Israele, la «non crisi» e il sorpasso sull’Europa: come funziona il modello startup

Israele, la «non crisi» e il sorpasso sull'Europa: come funziona il modello startup Israele, la «non crisi» e il sorpasso sull’Europa: come funziona il modello startup

Questa newsletter (Whatever it Takes di Federico Fubini) cerca di occuparsi di economia per quello che è: non un sistema retto solo dalle proprie leggi e avulso dal resto, ma legato ai fenomeni politici e all’evoluzione psicologica nella società. Anche per questo ciò che sta accadendo in Israele ci interpella. Il principale indice azionario è crollato del 12% dopo l’attacco del 7 ottobre, eppure da allora ha recuperato. La valuta israeliana, lo shekel, è oggi più forte rispetto all’euro di quanto fosse prima dell’inizio della guerra. E benché il 2,5% della popolazione sia sfollato e l’8% degli occupati siano ora sotto le armi – spesso, i più dinamici e produttivi – il Paese non sembra piombato in recessione. E una guerra che costa oltre 250 milioni di dollari al giorno non sembra mettere una pressione insostenibile sul bilancio. Israele è un modello civile di tenacia? È il prototipo di come un’economia moderna deve organizzarsi per resistere ai grandi choc, così tipici del nostro tempo? E la sua apparente forza in qualunque circostanza significa che in realtà il governo non ha bisogno di una soluzione politica alla questione palestinese? Vediamo.

Il grafico che vedete qui sopra è tratto dalla base dati della Banca mondiale e mostra l’andamento del prodotto interno lordo per abitante e in dollari dell’Italia e di Israele fra il 2005 e il 2022. Non ho dubbi che le imprese in Israele abbiano sviluppato una capacità di adattarsi alle crisi che qui in Europa andrebbe studiata. Lo hanno dimostrato ancora una volta. Masterschool, una start up di Tel Aviv nel campo dell’educazione digitale con investitori per cento milioni di dollari, ha evitato la paralisi anche quando i suoi tre fondatori sono stati richiamati sotto le armi: i tre hanno rapidamente assunto un nuovo addetto e lo hanno formato a distanza, durante le pause delle esercitazioni o delle operazioni a Gaza. Phoenix, il primo assicuratore israeliano, ha riunito il top management la mattina stessa degli attacchi del 7 ottobre, in modo da garantire la continuità operativa. Mentre verso Israele venivano sparati migliaia di missili di Hamas, a Phoenix il lavoro è stato riorganizzato da remoto e l’attività non ha rallentato neanche per un giorno.

Sono solo due esempi tra migliaia, probabilmente. Se Israele non sembra piombato in recessione, si deve anche a un’adattabilità forgiata in 75 anni di minacce. Roger Abravanel, che siede nel consiglio di amministrazione di Phoenix e ha fondato l’ufficio di McKinsey a Tel Aviv, nota come questa tenuta sia particolarmente visibile sui mercati finanziari: in media un anno dopo ciascuno dei conflitti dall’inizio del secolo il principale indice di borsa di Tel Aviv era salito del 32% rispetto alla vigilia delle guerre; un anno dopo il crash di Lehman aveva messo a segno una crescita del 93%. È come se la società fosse ben allenata a restare aperta malgrado tutto. In questo i Paesi europei avrebbero qualcosa da imparare, dopo le esperienze della crisi finanziaria, del Covid e della crisi energetica legata alla guerra in Ucraina. «Tutta questa capacità di continuare a lavorare e creare valore è una dimostrazione di amore per la vita», sostiene Abravanel.

Un segreto è nella composizione del reddito di Israele. Le imprese tecnologiche rappresentano poco più del 12% dell’occupazione, ma il 17% del prodotto interno lordo e oltre il 50% delle esportazioni. E un’economia fondata sulla conoscenza è più difficile da paralizzare di una fondata sull’industria o sul turismo. E di certo la progressione della crescita dopo grande crash del 2008 darebbe agli israeliani qualche buona ragione di essere fieri di sé. Guardate anche il grafico qua sotto, da fonte Banca mondiale su anni 2005-2022, che ora include anche la Germania.

