
Il “Sacro sacrificio”, la teoria del complotto sulla morte di Navalny: “L’Occidente lo ha ucciso per fermare Putin”
In coda ai tg. Trentacinque secondi su Rossija 1, trenta su Pervyj Kanal, una manciata su Ntv. Tanto è valsa la morte in carcere di Aleksej Navalny, il nemico pubblico numero 1 in Russia, sui principali notiziari della sera della tv di Stato russa. Il suo volto non è mai stato mostrato. Il suo nome non è mai stato fatto. È stato chiamato soltanto “il condannato”. Innominato in morte, come lo era in vita.

Secondo media indipendenti, deputati e senatori avrebbero ricevuto l’ordine di scuderia di parlarne poco o non parlarne affatto. Soltanto il presidente della Duma, la Camera Bassa del Parlamento russo, Vjacheslav Volodin, ha rotto la consegna del silenzio per puntare il dito: “Washington e Bruxelles sono responsabili ovvi della morte di Navalny”, ha scritto su Telegram.

Un ritornello ripetuto dai pochi funzionari e analisti governativi che si sono sbilanciati sui social e hanno riesumato una bizzarra locuzione: “sakhralnaja zhertva”, “sacro sacrificio”. A loro dire, Navalny non sarebbe che una vittima sacrificale designata dall’Occidente per minare la rielezione di Vladimir Putin alle presidenziali russe che si terranno tra un mese e per sbloccare i milioni di fondi russi congelati all’estero.
Che cosa significa l’espressione “sacro sacrificio”
A usare per primo l’espressione quasi tautologica e teologica fu nel 2004, in un’intervista con Moskovskij Komsomolets, il propagandista-in-capo Vladimir Soloviov, che però ne attribuiva la paternità a Boris Berezovskij, l’oligarca anti-Putin trovato morto nel 2013 a Londra.

A dar retta a Soloviov, Berezovskij diceva che per “rovesciare Putin” era “necessario fare un sacro sacrificio” e “la ricerca di questo sacro sacrificio era costantemente nelle sue idee”. E quel che meditava era l’omicidio di un oppositore di cui incolpare le autorità per suscitare la “rabbia popolare” e radunare l’opposizione intorno al corpo simbolico della “vittima sacrificale”. Difficile però credere al presentatore tv.

Da allora l’espressione era pressoché scomparsa per essere rispolverata, ad esempio, dopo la morte della reporter di Novaja Gazeta, Anna Politkovskaja, nel 2005. A ridarle slancio, nel 2012, al culmine dell’ondata di oceaniche proteste in piazza Bolotnaja contra la sua ricandidatura a presidente, fu però lo stesso Vladimir Putin. “Conosco questa tecnica”, disse. “Sono passati dieci anni da quando chi vive all’estero ha provato ad usarla. Stanno persino cercando una cosiddetta vittima sacrale tra alcune persone importanti. Si uccideranno a vicenda e poi daranno la colpa alle autorità”. Un riferimento a Berezovskij che sarebbe morto l’anno dopo.
Navalny come vittima sacrale dell’Occidente
Il primo a essere fatto assurgere da media e funzionari di Stato al titolo di “vittima sacrificale” fu però Boris Nemtsov, l’oppositore ucciso a revolverate vicino alle mura del Cremlino nel 2015. Seguito dallo stesso Navalny, in seguito al suo avvelenamento da Novichok nel 2020. “Un’operazione con un blogger nel ruolo di vittima sacra”, dissero le autorità russe.
Ed è quello che sono ritornate a fare, ieri, dopo la morte in carcere del detenuto politico. “Navalny è morto improvvisamente e per sbaglio un mese prima delle elezioni di Putin? Quelle elezioni che i servizi segreti americani e britannici sognano di interrompere? Tutto questo per caso? Difficile da credere. La versione del ‘sacro sacrificio’ dovrebbe essere quella principale”, ha commentato il politologo Sergej Markov, ex consigliere del presidente.
Stessa tesi sostenuta dal deputato Mikhail Deljagin: “Non si può escludere che, incolpandoci di questo sacro sacrificio (termine di Berezovskij), l’Occidente sarà finalmente in grado di rubarci i 300 miliardi di dollari congelati”.
Per Maria Zakharova, portavoce del ministero degli Esteri, le accuse dell’Occidente contro la Russia sarebbero un’autoincriminazione. Il ritornello si ripete uguale dopo ogni morte eccellente. “Navalny era stato dimenticato da tempo da tutti e non aveva senso ucciderlo, soprattutto prima delle elezioni”, ha commentato ad esempio la giornalista Margarita Simonjan, a capo di Rt, ex Russia Today. Ad avvantaggiarsene, ha detto, sarebbero semmai “forze completamente opposte”.

Ma come ha commentato il Nobel per la Pace Dmitrij Muratov, raggiunto telefonicamente da Repubblica, “a ogni omicidio di giornalista o politico russo, la propaganda ufficiale reagisce allo stesso modo: nessuno aveva bisogno di questa morte. Ma per qualche motivo loro muoiono e non se ne trovano i responsabili”.