Un pragmatico a Pechino, l’emissario di Xi Jinping in Nord Corea | AmericaCina

America-Cina Il Punto | La newsletter del Corriere della Sera
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Venerdì 12 aprile 2024
Una fase pericolosa della guerra
editorialista di Andrea Marinelli

Buongiorno,

e bentornati a bordo: oggi partiamo da Pyongyang, dove Xi ha inviato arrivato il suo numero 3 per riaffermare «la profonda amicizia» che lega Cina e Corea del Nord, un modo — spera — di allontanare il maresciallo Kim dall’orbita russa. A Washington, invece, il generale Cavoli, a capo delle forze americane in Europa, ha lanciato l’allarme sulla guerra in Ucraina: senza munizioni gli uomini di Zelensky (sopra, nella foto Ap di Efrem Lukatsky, il sindaco di Kiev Vitali Klitschko posa per un selfie al fronte) perderanno, la superiorità dei russi diventerà a breve di 10 a 1.

A Vienna — e non solo — proseguono le indagini su Egisto Ott, l’agente dei servizi segreti che spiava per il Cremlino: figlio di una donna italiana, era stato ufficiale di collegamento a Roma e aveva una fitta rete di contatti. Nel kibbutz di Nir Oz le famiglie aspettano notizie degli ostaggi rapiti il 7 ottobre: è una roulette russa, senza sapere se sono vivi o morti. A Pechino, intanto, è arrivato il cancelliere tedesco Scholz.

Vi lasciamo con due articoli su O.J. Simpson, l’ex campione di football americano protagonista dell’inseguimento più folle che si ricordi e del delitto più celebre di fine Novecento.

Buona lettura.

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1. La preoccupazione di Xi per l’avvicinamento fra Kim e Putin
editorialista
di Guido Santevecchi

imageZhao Leji, numero 3 del Politburo cinese, con Choe Ryong Hae, vicepresidente del Partito dei lavoratori nordcoreano (foto Ap)

Non si può dimenticare la Nord Corea nel grande gioco del domino geopolitico tra Cina, Stati Uniti e Russia. Lo prova il fatto che Xi Jinping ha inviato a Pyongyang il Numero 3 del suo Politburo, Zhao Leji, per riaffermare «la profonda amicizia», «la grande importanza che Pechino dà alla relazione», la «volontà di portarla a un livello ancora più alto». Non sono solo frasi di cortesia diplomatica quelle del mandarino cinese: segnalano la preoccupazione di Xi per il grande avvicinamento tra Kim Jong-un e Vladimir Putin (una svolta che ha allarmato anche gli americani).

Lo scorso settembre Kim ha compiuto un lungo viaggio in Russia con il suo treno blindato. Putin lo ha accolto nel cosmodromo di Vostochny, promettendogli tecnologia missilistica. In cambio, secondo l’intelligence occidentale, il Maresciallo ha venduto tre milioni di proiettili d’artiglieria all’Armata russa impegnata sul fronte ucraino. La fornitura di proiettili nordcoreani ai russi non scandalizza di certo Xi, che ha interesse a evitare una sconfitta di Putin in Ucraina.

Secondo gli analisti, è la prima parte del baratto che non può piacere a Pechino, perché con la tecnologia bellica russa (e magari l’incoraggiamento di Putin) Kim potrebbe alzare il livello delle sue provocazioni, accendendo la miccia nella penisola coreana e causando l’intervento armato americano. La Cina confina con la Nord Corea e un conflitto, potenzialmente nucleare, nel «cortile di casa» avrebbe un impatto pericoloso per Xi e il suo Politburo. In sostanza, la «stabilità minacciosa» nella penisola coreana fa il gioco della Cina.

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2. «Senza munizioni gli ucraini perdono»: l’analisi allarmata del generale americano

imageIl generale Cavoli, a capo delle forze armate americane in Europa, durante l’audizione (foto Afp/Kevin Dietsch)

(Andrea Marinelli e Guido Olimpio) Un’analisi allarmata, un evidente tentativo di convincere il Congresso degli Stati Uniti a sbloccare gli aiuti in favore dell’Ucraina: a metterlo nero su bianco è il generale Christopher Cavoli, comandante delle forze americane in Europa, in una deposizione alla Camera. L’alto ufficiale si è espresso con franchezza, per sottolineare l’urgenza e i pericoli dell’attuale momento del conflitto, una fase che non può essere sottostimata. Questi i punti del suo rapporto in Commissione.