Negli ultimi quindici anni il reddito per abitante dello Stato ebraico ha raggiunto e superato di netto quello dell’Italia e di recente ha messo a segno il sorpasso anche sulla Germania. Vero, come osserva Itai Ater dell’Università di Tel Aviv, esiste anche un’altra prospettiva: a parità di poteri d’acquisto, cioè in proporzione al tenore di vita possibile con somme uguali nei diversi Paesi, il reddito per abitante in Israele resta sotto quello di Germania o Italia. Ma questo paradosso si spiega con il fatto che lo shekel si è fortemente rivalutato sull’euro e sul dollaro negli ultimi dieci anni: non solo per la scoperta di giacimenti di gas in acque israeliane, ma anche per gli investimenti e l’export del settore tecnologico. Insomma Israele ha continuato ad andare molto bene anche quando le altre economie avanzate faticavano e da Gaza o dal Libano del sud piovevano missili.

Ma poiché l’economia non è un mondo a sé, tanto successo potrebbe anche aver indotto una sorta di accecamento collettivo di parti del Paese e dei governi di Benjamin Netanyahu. Molti si saranno detti che cercare di fare la pace con i palestinesi era ormai inutile, perché Israele poteva prosperare comunque. Un’economia un tempo in via di sviluppo ora stava diventando più ricca dell’Europa avanzata. E’ nata così in molti l’idea che la società potesse arricchirsi e fiorire anche senza soluzione al problema palestinese. Dice Itai Ater, l’economista dell’Università di Tel Aviv: «Forse quest’argomento si poteva sostenere prima del 7 ottobre. Ma ignorare il conflitto e permettere persino a Hamas di rafforzarsi ci è costato l’essersi fatti trovare impreparati di fronte al terrorismo». La pensa così anche Anna Momigliano, corrispondente dall’Italia del quotidiano israeliano Haaretz. «L’illusione che non risolvere la questione palestinese non avesse conseguenze dirette per gli israeliani è andata in frantumi il 7 ottobre, perché si basava sul presupposto che la crescita e l’aumento del benessere potessero coincidere con uno stato non di pace, ma di quiete». Quell’illusione, osserva Anna Momigliano, era legata al dinamismo del Paese. «Ma cosa ci fai dei soldi se tuo figlio è in guerra e tuo nipote va a scuola sotto le bombe?».

Resta da capire se quella forma mentis (“non abbiamo bisogno di cercare la pace, perché siamo dinamici e resilienti”) riemergerà dopo la guerra. Nessuno per ora può dirlo. Anche perché non è detto che la tenuta dell’economia sia solida come appare. Yoram Gutgeld, uno startupper italo-israeliano nel settore della sanità, pensa che non vada sottovalutato l’impatto di questa guerra sull’economia. «Non è lontanamente paragonabile a quello subito dalla Russia o alle conseguenze del Covid», dice. «Ma per Israele una recessione l’anno prossimo è probabile». Quanto al futuro, secondo Gutgeld è molto probabile che un forte aumento della spesa militare nei prossimi dieci anni graverà sul bilancio e sugli investimenti. «Non abbiamo ancora visto le conseguenze reali di quanto è successo – avverte Gutgeld –. Servirà del tempo per capire».

Dunque certe prove devono ancora arrivare. A partire da quella che si intuisce nel primo grafico in alto, elaborato da Itai Ater, con gli economisti israeliani Tzachi Raz e Yannay Spitzer. Mostra che da quando quasi un anno fa Netanyahu ha cercato di piegare l’indipendenza del potere giudiziario, per la prima volta la borsa di Tel Aviv ha iniziato ad andare molto peggio dell’indice S&P500 di New York. È una divaricazione inedita, fra le due. Ater spiega, secondo lui, perché: «Si è diffuso il timore che il colpo di mano giudiziario di Netanyahu riuscisse e finisse per indebolire i poteri di controllo in Israele – dice Ater – danneggiando l’economia e scoraggiando gli investimenti».

In sostanza grava sul futuro del Paese una gigantesca questione Netanyahu, il premier che cerca distorcere le istituzioni a proprio vantaggio. La sua sola presenza è in grado di scoraggiare gli investimenti, ma l’interessato lotterà fino all’ultimo per non mollare la presa. E certo l’esito della guerra, ma anche la sua durata, conteranno moltissimo per il futuro del premier che vuole distorcere la democrazia nel suo Paese a costo di rovinarne l’economia. Visto dall’Europa, anche questo è un fattore da studiare. Forse però non da imitare.

Questo è articolo è apparso nella newsletter Whatever it takes, curata da Federico Fubini, del Corriere della Sera. Per iscriversi, cliccare qui.

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