Biden-Xi: mezzogiorno (quasi) di fuocoAmerica-Cina 15 novembre

America-Cina Il Punto | La newsletter del Corriere della Sera
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Mercoledì 15 novembre 2023
Biden-Xi: mezzogiorno (quasi) di fuoco
editorialista di michele farina

Tra poche ore (sarà quasi mezzogiorno in California) Joe Biden e Xi Jinping si stringeranno finalmente la mano. Veleni dietro i sorrisi? Dal loro incontro uscirà qualcosa di buono per il mondo? Oggi partiamo da San Francisco la nostra ricognizione, che prevede un album nutrito di cartoline da Medio Oriente e Ucraina. Prima però facciamo tappa a Washington, dove le risse di sapore ottocentesco vanno di moda al Congresso. In fondo, una notizia allarmante (tanto per cambiare) sul clima e una più divertente: avete mai sentito parlare del puteketeke?

Buona lettura.

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1. Il vertice a San Francisco: che cosa aspettarsi
editorialista
di viviana mazza
inviata a San Francisco

«Quello che abbiamo visto negli ultimi anni è l’accentramento di poteri nelle mani di un uomo solo, il presidente Xi, e ciò fa sì che, benché altre forme di diplomazia siano importanti, francamente per avere una seria diplomazia questa deve avvenire al livello più alto. E quindi la posta in gioco è enorme. Se vuoi avere dei cambiamenti nel sistema cinese ciò dipende da un incontro uno a uno», dice una fonte dell’amministrazione ai giornalisti riuniti a San Francisco. Oggi Joe Biden e Xi Jinping si incontreranno alle 10.45 del mattino (ora di San Francisco), le 17.45 in Italia. La conferenza stampa (solo con Biden) comincerà alle 16.15 del pomeriggio locali (l’1.15 del mattino in Italia).

imageXi Jinping accolto all’aeroporto dalla ministra del Tesoro Janet Yellen

  • Quello che verrà fuori da questo summit Usa-Cina è soprattutto l’accordo Usa-Cina a tornare a parlarsi su tutti i fronti: la riapertura delle comunicazioni «mil-to-mil» come dicono gli americani (ovvero dialogo operativo tra i vertici militari dei due Paesi, in particolare in relazione all’Indo-Pacifico) è un tema considerato urgente. È la prima volta che Biden e Xi si incontrano (o si parlano) dal G20 di Bali, un anno fa. Questo incontro non è un reset: la competizione tra le due superpotenze non cesserà, sottolineano fonti dell’amministrazione Usa, ma l’obiettivo è di evitare che la competizione si trasformi in conflitto.
  • Appena atterrato, ieri sera, il presidente americano si è diretto con la sua vice Kamala Harris e il governatore della California Gavin Newsom ad un incontro di raccolta fondi per la sua campagna di rielezione, dove ha citato più volte Donald Trump paragonando la retorica dell’ex presidente a quella «che si sentiva nella Germania nazista negli anni Trenta» (...).
  • Al suo atterraggio a San Francisco a bordo di un aereo Air China, Xi è stato accolto dalla segretaria del Tesoro Janet Yellen e dall’ambasciatore americano in Cina Nicholas Burns. È poi salito a bordo di una limousine Hongqi, tra manifestazioni pro e contro la sua visita, simili a quelle che avevano dato il benvenuto poche ore prima a Biden... (qui l’articolo completo).
2. Il nodo (doppio) di Taiwan sul tavolo
editorialista
di guido santevecchi

Taiwan resta in cima ai pensieri di Xi Jinping, che al solito pretende dagli americani la riaffermazione del principio «Esiste una sola Cina, governata da Pechino»: la conseguenza sarebbe che la provincia taiwanese deve farne parte.