Gli ucraini non hanno munizioni a sufficienza e se non possono rispondere al tiro nemico perderanno, «lo dico in base a 37 anni di carriera». Oggi i russi hanno superiorità di 5 a 1 che diventerà nell’arco «di settimane» 10 a 1, un divario che permetterà loro di avanzare conquistando altro territorio. Non è una solo una previsione, ma la constatazione di quanto avviene sul terreno, anche se la progressione degli occupanti non è spedita.

Mosca ha sempre un vantaggio nella guerra elettronica, nelle missioni a lungo raggio, nell’aviazione (ha perso solo il 10% di velivoli). L’Armata ha perso oltre 2 mila tank e circa 315 mila uomini (morti o feriti) però continua a crescere: è passata da 360 mila soldati in prima linea a 470 mila. Nonostante le disfunzioni e i problemi ben noti l’esercito invasore rappresenta una minaccia «esistenziale» per l’Ucraina in quanto possiede «massa e quantità», vecchie doti dell’apparato mai sfumate. Anzi rigenerate.

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3. Le tracce italiane di Ott, la spia al servizio del Cremlino
editorialista
di mara gergolet
corrispondente da Berlino

imageEgisto Ott, agente dei servizi austriaci arrestato a Vienna: era una spia russa

Egisto Ott è una vecchia conoscenza dei servizi italiani. Tanto legato al nostro Paese da firmarsi, nei dispacci che mandava a Jan Marsalek, con il nome di «Giovanni Parmigiano». Ma ora che Egisto Ott è agli arresti a Vienna — il più importante «agente doppio» che la Russia abbia reclutato in anni recenti, in quel colossale affaire esploso tra l’Austria e la Germania che è il caso Marsalek, o lo scandalo Wirecard — è anche necessario chiedersi: che uso ha fatto Egisto Ott dei suoi contatti italiani? A Vienna, la polizia indaga anche su questo.

«La cosa triste è che Egisto Ott era uno dei migliori agenti che l’Austria abbia avuto», ha detto un investigatore allo studioso di terrorismo Thomas Riegler. Ma sempre, fin da giovane, un irrequieto. «E le teste calde — scrive Riegler — a Vienna per tradizione venivano mandate lontano». Fu così che Egisto nel 2001 arrivò a Roma: agente di collegamento tra l’Austria e l’Italia. Nato in Carinzia 62 anni fa, madre italiana, perfettamente bilingue. Sono gli anni del terrorismo islamico, la collaborazione con Vienna risulterà importante. Ott diventa amico di alcuni dei nostri migliori poliziotti. Nel 2010 va a Istanbul. Ed è lì — si sospetta — nel porto aperto frequentato da ceceni e caucasici, siriani e russi, che viene agganciato dagli uomini del Cremlino.

Tornato in patria nel 2012, si occuperà di guidare gli agenti sotto copertura. È amico fraterno e diventerà assistente personale Martin Weiss, capo operativo dei servizi austriaci Bvt (poi sciolti). Ma qualcosa comincia a non quadrare. Weiss, nel frattempo, ha conosciuto Jan Marsalek. Costui è il «geniale» numero 2 di Wirecard, la società tedesca dei pagamenti online, tra le 30 aziende della Borsa Dax, che crollerà come un castello di carte; ma è anche già un «asset» (agent vliyaniya , agente d’influenza manovrato dai russi) e in seguito reclutatore per conto di Mosca dove scapperà nel 2020.

