In pensione 5 anni prima con il «contratto di espansione»? Perché non sarà più possibile

In pensione 5 anni prima con il «contratto di espansione»? Perché (forse) non sarà più possibile In pensione 5 anni prima con il «contratto di espansione»? Perché (forse) non sarà più possibile

«Contratto di espansione» addio. Il governo Meloni sembra deciso a non prorogare per il 2024 l’esodo incentivato per le aziende sopra i 50 dipendenti introdotto, per via sperimentale, nel 2019 dal decreto Crescita e rinnovato più volte fino alla fine del 2023. Senza un intervento in extremis nella conversione in legge del decreto Milleproroghe, atteso entro fine febbraio, si ridurranno così per le aziende gli strumenti per accompagnare i propri dipendenti alla pensione.

A chi era rivolto

Il «contratto di espansione» era stato pensato con il fine di aiutare le riconversioni e le ristrutturazioni aziendali andando a sostituire i contratti di solidarietà espansiva. L’obiettivo dichiarato era quello di favorire la ristrutturazione delle imprese in crisi, evitando il fenomeno degli esodati. La legge di Bilancio 2022 aveva regalato altri due anni di vita al contratto che consentiva, previo accordo tra azienda e sindacati, di mandare in pensione su base volontaria i lavoratori che si trovavano a meno di 5 anni dall’uscita dal lavoro (sia in caso di pensione di vecchiaia, a 67 anni, che anticipata, 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne). Il governo Draghi, con l’ultima proroga, aveva introdotto una modifica sostanziale includendo nel contratto anche le aziende medio-piccole con almeno 50 dipendenti (il contratto di espansione del 2019 riguardava solo le imprese con almeno 1.000 dipendenti, scesi a 250 e poi ancora a 100).

Come funzionava il contratto

Il lavoratore che aderiva all’accordo aveva diritto a una pensione pari a quella maturata al momento dell’uscita ordinaria. Il costo dell’assegno mensile, per tutta la durata dell’anticipo, era a carico dell’azienda, al netto del valore della Naspi spettante a chi va in prepensionamento. La pensione che si sarebbe poi ricevuta poteva essere cumulabile con qualsiasi reddito da altra attività lavorativa. Il calcolo dell’indennità mensile (per 13 mensilità) veniva fatto dall’Inps, in base al trattamento pensionistico lordo maturato al momento della cessazione del rapporto di lavoro. I costi che ricadevano sull’azienda venivano in parte compensati dallo Stato tramite l’utilizzo della Naspi che finanziava l’indennità di accompagnamento alla pensione e il riconoscimento della contribuzione figurativa.

Quali strumenti restano alle aziende

Ora, accompagnare un dipendente alla pensione costerà dunque alle aziende molto di più. Se il governo non cambierà idea (come detto, il rinnovo dello strumento per almeno quest’anno potrebbe ancora essere inserito nella conversione in legge del decreto Milleproroghe), gli strumenti rimasti loro disposizione del mondo delle imprese si riducono all’isopensione (leggi come funziona questo strumento in vigore fino al 2026); l’assegno straordinario dei fondi di solidarietà bilaterali e l’Ape sociale (leggi qui), che però è riservata solo ad alcune categorie di lavoratori svantaggiati.

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