imageLa limousine di Xi lascia l’aeroporto a San Francisco

  • La formula, nella strategia cinese, suona come sottomissione al diritto della nuova superpotenza imperiale, ricorda il kowtow, il rito della prostrazione davanti agli imperatori da parte dei tributari stranieri nella Città Proibita (al culmine dell’era dinastica, tutte le nazioni sotto il cielo erano considerate tributarie, da Pechino). Il problema è che Joe Biden più volte ha detto che in caso di invasione gli Stati Uniti non resterebbero a guardare, ma impiegherebbero la loro forza militare, schierando anche navi e aerei per difendere l’isola democratica. Ogni volta che il presidente ha parlato di intervento armato nel mare e sulle spiagge taiwanesi, i funzionari della Casa Bianca si sono affrettati a correggerlo, dicendo che niente è cambiato e il capo non voleva dire quello che ha detto.
  • Un gioco delle parti che rientra nella storica «ambiguità strategica». Biden si è espresso tante volte, almeno quattro, sull’ipotesi di reazione a un’invasione cinese che non può essere un lapsus: vuole dire davvero che difenderebbe militarmente Taipei in caso di attacco diretto e su vasta scala, anche se resta da vedere che cosa potrebbe fare nel caso che Xi ordinasse l’accerchiamento, il blocco navale, l’occupazione degli avamposti taiwanesi a ridosso della costa continentale.
  • Tutte le simulazioni degli istituti strategici prevedono che in caso di guerra le flotte aeree e navali americane e cinesi subirebbero perdite devastanti, migliaia di caduti. Per inciso: all’economia globalizzata il conflitto Usa-Cina costerebbe tre trilioni di dollari, ricordano gli analisti. Con queste premesse, il dossier Taiwan è stato portato al vertice di San Francisco. I cinesi hanno fatto sapere anche in pubblico che Xi è disposto a negoziare su tutto eccetto che sul principio «Una sola Cina». Gli americani non hanno problemi a inserire la dichiarazione nei loro comunicati, a confermare ritualmente che gli Stati Uniti «non sostengono l’indipendenza taiwanese». Ma Xi ora vorrebbe di più: una dichiarazione di «opposizione all’indipendenza»... (qui l’articolo completo).
3. Equilibri instabili (ma pur sempre utili)
editorialista
di federico rampini

Il primo viaggio di Xi Jinping a San Francisco risale al 1985, mancavano quattro anni alla strage di Stato di piazza Tienanmen, a cui l’America avrebbe reagito con blandissime sanzioni per non guastare i rapporti con una nazione divenuta amica. In quanto a Joe Biden, ancora pochi anni fa si vantava di avere «viaggiato 17 mila miglia insieme a Xi, e trascorso 78 ore in riunioni con lui». Forse sono esagerazioni, di sicuro cartoline d’epoca, fotografie sbiadite di un mondo che non c’è più.

imageIllustrazione di Doriano Solinas

  • Per quarant’anni il rapporto America-Cina è stato descritto come la joint-venture di maggior successo al mondo, una simbiosi tra due economie complementari. Diede luogo a neologismi come «Chimerica»; alla retorica del «win-win» (gioco a somma positiva dove tutti vincono); fece parlare di un mondo governato da un nuovo ordine bipolare, il G2. Oggi al summit di San Francisco siamo ridotti a considerare come una buona notizia il solo fatto che i due si parlino. O che gli Stati Uniti sperino di incassare una concessione davvero minima come la riduzione delle vendite di fentanyl made in China (smerciato via narcos messicani) che fanno stragi di tossicodipendenti americani.
  • Nulla è più scontato nel clima di antagonismo a 360 gradi. I recenti incidenti attorno a Taiwan o al pallone-spia cinese sui cieli d’America avevano congelato perfino i contatti di routine. Bisogna accontentarsi che le due diplomazie abbiano creato una scenografia positiva, pur abbassando al minimo le aspettative. La speranza è che questo vertice sia la prima tappa in un percorso verso un modus vivendi. Per stabilire le regole del gioco di una coesistenza «semi-pacifica»... (qui l’articolo completo).
4. Risse al Congresso (come nell’Ottocento)
editorialista
di massimo gaggi

