«Il Mes? Ora si può fare». Alessandro Rivera saluta il ministero dell’Economia

«Il Mes? Ora si può fare». Alessandro Rivera saluta il ministero dell'Economia «Il Mes? Ora si può fare». Alessandro Rivera saluta il ministero dell’Economia

Alessandro Rivera lascia il ministero dell’Economia. Poco meno di un anno fa il governo di Giorgia Meloni lo sollevò dal ruolo di direttore generale del Tesoro, con una decisione che creò molte controversie. Entrato nel Tesoro di Mario Draghi 23 anni fa, ora Rivera abbandona il servizio pubblico e dal mese prossimo sarà senior advisor per l’Europa del fondo di private equity Bain Capital, con particolare attenzione al settore finanziario. Questa è la prima intervista della sua carriera. «Servire lo Stato è un privilegio e io sono stato fortunato, ho potuto farlo da una prospettiva unica», dice.

Il suo allontanamento sollevò molte polemiche. Giustificate?

«Il cambio è nella logica delle cose, e un avvicendamento ben pianificato può essere l’occasione per le strutture di ripensarsi. Nel mio caso il passaggio è stato piuttosto repentino, ma tutto si è svolto in modo ordinato e in serenità di rapporti con il ministro Giancarlo Giorgetti e la presidente Meloni. I miei successori, Riccardo Barbieri e Marcello Sala, stanno facendo un ottimo lavoro».

Lo spoils system rischia di politicizzare troppo le amministrazioni?

«Credo che il tema non sia tanto nell’ampiezza dello spoils system, quanto nella capacità e nella forza intrinseca dell’amministrazione. Che spesso è bassa, ed è lì il problema. Un’amministrazione ben equipaggiata è una garanzia per tutti, a cominciare dal governo stesso. Quando le amministrazioni sono fragili, deboli, diventa elevato il rischio che l’iniziativa politica si traduca in decisioni errate, anche rispetto agli obiettivi che la politica vuole darsi. E quanto più elevata è l’ambizione politica, tanto maggiore è l’esigenza di strutture capaci e solide».

C’è un consiglio che si sente di dare all’attuale governo?

«Giorgetti ha impostato una politica di bilancio equilibrata e prudente. Ha una lunga esperienza e ha ben presente quale elemento di fragilità sia il nostro debito pubblico. Positivo anche che si stia dando attuazione al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), senza il quale la nostra economia difficilmente può far bene, anche perché siamo in rallentamento. Il governo ha una forza politica interna che altri governi oggi non hanno. È uno scenario quasi inedito, questo: dà una leva internazionale all’Italia, che è molto utile. C’è la possibilità di darsi una visione che vada oltre il ciclo elettorale: una prospettiva di lungo termine, che permetta di affrontare in modo deciso le nostre fragilità strutturali. È qui che andrebbe fatto un investimento politico».

Che intende dire?

«Ci sono le condizioni perché siano affrontati alcuni dei nostri nodi strutturali. Molti sono comuni al resto d’Europa: la produttività non va, siamo poco presenti nei settori più innovativi, la demografia è preoccupante. Su temi simili non funziona una programmazione anno per anno o, peggio, cambiando le cose sistematicamente. Bisogna guardare oltre l’oggi. Si potrebbe pensare al metodo di lavoro del Pnrr, basato su programmazione lunga e valutazione sui risultati, come modello per il Paese. Dobbiamo imparare a pensarci non domani, o alla prossima scadenza elettorale. Ma tra dieci o vent’anni».

Altri consigli?

«Davvero nessuno, se non una raccomandazione che mi sentirei di dare al potere in generale: è sempre bene diffidare della compiacenza. Ho visto fare le sciocchezze più grandi a quelli che si sono ritrovati circondati solo da persone che davano loro ragione. Mai scambiare competenza e lealtà con la fedeltà: può costare caro, anche sul piano politico».

Qual è il suo giudizio su questo percorso del Monte dei Paschi di Siena?

«Dopo la chiusura senza accordo del negoziato con Unicredit, con l’appoggio del ministro Daniele Franco, abbiamo cambiato i piani: da un’operazione di cessione si passò a un aumento di capitale. Fu individuato un manager, Luigi Lovaglio, che ha impresso un’accelerazione alla ristrutturazione, con un nuovo piano industriale. Su questa base l’aumento di capitale è stato chiuso con successo, in difficili condizioni di mercato. Così sono state create le condizioni per il rilancio della banca, che mi pare proseguire sempre meglio».

Ci sono state alcune critiche sul dossier Ita…

«Gli elementi raccolti nella procedura per la cessione della partecipazione suggerivano un approfondimento con uno dei partecipanti, per verificare la qualità della proposta. Questa valutazione è stata condivisa al livello politico. L’approfondimento ha poi portato a concludere che non ci fossero le condizioni per proseguire. Non è strano, nel settore privato accade regolarmente. La stessa procedura di selezione, ripresa e proseguita, ha poi portato al negoziato con Lufthansa, una delle ultime cose da me avviate al Tesoro».

Lei ha anche gestito il negoziato recente sul Meccanismo europeo di stabilità. Come valuta la riforma?

«Facciamo attenzione, direi, a non confondere i simboli con la sostanza. Capisco le ragioni per cui il Mes non gode di buona reputazione. Ma abbiamo negoziato duramente per togliere dall’accordo tutti gli aspetti che potessero essere controversi o contrari ai nostri interessi. Non ci sono più. E il ministro Giovanni Tria tenne il punto. L’unico cambiamento di rilievo è permettere al Mes di sostenere le banche in caso di estrema necessità, con un prestito. Ed è nell’interesse di tutti».

Qual è stato il momento più difficile, in questi anni al Tesoro?

«Non ce ne sono stati pochi. Vittorio Grilli e il ministro Giulio Tremonti mi vollero direttore del settore bancario e finanziario nel 2008, l’anno della Lehman. E presto arrivarono le crisi bancarie, gestite tra vincoli ogni giorno più intricati, con il ministro Pier Carlo Padoan. Non c’è stata una crisi finanziaria, anche perché si attivò una rete. Penso alla collaborazione con la Banca d’Italia, alle fondazioni, che non fecero mancare il loro contributo, alle stesse banche, che costituirono un nuovo fondo per coprire i costi di alcuni interventi. E anche la pandemia, una situazione quasi irreale. Eravamo al lavoro tutti i giorni, senza soste, nella città che sembrava deserta, con il ministro Roberto Gualtieri e il suo staff, ad elaborare misure e portare avanti negoziati in Europa. Ho avuto la fortuna di avere con me una squadra di eccellenze, il Tesoro, fatta di persone competenti e dedite. E coraggiose».

Cosa pensa del nuovo Patto di stabilità che si profila?

«Positivo che si accettino con realismo correzioni di bilancio più graduali e che si guardi alla componente di crescita, con investimenti e riforme, dunque con una valutazione più equilibrata sul debito. Ma trovo parziale e non obiettivo che nella sostanza le regole restino fissate sui saldi di finanza pubblica, debito e deficit. Non sono i soli fattori che incidono sugli altri Paesi europei. E focalizzarsi solo su quelli contribuisce ad alimentare narrazioni sbagliate e tossiche: da chi usa il debito come misura che distingue i virtuosi dai viziosi, a chi coltiva l’illusione che fare più debito sia la chiave del benessere e il rancore verso chi In Europa non lo permette».

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