David Barnea, chi è il capo del Mossad che deve riportare a casa gli ostaggi rapiti da Hamas: dalle ombre dei segreti alla «luce» dei negoziati
La carriera (e il nuovo ruolo) del capo dei Servizi israeliani, negoziatore con il compito di trovare una tregua
Quando David Barnea, nel 2021, è diventato direttore dell’Istituto, ovvero del Mossad, dicevano che avrebbe assunto un profilo più basso rispetto al suo predecessore, Yossi Cohen. Perché ama restare nell’ombra, intransigente su fughe di notizie, fautore di un «silenzio radio» assoluto. Ma come spesso accade sono stati i fatti a decidere quale dovesse essere la priorità. L’assalto di Hamas, seguito dall’apertura di mille fronti, dal Libano allo Yemen, ha scompaginato il tavolo.
L’alto funzionario si è ritrovato a ricoprire il ruolo di negoziatore, per trovare una tregua ma soprattutto riportare a casa gli ostaggi. Spia e diplomatico, esattamente come altri due protagonisti del vertice a Roma, il numero uno della Cia, William Burns e il responsabile dell’intelligence egiziana, Abbas Kamal. Il quarto è il premier del Qatar Mohammed bin Abdurrahman al Thani, un politico con il mandato di agire nella riservatezza.
Barnea appartiene al mondo dei segreti. Nato nel 1965 ad Ashkelon, padre emigrato giovanissimo dalla Germania, ha studiato in Usa, ha militato nella Sayeret Matkal, l’unità speciale dell’esercito, ha lavorato in banca. Il gradino successivo lo ha portato nei ranghi del Mossad dove è stato assegnato per un periodo piuttosto lungo al dipartimento Tzomet, l’ala che si occupa di reclutamento e «gestione» degli agenti. E per questo ha passato del tempo in Europa.
La carriera è proseguita con il passaggio all’ufficio — Keshet — incaricato di seguire le infiltrazioni all’estero. Vasto il campo. L’Iran e i suoi programmi bellici ostacolati con i sabotaggi, i trafficanti di armi, il network di milizie (come l’Hezbollah libanese e le varie brigate sciite irachene), governi ostili e amici — lo spionaggio non si ferma davanti neppure ad un’alleanza —, qualsiasi minaccia proveniente dall’esterno. Dossier ai quali dedicare un mix di risorse tecnologiche e umane: la combinazione che avrebbe permesso l’uccisione del padre del programma atomico dei mullah, Mohsen Fakrizadeh, assassinato da una mitragliatrice diretta in remoto. Il gadget agevola il «lavoro», però sono uomini e donne che rappresentano il salto di qualità. Guai a fidarsi esclusivamente dell’elettronica.
Proprio l’eccessiva fiducia in sensori e telecamere piazzate a guardia del muro di Gaza ha contribuito al disastro del 7 ottobre. La Striscia non era di stretta competenza del Mossad — è terreno dello Shin Bet e dei militari — ma in realtà il servizio non doveva farsi cogliere di sorpresa. Anche perché il precedente direttore aveva favorito il flusso di petrodollari dal Qatar convinto che sarebbe bastato a evitare una nuova esplosione. Invece tutto è cambiato nell’arco di poche ore e il Mossad ha riconosciuto ufficialmente la sua parte di responsabilità. Ma, intanto, c’era altro da fare. Subito.
Barnea è stato chiamato a condurre la trattativa sui prigionieri. Compito complesso a causa di fattori contrastanti. La pressione dell’opinione pubblica israeliana. Le continue acrobazie del premier Bibi Netanyahu pronto a tutto pur di restare avvinghiato alla poltrona. Le tattiche dilatorie di Hamas. L’apertura del fianco sud ad opera degli Houthi yemeniti e il fuoco perenne al confine con il Libano. I giochi degli attori esterni — qatarini, turchi, iraniani, fazioni radicali — in grado di influenzare i guerriglieri. E rispetto alle missioni tradizionali c’è un problema in più. Non tutti i successi e i rovesci di un’intelligence sono noti, spesso sono rivelati dopo decenni mentre qui un eventuale fallimento sarebbe palese.