Uno sfida: «Vieni fuori che facciamo i conti». Un altro che dà una gomitata al fianco che toglie il respiro all’avversario e poi alza le mani davanti all’arbitro dichiarandosi innocente. Roba che, in genere, si vede nei locali malfamati o allo stadio. Ora sta diventando spettacolo di ordinaria amministrazione anche nel Congresso di Washington, tempio della più antica democrazia costituzionale del mondo.

  • Cronache di ieri a Capitol Hill: al Senato, il repubblicano dell’Oklahoma Markwayne Mullin prende di petto, durante un’audizione, il leader del sindacato dei Teamsters, Sean O’Brian, che l’aveva insolentito su Twitter (ora X) dandogli del clown e sfidandolo: «Ovunque, in qualunque momento, cowboy». Mullin lo aspetta al varco: «O’Brian, questo è il momento, questo è il luogo. Sei pronto?». Certo che sono pronto, replica il sindacalista. «E allora alza il culo e vieni qui» lo provoca il senatore, che è anche un esperto di arti marziali. «Certo che alzo il culo» si fa avanti O’Brian.
  • Fa appena in tempo a intervenire Bernie Sanders, presidente della commissione, ricordando a tutti e due che sono in Senato e che ci sono regole di decoro da rispettare. Intanto alla Camera Tim Burchett parla in un corridoio con un giornalista. L’ex speaker della Camera, Kevin McCharty, che sta passando lì vicino, li sfiora e assesta (almeno così pare anche a testimoni) una gomitata al deputato del Tennessee che si accascia denunciando di essere stato colpito su un rene. McCarthy, che certo non lo ama (Burchett è uno degli otto deputati che hanno provocato la sua defenestrazione da leader dei parlamentari conservatori) nega, sostenendo di averlo solo sfiorato. Burchett lo insolentisce: «Sei come i ragazzini che la fanno grossa e poi si nascondono sotto la gonna della madre». McCarthy, con l’aplomb tipico di chi è stato speaker, cioè capo della Camera dei rappresentanti, replica pacato: «Se ti avessi dato uno dei miei pugni saresti ancora steso a terra».
  • Matt Gaetz, altro deputato trumpiano noto per le sue intemperanze e architetto della defenestrazione di McCarthy, chiede una censura etica del Congresso nei confronti del suo ex capo denunciando una «violazione del decoro parlamentare come non se ne vedevano da prima della Guerra civile di metà Ottocento». Attacco esagerato e politicamente motivato, ma non del tutto privo di fondamento.
  • Gli anni che precedettero la Guerra Civile furono segnati da confronti sempre più duri in Congresso coi deputati delle due fazioni (più tardi avrebbero dato luogo al conflitto tra unionisti e confederati) che si presentavano nelle aule parlamentari addirittura armati, anche se non si arrivò mai a scontri a fuoco. In Campidoglio. Oggi niente armi (vietate e bloccate dai metal detector), ma il confronto è altrettanto acceso. Con una novità rispetto a metà Ottocento: allora lo scontro era tra opposte fazioni mentre ora ad azzuffarsi sono soprattutto i repubblicani tra loro. Basti pensare alla pasionaria prediletta da Trump, Marjorie Taylor Greene, deputata ultraconservatrice della Georgia che, dopo aver chiamato la collega repubblicana Lauren Boebert «piccola puttana», ha dato della «fighetta» al deputato Darrell Issa (sempre del suo partito), reo di non aver votato a favore dell’impeachment nei confronti del ministro per la sicurezza interna Alejandro Mayorkas. Il nuovo speaker, Mike Johnson, paragona il Congresso a una pentola a pressione e attribuisce le tensioni a dieci settimane di battaglia serrata sul bilancio che rischia di sfociare in uno shutdown del governo. Si spera in un accordo in extremis, anche transitorio: poi tutti a casa la prossima settimana a sbollire la rabbia attorno ai tacchini della festa del Ringraziamento.
5. Alina, che i rabbini non vogliono seppellire
editorialista
di lorenzo cremonesi

