Il rientro dei cervelli in Italia e il taglio dei benefici fiscali. «Così ci sentiamo traditi»
di Massimiliano Jattoni Dall’Asén
Nel 2021 75 mila expat italiani hanno scelto di tornare a casa (ma oggi si stima possano essere già 110 mila). Il numero più alto da quando l’Italia ha smesso di essere un Paese di migranti al principio degli anni 70 del Novecento. Ora, per la prima volta, il saldo migratorio tra chi parte e chi rientra in Italia è tornato per la ai livelli del 2011, cioè prima della decennale crisi economica che ha attraversato il nostro Paese come il resto del mondo. Il richiamo delle origini, la famiglia e la nostalgia hanno giocato un loro ruolo in questo ritorno, ma a fare la vera differenza, tra restare all’estero e tornare (per ricominciare) in Italia l’hanno fatta gli incentivi fiscali che dal 2015 sono rivolti un po’ a tutti i nostri lavoratori emigrati all’estero (prima di quell’anno le agevolazioni erano riservate ai soli ricercatori, sperando di colmare così il gap che si era creato nel Paese dopo l’esodo dei nostri migliori cervelli).
di Massimiliano Jattoni Dall’Asén
A ottobre scorso, però, c’è stato un terremoto. Il governo Meloni ha infatti deciso di sforbiciare le agevolazioni fiscali per il rientro in Italia, mandando nel panico migliaia di nostri connazionali che stavano progettando di rientrare tra la fine di quest’anno e il 2024. Davanti alla protesta degli expat (qui avevamo raccolto molte delle loro storie), che si sono organizzati in un gruppo WhatsApp e hanno avviato una raccolta firme per chiedere a governo di tornare sui suoi passi, l’esecutivo ha dovuto fare una piccola retromarcia, con il viceministro dell’Economia Maurizio Leo a rassicurare che la nuova norma sarà in vigore solo dal primo gennaio 2024 e, dunque, chi è rientrato o rientrerà in Italia quest’anno, anche se le residenze prese dal luglio in poi risulteranno fiscalmente dal 2024, potrà ancora agevolarsi della vecchia misura. Questa, finora ha previsto che solo il 30% dei redditi prodotti in Italia da un impatriato concorre alla formazione del reddito complessivo che verrà poi tassato (se ci si trasferisce al Sud, lo «sconto» sale al 90%).
Dal 2024, però, non ci saranno petizioni che tengano: il governo ha deciso di calare la mannaia sulle agevolazioni e portare l’aliquota al 50% per tutti, oltre a richiedere un periodo più lungo di residenza fiscale all’estero (dagli attuali due anni a tre) e di permanenza in Italia dopo il rientro (cinque anni, pena la restituzione dello sconto), limitando poi l’agevolazione ai connazionali in possesso di requisiti di elevata qualificazione, che al rientro cambino datore di lavoro e che non superino il tetto dei 600 mila euro di reddito. E ora che accadrà? I nostri expat ritorneranno anche se gli incentivi saranno meno vantaggiosi? A questa domanda ha provato a rispondere un sondaggio - realizzato da Forum della Meritocrazia, con chEuropa e Tortuga- sottoposto a quasi 400 nostri connazionali che sono rientrati in Italia: a loro sono state chieste le ragioni del rientro, le aspettative che avevano maturato e come poi si è rivelata essere la realtà.
di Diana Cavalcoli
I 398 intervistati (alto profilo di studi e un’età compresa tra i 26 e i 45 anni) sono rientrati in maggioranza tra il 2016 e il 2023, dopo l’entrata in vigore cioè del decreto legislativo 147 del 2015, quello dedicato appunto ai «lavoratori impatriati». Fino al 2015, infatti, i lavoratori dipendenti del settore privato rappresentavano solo il 28% dei rimpatriati, i lavoratori autonomi o imprenditori il 4%, ma tra il 2016 e il 2023 queste percentuali sono passate rispettivamente al 45% e al 13%, come spiegano i realizzatori del sondaggio che presenteranno la loro ricerca il 30 novembre al Palazzo del Lavoro di Gi Group, a Milano.
«I dati dimostrano che gli incentivi per il rientro del capitale umano, a partire dalla legge Controesodo del 2010, sono stati un buon investimento, con un costo contenuto rispetto ai benefici di medio-lungo periodo che ne può trarre il paese», spiega al Corriere Maria Cristina Origlia, presidente del Forum della Meritocrazia. «Il rientro di capitale umano comporta l’inserimento di competenze manageriali, modalità di lavoro innovative, abitudine a collaborare a livello internazionale, che innescano un circolo virtuoso nelle organizzazioni italiane, rendendole più competitive. Parallelamente, bisognerebbe intervenire sulle criticità strutturali che frenano le spinte trasformative, promuovendo una reale cultura meritocratica», conclude Origlia.
di Diana Cavalcoli e Massimiliano Jattoni Dall’Asén
Scendendo nel dettaglio, dei 398 intervistati, più della metà sta usufruendo degli incentivi. La percentuale tuttavia sale al 70% tra coloro che lavorano nel settore privato (quasi l’80% tra coloro che lavorano in aziende con più di 1000 impiegati) e scende a meno del 40% tra il settore pubblico e il lavoro autonomo o l’imprenditoria. Ma la cosa interessante è che due terzi degli intervistati rientrati nel 2016-23 e che sta usufruendo di incentivi dichiara che in mancanza di essi sarebbe rimasto all’estero o avrebbe ritardato il rientro. Questa percentuale sale a tre quarti tra i dipendenti del settore privato. Insomma, tagliare gli incentivi per il rientro degli expat è una mossa che probabilmente contribuirà a privare l’Italia nei prossimi anni di una ricchezza in termini di professionalità e competenze che il nostro Paese in realtà non si può permettere di lasciarsi sfuggire.
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22 nov 2023
© RIPRODUZIONE RISERVATA
di Massimiliano Jattoni Dall’Asén
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di Massimiliano Jattoni Dall’Asén