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4. La roulette russa degli ostaggi nella Striscia
editorialista
di greta privitera

image Cassette postali nel kibbutz Nir Oz: i colori indicano i residenti uccisi, rapiti, rilasciati

Sono 188 giorni che Sharone Lifschitz è come se fosse in un tunnel di Gaza. Dal 7 ottobre, da quando un gruppo di terroristi di Hamas ha fatto irruzione nella casa dei suoi genitori di 83 e 85 anni, nel kibbutz di Nir Oz, e li ha trascinati nella Striscia, lei si sente in ostaggio, proprio come loro. «Mia madre — la signora Yocheved, diventata famosa per il video in cui stringe la mano a un carceriere di Hamas e gli dice Shalom, «pace» — è stata liberata sedici giorni dopo, ma mio padre è ancora lì. Non c’è secondo in cui io non pensi a lui, a come sta, a se è ancora vivo. È una roulette russa».

Lifschitz è quasi svenuta quando ha letto la notizia del Wall Street Journal. «Si teme che gran parte degli ostaggi a Gaza siano morti», titolava ieri il giornale di New York, riportando le voci di funzionari americani. Un colpo dritto alla speranza di tutte le famiglie israeliane che solo due giorni fa ne avevano subito un altro: «Non siamo in grado di rintracciare quaranta prigionieri che soddisfino i criteri d’Israele per le trattative», ha fatto sapere Hamas.

Roulette russa, in effetti, è il termine esatto. «Papà sarà vivo? La nipote della vicina di casa?», continua la donna. Oded, il padre, è un giornalista in pensione, un attivista per la pace. Conosce bene Gaza perché prima di Hamas, ci andava a pranzo sul mare, con gli amici palestinesi. «Un ostaggio liberato ci ha raccontato di essere stato un suo compagno di stanza al Nasser Hospital di Khan Younis», continua Lifschitz. «Faccio fatica a dormire perché lo immagino al freddo: lui lo detesta. Lo penso in un tunnel o accasciato in un angolo senza coperte, sotto le bombe».

In Israele, dice Merav Rott, psicologa che tra i suoi pazienti ha molti ostaggi liberati, da sei mesi è sempre quel sabato mattina d’autunno in cui Hamas ha violentato, torturato e ucciso oltre 1.200 persone e ne ha rapite 240. Spiega che la vita va avanti con le sue azioni sfacciatamente quotidiane ma che «ogni giorno è il 7 ottobre. Lo è per chi aspetta un familiare, per chi protesta contro un governo che bombarda senza sosta altri innocenti, lo è sui muri con i manifesti degli ostaggi e nei kibbutz rasi al suolo».

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TACCUINO TERRORISMO | La sentenza argentina e le cellule dei minorenni

(Guido Olimpio) Una tensione infinita e un po’ di guerra psicologica sulla possibile rappresaglia di Teheran contro Israele. Sempre molte le notizie fatte uscire sui media: l’ultima parla di un’operazione entro 24-48 ore. Inutile, per ora, inseguire le speculazioni. Vediamo.

Più concreta la sentenza della Corte di Cassazione argentina. Per il tribunale le stragi dell’ambasciata israeliana (1992, 29 morti) e della sede dell’Associazione ebraica (1994, 85 le vittime) sono state compiute da terroristi sciiti dell’Hezbollah su ordine dell’Iran. Il verdetto, emesso in un procedimento parallelo a quello originario, ha un peso diplomatico. Da sempre iraniani e i miliziani alleati sono stati considerati i principali responsabili ma l’inchiesta è stata ostacolata da depistaggi, false testimonianze, eventi tragici, come il presunto suicidio (o omicidio) del giudice Nisman, tra i più convinti sostenitori della colpevolezza del regime islamico. Storia tragica quanto opaca, con personaggi spesso ambigui.

Terrorismo. Tre minorenni, comprese due ragazze di 15 anni, sono stati arrestati nella regione di Dusseldorf, Germania, perché stavano progettando un attacco contro una chiesa. I fermati sarebbero simpatizzanti dello Stato Islamico. L’aspetto investigativo da considerare è che anche in Belgio e Francia ci sono state inchieste su piccole cellule composte da adolescenti pronti a passare all’azione.