Israele resta un Paese profondamente diviso al suo interno, nonostante tutto. Il terribile massacro compiuto da Hamas il sette ottobre ha per un attimo fatto dimenticare le manifestazioni e le gravi polemiche contro il governo e i partiti religiosi che avevano profondamente lacerato la società intera negli ultimi mesi, ma alla prova dei fatti i problemi di fondo rimangono invariati.

  • La riprova giunge adesso con le tensioni generate dalla scelta del rabbinato di non seppellire in un cimitero ebraico consacrato la 23enne Alina Falahati, uccisa da Hamas e il cui corpo sfigurato è stato identificato solo di recente. Le ragioni? Alina non aveva ancora completato le procedure religiose per la conversione all’ebraismo e dunque non ha diritto di essere sepolta in un cimitero ufficiale controllato dal rabbinato.
  • La famiglia protesta. «Nostra figlia è morta da ebrea tra gli ebrei», dichiara il padre. Emerge che altre vittime, specie di origine russa, non sono state inumate secondo le procedure del rabbinato e della Halakha, la legge ebraica. La questione è annosa. Negli anni Novanta il rabbinato si era rifiutato di riconoscere i soldati immigrati dalla Russia e morti in Libano. Negli ultimi anni la crescita dei partiti religiosi ha acuito le tensioni.
6. «I tank nell’ospedale Al Shifa»

«In un’area specifica dell’ospedale Al Shifa di Gaza abbiamo visto prove concrete che i terroristi di Hamas hanno utilizzato l’ospedale come un comando del terrorismo». Lo ha detto il portavoce militare di Israele Daniel Hagari aggiungendo che l’esercito «pubblicherà queste prove in seguito».

imageil cortile dell’ospedale nei giorni scorsi

  • Il capo dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) Tedros Adhanom Ghebreyesus ha denunciato su X che l’organizzazione ha perso i contatti con il personale sanitario dell’ospedale Al Shifa dopo che le forze israeliane hanno iniziato quella che hanno definito «un’operazione mirata» dentro la struttura.
  • Un giornalista dell’agenzia palestinese Wafa questa mattina aveva riferito alla Cnn che i carri armati israeliani erano entrati nel complesso ospedaliero: «Possiamo vedere i cannoni dei carri armati puntati verso l’ospedale. Non siamo sicuri se i soldati siano negli edifici, ma sono nei tank all’interno del complesso». Khader Al Za’anoun aveva parlato di scontri a fuoco nel cortile. Centinaia, fra personale e pazienti, sono ancora ad Al-Shifa, secondo i rapporti più recenti provenienti dall’ospedale, assieme a migliaia di sfollati... (qui tutti gli aggiornamenti in diretta).
7. Così è stata uccisa la soldata Noa
editorialista
di davide frattini
corrispondente da Gerusalemme

Noa parla ma è già morta. Non per la madre che sente la voce e spera, non per gli altri famigliari degli ostaggi che aspettano almeno questo, immagini in movimento degli amati. Lo sanno i carcerieri, che hanno diffuso il filmato come fosse il presente, una presenza, ed è già vita passata. Lo mostrano solo alla fine, il cadavere appoggiato sul lenzuolo bianco, il primo piano della ferita alla nuca, i tendini di Achille lacerati fin quasi a staccare i piedi, anche se la ragazza di 19 anni appartiene alle «Troiane» di Euripide, a tutte le donne di tutte le guerre rapite come bottino, usate perché implorino gli avversari di fermare i combattimenti, i fondamentalisti di Hamas sostengono che sia morta nei bombardamenti israeliani. L’esercito li accusa di «terrorismo psicologico».

