle Filippine per rivendicare sovranità sulla zona. Questa imbarcazione, la ML Chowee, è riuscita ad aggirare il blocco e a consegnare il carico: viveri, medicinali, vitamine, anche dei giochi per trascorrere il Natale lontano da casa.

La spedizione era stata organizzata da un’associazione non governativa, Atin Ito, che nella lingua filippina significa «È nostro» e si riferisce al mare intorno alle Spratly. Il notevole dispiegamento di forze da parte cinese è stato perforato ancora, questa volta in nome del Santo Natale. Commenta la signora Rafaela David, dirigente di Atin Ito: «Alla fine, il fatto che conta di più è che siamo riusciti a portare a quegli uomini isolati i doni natalizi che aspettavano e si meritavano».

Grazie di averci letto fin qua. Buona giornata,

Andrea Marinelli


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