5. Scholz, un pragmatico a Pechino

imageIl cancelliere tedesco Olaf Scholz, 65 anni (foto Getty/Sean Gallup)

(Mara Gergolet) Nel rapporto con Pechino, Olaf Scholz è considerato un pragmatico. Nel suo secondo viaggio in Cina che inizierà domani, il cancelliere metterà in primo piano le relazioni economiche.

Tutti tirano Scholz per la giacca: Washington, Parigi, Bruxelles e, non da ultimo, i partner della coalizione a Berlino. Tutti gli chiedono di essere «più risoluto», più deciso nei confronti della Repubblica Popolare. Soprattutto i Verdi che premono per «ridurre le dipendenze in modo molto più rapido». C’è però anche l’industria — molti capitani delle grandi aziende accompagneranno il cancelliere — che al contrario vuole più cooperazione. E infatti, scrive la Frankfurter Allgemeine Zeitung, gli investimenti diretti tedeschi in Cina nel 2023 hanno raggiunto un nuovo record.

A Pechino si apprezza il «pragmatismo» del cancelliere, l’atteggiamento finora amichevole nei confronti della Cina. Nell’autunno del 2022 ha dato il via libera alla compagnia di navigazione cinese Cosco per entrare nel terminale container del porto di Amburgo, nonostante l’opposizione degli alleati di governo. L’attenzione al business è evidente: Scholz andrà anche a Chongqing, sede di molte dove aziende come Basf e Continental.

Non a tutti la visita piace. Quanto sia pericolosa la dipendenza economica da un solo Paese, la Germania lo ha sperimentato con l’attacco russo all’Ucraina. È infatti, anche nel programma di governo, aggiornato in estate, si legge che è «necessario» ridurre «urgentemente» i rischi di una stretta interconnessione economica. Cosa poi significhi questo «urgente», è tutto da interpretare.

6. Biden promette «una difesa d’acciaio» delle Filippine

imageJoe Biden con il presidente filippino marcos e il premier giapponese Kishida alla Casa Bianca

(Guido Santevecchi) Joe Biden continua a svolgere il ruolo di «grande federatore» del fronte contrario all’espansionismo cinese nel Pacifico. Ha portato alla Casa Bianca il primo ministro giapponese Fumio Kishida e il presidente filippino Ferdinand Marcos e ha detto: «Voglio essere chiaro: l’impegno degli Stati Uniti per la difesa di Giappone e Filippine è saldo come l’acciaio». Nonostante la rivalità storica (l’invasione giapponese alla vigilia della Seconda guerra mondiale brucia ancora a Pechino) non ci sono rischi imminenti di uno scontro militare sino-giapponese. La promessa di Biden è dunque rivolta anzitutto alle Filippine, che sono impegnate nella difesa dall’aggressività cinese a ridosso delle loro coste.

Biden, al termine del vertice con Marcos e Kishida, il primo nella storia delle relazioni tra i tre Paesi, ha assicurato che «ogni attacco contro un aereo, una nave o l’esercito delle Filippine nel Mar cinese meridionale farebbe scattare il trattato di mutua difesa con gli Stati Uniti». Una messa in guardia forte nei confronti di Pechino. Il focolaio di tensione più preoccupante è intorno Second Thomas Shoal, poco più di una barriera corallina parzialmente sommersa nell’arcipelago delle Spratly. Si trova 105 miglia nautiche (195 km) al largo della provincia filippina di Palawan, mentre le coste cinesi più vicine sono quelle della grande isola di Hainan, distante 536 miglia nautiche (1.000 chilometri).

Però Pechino rivendica le Spratly e oltre l’80 per cento di tutto il Mar cinese meridionale, dove ha disseminato basi armate su isole artificiali. A Second Thomas Shoal la Marina filippina ha fatto arenare nel 1999 la Sierra Madre, una vecchia nave residuato bellico donata dalla US Navy. La Sierra Madre, ridotta a un relitto rugginoso, è diventata per Manila un avamposto di uomini perduti (i cinesi vorrebbero che si perdessero): il pugno di marinai ha il compito di tenere issata la bandiera delle Filippine e affermare la sovranità nazionale sul tratto di oceano.