  • Noa prestava servizio nella base di Nahal Oz, il punto di osservazione abitato da un’unità tutta femminile, nessuna regola nei manuali militari lo impone, ma alla fine è andata così: sono solo ragazze a passare 12 ore davanti agli schermi per individuare qualsiasi movimento anomalo dei paramilitari fondamentalisti vicino alla barriera che separa la Striscia da Israele. I test attitudinali per entrare nella unità 414 richiedono punteggi molto alti, che permetterebbero di essere arruolate in squadre di intelligence prestigiose come la 8200, di accedere alle forze combattenti... (qui l’articolo completo).
8. Faccia a faccia con il numero due di Hezbollah
editorialista
di andrea nicastro
inviato a Beirut

Hezbollah, il Partito di Dio libanese, è cambiato. È nel governo di Beirut, ha accettato di far esplorare i giacimenti petroliferi off shore a società occidentali, non perquisisce neppure i giornalisti di El Mundo e del Corriere che vanno a intervistare il suo numero due. Non sarebbe mai successo anni fa. Quel che resta immutabile è il rifiuto a riconoscere Israele. «Continuate a domandarvi come mai gli arabi non riconoscano il diritto di Israele a esistere, noi invece ci chiediamo come mai Israele e l’Occidente non riconoscano il diritto dei palestinesi a stare sulla propria terra. Ribaltate il punto di vista e vi avvicinerete a una risposta. Per esempio, cercate una soluzione per gli occupanti, non per chi resiste».

imageNaim Qassem

  • Chimico e teologo, lo sceicco Naim Qassem è da 32 anni l’ombra, il suggeritore, il vice di Hassan Nasrallah, il capo di Hezbollah. Entrambi chierici, entrambi hanno maneggiato il kalashnikov prima della politica. Qassem è considerato il più intransigente tra i due. Nei suoi libri difende l’hijab (che non è solo un foulard, ma la «riservatezza che impreziosisce le donne»), la «resistenza» (contro l’occupante) e il «sacrificio» inteso come virtù del buon sciita che prende ad esempio la morte in battaglia di Hussein, nipote del Profeta... (qui l’intervista completa).
9. La profondità dei tunnel di Hamas
editorialista
di guido olimpio

Dal «teatro» sono emersi alcuni spunti interessanti sulla rete di tunnel di Hamas e Jihad. Una buona parte di quelli scoperti erano scavati a 4-5 metri di profondità. Ne è stato però individuato uno a Gaza City che arrivava a 30 metri grazie ad un montacarichi in grado di trasportare 6-7 miliziani: conduceva ad un posto comando dotato di aria condizionata, sistema elettrico, apparati di comunicazione.

  • I soldati di solito fanno saltare le uscite dei cunicoli ma quando è possibile cercano di provocare danni maggiori e in più punti. Questo per impedire che i guerriglieri riescano a riattivare i passaggi con deviazioni laterali. Solo in alcune occasioni i militari entrano nei cunicoli e serve un ordine speciale da parte di un superiore. C’è il rischio di trappole esplosive: una di queste ha provocato la morte di 4 parà. Ampio ricorso a robot-droni per ispezionare la rete sotterranea, impiegati anche non meglio specificati «sistemi».
  • Nota. Le informazioni sui tunnel non sono sempre complete, alcuni dati andranno rivisti a operazioni concluse. A cominciare dalla reale profondità ed estensione della rete ribattezzata «metro». Per ragioni diverse entrambi i contendenti hanno interesse a enfatizzare la guerra sotterranea (qui l’articolo sulla galassia dei guerriglieri uniti dall’odio per Israele e l’Occidente).
10. Nebbie sul fiume
editorialista
di marta serafini
inviata a Kiev

