Intel, il piano della riscossa di Patrick Gelsinger: «I microchip disegniamoli noi»
Appena ritornato dalla Cina sono andato a sentire uno che si occupa della sfida cinese a tempo pieno, o quasi. È Patrick Gelsinger, chief executive di Intel. Per chi non lo sapesse, la Intel è una multinazionale con quartier generale in California. All’origine ha contribuito a far sì che la Silicon Valley venisse chiamata così. Il silicio è una materia prima essenziale per produrre semiconduttori o microchip, circuiti integrati, memorie e cervelli di ogni cosa digitale. Il silicio non si estrae in quella zona della California, alla Silicon Valley fu dato quel nome quando era il centro mondiale nella fabbricazione dei microchip. E Intel era la regina del settore. Passato remoto, ormai.
I semiconduttori
I semiconduttori hanno avuto una diffusione esponenziale, Gelsinger stima che «entro il 2030 anche un prodotto maturo come l’automobile sarà per il 20% materiale elettronico quindi microchip. La manutenzione di una vettura, le riparazioni, le migliorìe nella sicurezza, avverranno a distanza scaricando gli upgrade dal cloud, come oggi facciamo con un iPhone».
Ma in questo mondo dove i microchip sono diventati ubiqui, la Intel ha ceduto lo scettro da tempo. La taiwanese Tsmc è numero uno mondiale, seguita dalla sudcoreana Samsung. Molte aziende giapponesi e cinesi si classificano tra le prime. I cinesi sono indietro sulle categorie più avanzate di microchip, e le recenti restrizioni di forniture tecnologiche imposte dall’America puntano a prolungare questo ritardo di Pechino. Però nei semiconduttori di qualità media, usati soprattutto per apparecchi come cellulari e auto, la Cina c’è eccome.
Recuperare il ritardo
Ora l’Intel sotto la guida di Gelsinger ha una missione: recuperare il terreno perduto. Per sua decisione aziendale, e d’accordo con l’Amministrazione Biden che vuole ridurre la dipendenza Usa dall’Estremo Oriente. «L’America — dice Gelsinger — raddoppierà la sua quota di produzione mondiale in un decennio, passando dal 10% al 20% del totale. Possiamo farcela. Ma dobbiamo recuperare trent’anni di ritardo rispetto a Taiwan, Corea del Sud, Cina. Trent’anni durante i quali quei Paesi hanno fatto una politica industriale iperattiva, noi no».
Gli errori
Il numero uno di Intel ha una spiegazione su come a quel ritardo abbiano contribuito scelte strategiche del settore privato in America, compresa la sua azienda. «Abbiamo trascurato e rimpicciolito la nostra capacità manifatturiera perché i margini di profitto erano più elevati in tutte le attività legate al software». Di conseguenza gli Stati Uniti rimangono leader mondiali nella progettazione, nel design di semiconduttori, soprattutto le tipologie più avanzate. Ma dipendono da Taiwan, Corea del Sud e perfino Cina per la produzione industriale di quei microchip. Ora l’orientamento strategico è cambiato. Sotto shock multipli — tensioni geopolitiche con la Cina, pandemia, guerra in Ucraina — l’America a tutti i livelli (establishment capitalistico e governo) vuole recuperare il controllo sulla supply-chain, la catena di approvvigionamento e fornitura. «La parola d’ordine è che nei settori strategici la nostra supply-chain deve cominciare e finire negli Stati Uniti».
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Ritorno alle origini
Dunque, Intel torna a un mestiere delle origini che aveva tralasciato: le foundry cioè «fonderie» oppure fab, grandi fabbriche che producono semiconduttori su ordinazione per clienti. È una sorta di mestiere da terzista, che Intel aveva abbandonato per concentrarsi su semiconduttori che usava lei stessa.
Sul fronte governativo questo cambio di strategia viene incentivato da leggi come l’Inflation Reduction Act e soprattutto il Chips Act, varate da Biden per distribuire sussidi a chi riporta produzioni sul territorio nazionale. Intel ne sta beneficiando con la costruzione di due fabbriche in Arizona e Ohio.
Una critica viene rivolta a questi programmi di spesa pubblica, in nome dell’economia di mercato. I governi, i politici, non sono adatti a selezionare le aziende vincenti. Solo la vera competizione di mercato può operare questa selezione. Ma Gelsinger difende la politica industriale di Biden con questo argomento: «L’esperienza di Taiwan e della Corea del Sud cosa ci insegna? I governi non scelgono i vincitori, è vero, quelli emergono da dinamiche di mercato. Gli Stati però possono selezionare i settori industriali che vogliono allevare. In fondo l’America a suo tempo seppe farlo, per esempio con l’agenzia Darpa del Pentagono, che fu all’origine di tante innovazioni incluso Internet».
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La posta in gioco
La posta in gioco strategica è sottolineata da questa ulteriore evoluzione, che Gelsinger sottolinea: «Ormai tutti i nostri colossi hanno cominciato a disegnare in proprio, a progettare i microchip su misura che gli servono: lo fanno Amazon e Microsoft, Apple e Tesla, un produttore di armamenti come Lockheed, perfino il Pentagono. Hanno bisogno di qualcuno che glieli fabbrichi. Dobbiamo essere noi di Intel a farlo».
Il settore privato in America deve recuperare anche un altro tipo di ritardo. «Le nostre politiche fiscali hanno disincentivato gli investimenti in ricerca e sviluppo, sono meno deducibili che altrove. Il risultato: la Cina oggi investe il 6% del suo Pil in ricerca e sviluppo, l’America il 2%».
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I talenti, l’embargo sulla Cina
Gli Stati Uniti conservano una lunghezza di vantaggio nella capacità di attrarre talenti internazionali. «Ma dobbiamo tornare a una politica dell’immigrazione aperta. Arrivo a dire che chiunque sbarchi qui dall’estero con una laurea in ingegneria elettronica, dovrebbe ottenere automaticamente la nostra Green Card».
Sull’embargo contro la Cina, il chief executive di Intel riprende e approva l’espressione usata dal National Security Adviser di Biden, Jake Sullivan: «Le restrizioni al nostro export di tecnologie devono costruire un recinto di protezione molto alto intorno a un cortile molto ristretto e delimitato». Cioè: dobbiamo essere severi nell’impedire che Pechino compri da noi o dai nostri alleati le tecnologie più sofisticate (microhip inclusi) che potrà usare anche a fini militari. Su tutto il resto, invece, vale il contrario: «Noi dobbiamo vendere alla Cina. Quel Paese rappresenta il 25% della domanda mondiale di semiconduttori. Guai a privarci di uno sbocco di mercato così largo. Saremmo più poveri e quindi meno capaci di finanziare le nostre innovazioni».
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