I cinesi da mesi cercano di impedire i rifornimenti alla Sierra Madre, per costringere i suoi marinai a ritirarsi, e recentemente le loro navi hanno cominciato a usare i cannoni ad acqua e lo speronamento per bloccare le imbarcazioni filippine dirette nella zona. Ci sono stati feriti da parte filippina. Il rischio di uno scontro grave è costante. Ora a Pechino dovranno considerare che Biden sarebbe pronto a rispolverare il trattato di difesa Usa-Filippine del 1951 se i giochi intorno alle Spratly portassero a uno scontro con armi da fuoco invece che cannoni ad acqua. Il ministero degli Esteri di Pechino ha risposto denunciando le «cricche di Paesi che cercano di danneggiare le legittime azioni nel Mar cinese meridionale».

7. L’ultima corsa di O.J. Simpson
editorialista
di Massimo Gaggi
da New York

imageO.J. Simpson, morto ieri a 76 anni, durante il processo

O.J.Simpson se n’è andato a 76 anni da uomo libero, ucciso da un cancro nella sua villa di Las Vegas, portandosi nella tomba la leggenda di eroe dello sport e dello spettacolo bello e dannato e, soprattutto, il mistero dell’assassinio della sua ex moglie Nicole Brown Simpson, uccisa nel 1994 a Los Angeles, quando aveva 35 anni, e del suo amante, il 25enne Ronald Goldman.

Nella memoria dell’America e del mondo sono rimaste le immagini di un incredibile inseguimento: il campione più amato del Paese, la stella del football divenuto protagonista di decine di film, commentatore sportivo, testimonial pubblicitario di grandi aziende, incriminato per il duplice omicidio subito dopo il funerale della ex moglie al quale aveva partecipato. Lui si sottrae all’arresto fuggendo su un Suv bianco guidato da un amico, scavalcando i posti di blocco ai quali si presenta con una pistola puntata alla tempia e minacciando il suicidio. In fuga per cento chilometri inseguito da decine di auto della polizia e dagli elicotteri delle reti televisive che trasmettono tutto in una diretta seguita da 95 milioni di americani. Fino al ritorno del fuggitivo a casa e all’inevitabile arresto.

Memorabile anche il processo, durato nove mesi, il più lungo e complesso della storia della California: 126 testimoni, migliaia di reperti. Le prove contro O.J. sembravano schiaccianti: il campione, in pubblico affascinate, modi gentili e voce vellutata, con alle spalle la storia di un bambino povero e gracile, cresciuto coi tutori di acciaio alle gambe per sostenersi, che nei ghetti di san Francisco impara a correre fino a diventare la stella più brillante della National Football League, in privato è ben altro. C’è il mistero di una figlia morta in tenera età affogata in piscina, un divorzio turbolento e la nuova moglie, Nicole, minacciata e picchiata molte volte anche dopo il nuovo divorzio, spesso con interventi della polizia che arresta il campione, ma lo rilascia subito dopo.

Durante il processo vengono ricostruite ben 62 aggressioni di O.J. e le prove del delitto sembrano inchiodarlo: a casa del campione vengono trovate macchie di sangue ovunque, su vestiti, su un guanto identico ad uno rinvenuto nel luogo dell’omicidio. I test del Dna sono compatibili con la colpevolezza del campione e non ci sono altri sospettati. Ma la polizia commette molti errori, i guanti sono troppo stretti per la sua mano e il detective che conduce le indagini è un noto razzista.

Sul banco degli imputati, oltre a O.J., finiscono i metodi brutali della polizia di Los Angeles e i difficili rapporti interraziali. Dopo 266 giorni di clausura, una giuria di 10 neri e due bianchi impiega appena 3 ore per emettere un verdetto unanime di innocenza. Negli anni successivi, ormai non più incriminabile, O.J. gioca col delitto ipotizzando nella bozza di un libro e in un’intervista televisiva di essere stato l’assassino. In un successivo processo, solo civile, viene riconosciuto colpevole e condannato a indennizzare le famiglie delle due vittime.