A Kiev sono giorni che si parla di questo. Poi ieri sera, finalmente, il consigliere del presidente ucraino Andriy Yermak ha confermato che le forze di Kiev hanno superato il grande fiume: «Contro ogni previsione, le forze di difesa ucraine hanno preso piede sulla riva orientale del Dnipro», ha detto Yermak in un discorso al think tank dell’Hudson Institute negli Stati Uniti. Le osservazioni sono state pubblicate sul sito web del presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky.

imageLa città di Kherson sul fiume Dnipro

  • In realtà tra gli ucraini stessi c’è ancora molta prudenza. A tenere banco qui sono ancora le lotte intestine tra Zelensky e il capo di stato maggiore Valery Zaluzhny dopo le sue dichiarazioni all’Economist in cui si parlava di stallo sul campo. E non solo. La notizia che l’Unione Europea è in ritardo con la consegna di munizioni non ha reso molto felici gli ucraini. «Come pensate che possiamo vincere la guerra senza proiettili?», è il refrain di ogni soldato con cui abbiamo parlato negli ultimi giorni.
  • Il nervosismo è palpabile anche dal lato russo. Lunedì, in un incidente molto insolito, due agenzie di stampa russe hanno pubblicato avvisi secondo cui Mosca stava spostando le truppe in «posizioni più favorevoli» a est del fiume Dnipro, solo per ritirare l’informazione pochi minuti dopo. La Russia ha talvolta usato una retorica simile per descrivere le ritirate ma non è chiaro perché la notizia sia stata smentita con così tanta fretta. Nebbia di autunno, a quanto pare. Ma soprattutto nebbia di guerra. Mentre si avvicina un nuovo inverno.
11. Putin e «il materiale umano» (Anna docet)

(Marta Serafini) Nelle ultime due settimane, la Russia avrebbe perso oltre 4.000 soldati e 500 mezzi di equipaggiamento sul fronte orientale nelle regioni ucraine di Kharkiv e Donetsk, secondo quanto ha riferito il comandante delle forze di terra Oleksandr Syrskyi. Si tratta di una cifra enorme. Secondo gli osservatori — e secondo un commento dello stesso presidente ucraino Volodymyr Zelensky di ieri sera — il presidente russo Vladimir Putin sta mandando al macello migliaia di soldati. È «il materiale umano», espressione che in Russia viene usata per la carne da cannone e che la giornalista Anna Politkovskaya riprende nel suo «La Russia di Putin» che mi sono riletta ieri sera. La stessa Politkovskaya che non ha pace e giustizia perché uno dei condannati per il suo omicidio – è notizia di ieri – è stato graziato per aver combattuto al fronte.

imageAnna Politkovskaya, uccisa nel 2006: aveva 48 anni

  • Intanto in Rete gira un video che dimostra quanto poco conti «il materiale umano». Le immagini, terribili, mostrano pestaggi e finte esecuzioni di soldati russi da parte dei loro superiori, dopo che sono stati accusati di assumere droghe, di «spezzare il morale» e di aver fatto uccidere i loro compagni in combattimento. Il video — pubblicato online dal gruppo anti-corruzione russo Gulagu.net — mostra alcuni uomini rannicchiati a terra mentre vengono picchiati con dei bastoni. Più avanti nel filmato, un altro soldato spara ripetutamente con una pistola a pochi centimetri dalla testa di un soldato, mancandolo di poco.
12. Il puteketeke uccello del secolo: chi ha truccato il concorso?
editorialista
di samuele finetti

Interferenze estere, accuse, voti truccati. E un vincitore inaspettato: il puteketeke, un volatile dalla caratteristica cresta arancione. Incoronato ieri in Nuova Zelanda come «uccello del secolo» al termine di un’accesa campagna elettorale che ha fatto dimenticare persino quella che ha preceduto le elezioni parlamentari del 13 ottobre.

