Magneti Marelli, l’occasione persa: perché la cessione all’estero andava evitata

Magneti Marelli, l'occasione persa: perché la cessione all'estero andava evitata Magneti Marelli, l’occasione persa: perché la cessione all’estero andava evitata

Si viene colti da un certo senso di smarrimento nel dare uno sguardo al sito della Magneti Marelli. Sì, d’accordo, Magneti non c’è più, rimane solo Marelli. E non è più italiana da quando Fca, non ancora Stellantis, la cedette sventuratamente (ma non per i propri azionisti) alla nipponica Calsonic Kansei Holding. Anche la multinazionale della componentistica dell’auto non è più giapponese da quando è controllata dal fondo americano Kkr, lo stesso che avrà la maggioranza della rete di telecomunicazioni una volta scissa da Tim. Speriamo bene.

L’immaginario collettivo

Ma, nell’immaginario collettivo, Marelli è ancora il cuore italiano dell’industria dell’auto. Il visitatore del suo sito istituzionale — freddo e rigoroso quel tanto che basta — deve avere fin da subito dimestichezza con due termini giapponesi: Monozukuri che vuol dire eccellenza manifatturiera e Gemba che significa innovazione. La gloriosa storia del celebre marchio italiano è stata elegantemente relegata in secondo piano. Ercole Marelli, il fondatore dell’azienda, rimane però saldo nell’immaginario della quotidianità milanese, se non altro perché dà il nome a una fermata della metropolitana rossa. E — magia delle passate affermazioni dell’industria tricolore— se facciamo un salto (acrobatico) dalla periferia di Milano a New Delhi, ci accorgiamo che nel linguaggio comune degli indiani, il ventilatore — il primo prodotto di successo del celebre tecnico diplomato alla milanese Società di incoraggiamento arti e mestieri (Siam) — è chiamato ancora Marelli.

La mobilità sostenibile

L’India fu un grande mercato di esportazione, nel secolo scorso, della Fiat, tant’è vero che si vedono ancora oggi taxi con modelli, che qui sono ormai dimenticati nei musei da decenni, come la mitica 1100 D. Magneti Marelli fu inizialmente una consociata affidata al genero dell’imprenditore milanese. Oggi Marelli è tra i leader mondiali della componentistica dell’automotive e si candida ad essere uno dei maggiori protagonisti della mobilità sostenibile. Le batterie, il business dell’auto elettrica, dominio cinese, non le ha più. Il ramo era già stato venduto in era torinese come venne ceduta la società con la tecnologia common rail, frutto della ricerca della Magneti, brevetto ceduto alla Bosch, ed essenziale per le auto diesel. Altra epoca. Eppure ci fu un momento, quando al Lingotto l’amministratore delegato era Paolo Cantarella, che al management Magneti venne dato come obiettivo quello di fare la concorrenza più accesa alla Bosch con la quale peraltro si arrivò a costituire una joint venture che rafforzò il settore automotive lighting. Ancora oggi un’eccellenza mondiale.

I numeri

Il gruppo Marelli ha attualmente cinquantamila dipendenti nel mondo, di cui 7 mila e 300 in Italia suddivisi in 14 tra stabilimenti e uffici locali su un totale globale, compresi i centri di ricerca, di 170. Nel settembre scorso ha annunciato la chiusura dell’impianto di Crevalcore, vicino a Bologna, che occupa 229 persone, sollevando molti dubbi sulla centralità italiana del gruppo. Lo stabilimento produce collettori di aspirazione aria e pressofusi di alluminio per motori endotermici. Carlo Calenda ha parlato di una «società svuotata» in polemica non solo con il sindacato, in particolare la Cgil, ma anche con la precedente proprietà italiana. E c’è una ragione personale. Il leader di Azione, quando era ministro dello Sviluppo economico, chiese a Marchionne (che non credeva nell’elettrico) se fossero vere le voci di un’imminente cessione della Magneti Marelli. L’allora amministratore delegato Fca rispose che si sarebbe comportato come con la Ferrari, quotata e separata dal gruppo.

La cessione totale

Il suo successore Mike Manley nel 2018 annunciò invece la totale cessione della controllata della componentistica che continuava comunque a rifornire la casa madre. Rimase senza seguito la richiesta di Calenda, andato all’opposizione del Conte 1, di usare la golden power (possibile essendo gli acquirenti giapponesi) per bloccare o condizionare l’operazione. E nemmeno la possibilità di valutare l’offerta alternativa di unacordata italiana che era possibile organizzare, con la partecipazione della Cassa depositi e prestiti, intorno alla forza emergente del gruppo Brembo.

Il rammarico di Bombassei

A distanza di anni, Alberto Bombassei ammette di aver fatto più di un pensiero. «Anche se si trattava di un boccone forse troppo grosso, ma certo potevamo giocarcela meglio». Non ci fu nulla da fare. La proprietà torinese aveva già deciso di vendere per una cifra di 6 miliardi, completando l’accordo di cessione nello stesso anno in cui ottenne, in piena pandemia, un ammontare simile (6,3 miliardi) attraverso un prestito con la garanzia pubblica di Sace. A tutto vantaggio degli azionisti gratificati — nella fusione con Psa-Peugeot dell’anno successivo, che darà vita a Stellantis — di un generoso maxi-dividendo.

Il caso Crevalcore

Calenda racconta che ne parlò anche con John Elkann che difese ovviamente la scelta, del tutto legittima, del management. La procedura di licenziamento, nello stabilimento di Crevalcore, dopo l’intervento del ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, è stata sospesa a tempo indeterminato.L’azienda si è impegnata, con il governo e le parti sociali, a ricercare potenziali investitori interessati alla reindustrializzazione. Non solo in ambito automotive. Le manifestazioni d’interesse per ora sono cinque. La sofferta vicenda industriale del gruppo Marelli, ormai finito nella logica dei ritorni immediati e della spremitura finanziaria di un grande fondo americano, suscita qualche riflessione sulle scelte industriali italiane. Senza più produttori nazionali di auto, i punti di forza maggiori rimangono nella componentistica. Brembo nei freni e Pirelli nei pneumatici.

Gli attori da Brembo a Sogefi

Ci sarebbe anche Sogefi del gruppo De Benedetti che un tempo aveva anche la francese Valeo. Brembo è azionista di Pirelli e potrebbe essere interessata a subentrare agli azionisti cinesi della multinazionale della gomma, in parte congelati dall’uso della golden power e dunque potenzialmente in uscita. C’è stato qualche rumor, smentito. Se il gruppo bergamasco — autentico gioiello dell’industria italiana — fosse stato coinvolto a suo tempo nel riassetto di Magneti Marelli, non è fantaeconomia immaginare che si sarebbe potuto creare un grande gruppo della componentistica nazionale. Un gigante con una particolarità non irrilevante nella drammatica transizione ecologica: non dover dipendere dal motore endotermico e in grado di essere del tutto competitivo nella sfida dell’auto elettrica che ha sempre bisogno di pneumatici e di freni. Ma l’occasione è svanita per la bramosia a breve di azionisti miopi. Peccato.

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