Nel 2008, in Nevada, viene condannato per rapina a mano armata e rapimento dopo aver assalito con altra gente armata venditori di memorabilia sportivi. Rischia una condanna a 33 anni, ma ne sconterà meno di dieci: tornerà di nuovo libero nel 2017.

8. Il campione e il delitto più celebre di fine Novecento
editorialista
di Matteo Persivale

imageIl leggendario inseguimento di O.J. Simpson sulle strade di Los Angeles, nel 1994

«Corri O.J. corri», gridavano gli stadi con una voce sola, assordante, quando O.J. Simpson campione di football che vinse tutto all’università e nella Nfl dei professionisti seminava gli avversari lasciandoli fermi come birilli, velocissimo, inafferrabile come se avesse le ali ai piedi immaginate dai greci per Hermes, dio della velocità. Aveva seminato la povertà da ragazzo, scappandole via, e ha continuato a correre per tutte le varie vite che si sono inseguite in questi 76 anni: la vita da fenomeno dello sport e quella da attore di Hollywood, da celebrity ricchissima idolo dell’America bianca e nera per una volta unite nell’ammirazione per il campione che non faceva mai polemiche, non rifiutava un autografo, sorrideva sempre a tutti, «thank you thank you thank you» rispondeva gentile ai mille seccatori per i quali trovava sempre tempo, stringendo mani, baciando bambini.

Fece lo slalom anche tra i poliziotti e i procuratori che lo volevano in carcere a vita per il delitto americano più celebre di fine Novecento, tragedia di un millennio che fugge. Pareva una storia semplice: un marito geloso, lasciato dalla moglie, uccide lei — e un giovane amico di lei — lasciando prove ovunque e cercando — inutilmente — di scappare all’estero per sfuggire all’arresto. Però il marito geloso era il più grande giocatore di football americano di tutti i tempi e il delitto nella notte del 12 giugno 1994 — Nicole Brown Simpson e Ron Goldman massacrati a coltellate davanti alla porta di casa di lei a Brentwood, Los Angeles — è stato alla base di uno dei processi più clamorosi del dopoguerra, grottesco per le modalità e ridicolo per il verdetto di assoluzione contro ogni logica.

Adesso che Simpson è morto — il tumore, al contrario di quei dodici giurati, non l’ha perdonato — è finita anche l’ultima delle sue numerose vite, la più sgradevole: la vita di vecchio ex galeotto capace di fare lo slalom anche tra le agenzie di recupero crediti, capace grazie a un cavillo piuttosto osceno di sottrarre la ricca pensione da ex giocatore al giudizio civile da 33 milioni di dollari della causa che l’aveva riconosciuto responsabile del duplice omicidio (nel sistema americano, l’accusa del processo penale non può ricorrere in appello, l’imputato che viene assolto va a casa per sempre).

Lasciò Los Angeles e scappò in Florida a giocare a golf, la sua fissazione (anche il giorno dopo il massacro avrebbe dovuto giocare a un torneo benefico), fino alla fatale Las Vegas nella quale, era il 2007, fece irruzione in una camera d’albergo per — sosteneva — recuperare memorabilia che gli appartenevano e con la vendita (in nero) dei quali si manteneva nel lusso, e essendo armato finì processato per rapina e sequestro di persona e condannato a 33 anni (ma uscì dopo 9 per buona condotta). Così visse anche l’ultima delle sue vite, gli acciacchi dell’età e qualche sortita su Twitter condita dagli insulti dei più e dal tifo dei soliti troll che infestano i social media.

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9. Ho scritto «Help» sulla sabbia

(Guido Olimpio) Tre pescatori sono naufragati sull’isolotto deserto di Pikelot, in Micronesia, e nella speranza di essere avvistati dalla ricognizione aerea hanno scritto un grande «help» sulla sabbia usando i rami di una palma. Dopo una settimana, un velivolo della Guardia Costiera americana li ha individuati. L’equipaggio ha lanciato viveri ed una ricetrasmittente per stabilire i contatti seguiti dal recupero condotto da un’unità navale.

Grazie per averci letto fin qua, buon weekend,

Andrea Marinelli


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