imageIl comico Usa John Oliver ha fatto campagna per il puteketeke

  • Serve però fare un passo indietro. E tornare al 2005, quando l’associazione Forest&Bird, che si occupa della conservazione delle specie animali, lanciò per la prima volta il concorso per eleggere l’«uccello dell’anno». Lo scopo era soprattutto sensibilizzare il pubblico sulla fragilità della fauna neozelandese e delle specie di uccelli, l’80% delle quali a rischio di estinzione. Diciotto anni fa i votanti furono solo 800; ma nel tempo questa elezione è divenuta un vero e proprio fenomeno, con dibattiti ed eventi simil-elettorali. E immancabili scandali. Nel 2018, furono contanti 300 voti falsi. L’anno dopo, una valanga di voti dalla Russia sollevò l’allarme su possibili interferenze dall’estero. E nel 2022 fu bandito dalla gara il cacapò, un grosso pappagallo verdastro incapace di volare, che si era aggiudicato il titolo più d’una volta.
  • Quest’anno però c’era in ballo il titolo di «uccello del secolo», visto che Forest&Bird compie cento anni. E dunque la campagna elettorale è stata più combattuta che mai. Anche perché a sparigliare le carte ci ha pensato il comico tv statunitense (di origini britanniche) John Oliver, che ha deciso di sponsorizzare il puteketeke. «Mi sta simpatico perché è uno strano uccello dal ciuffo colorato che vomita. E poi per il suo rituale d’accoppiamento (che consiste in una danza in cui i due esemplari raccolgono ciuffi d’erba bagnata e si urtano il petto e poi si guardano senza sapere bene come continuare)», ha detto durante una puntata del suo show in tv. E si è dato da fare, anche perché «il succo della democrazia è questo: gli Stati Uniti che influenzano elezioni straniere».
  • Così prima si è presentato davanti alle telecamere con un costume dell’uccello. Poi ha pagato cartelloni pubblicitari in giro per il mondo (pure sugli Champs-Élysées), ha fatto girare un van con la foto del puteketeke a Londra e volare un aereo con uno striscione sopra le spiagge di Rio de Janeiro. Lo sforzo è stato ripagato. Con 280 mila voti su 350 mila (un exploit: lo scorso anno i votanti erano stati poco più di 50 mila) il puteketeke si è portato a casa il titolo. E i complimenti di un altro vincitore: Christopher Luxon, segretario del Partito Nazionale e prossimo premier neozelandese.
13. E intanto le emissioni crescono

(Samuele Finetti) Basta coi «piccoli passi», è ora di essere «coraggiosi». Il segretario generale dell’Onu António Guterres lancia l’allarme, l’ennesimo, sul clima. Perché nonostante i proclami, gli impegni dei singoli Paesi e la firma nell’ormai lontano 2015 degli Accordi di Parigi, le emissioni continuano a crescere e «il mondo sta fallendo nel reagire alla crisi climatica».

  • L’ultimo rapporto del Panel intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc), il principale organismo internazionale per la valutazione del climate change, è allarmante: entro il 2030, le emissioni cresceranno del 9 per cento rispetto a quelle del 2010. Lontanissimo dal taglio del 45 per cento necessario per evitare che l’aumento della temperatura globale superi 1,5 gradi, come stabilito a Parigi.
  • Tra pochi giorni, il 30 novembre, si aprirà a Dubai la Cop28. Guterres ha detto chiaramente che i Paesi sviluppati dovrebbero puntare a emissioni zero entro il 2040, e le economie emergenti entro il 2050. Anche perché metà delle emissioni globale sono prodotto da Stati Uniti, Cina, India, Unione europea, Indonesia, Russia e Brasile. Ma è in qualche modo paradossale che di emergenza climatica si discuterà a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, il settimo produttore mondiale di petrolio, che nel 2019 aveva promesso tagli del 19 per cento delle proprie emissioni ma che finora ha fatto poco o nulla per raggiungere l’obiettivo.

Grazie. A domani. Cuntrastamu.

Michele Farina


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